Nelle canzoni «di successo» è quasi impossibile trovare un'ispirazione artisticamente libera per impiantare una riflessione seria sui giovani. Ciò che muove la «creatività» di gran parte del mondo della canzone è quasi esclusivamente...
del 20 ottobre 2005
Come le canzoni oggi parlano dei giovani? Temo di dover deludere le aspettative di coloro che credono nelle canzoni come reale «specchio» di una generazione, che la ascoltano anche con l’idea di riconoscervi «fotografie» della vita dei giovani. Non è così, salvo eccezioni perlopiù poco conosciute. È infatti bene chiarire subito che non esistono solo le canzoni che hanno accesso ad ogni possibile canale di comunicazione. Ce ne sono tante altre alle quali non viene mai concesso spazio e che invece meriterebbero più attenzione.
Nelle canzoni «di successo» è quasi impossibile trovare un’ispirazione artisticamente libera per impiantare una riflessione seria sui giovani. Ciò che muove la «creatività» di gran parte del mondo della canzone è quasi esclusivamente l’interesse economico o l’affermazione. Quindi le canzoni «di successo» sono «specchio» solo parzialissimo della realtà giovanile. I giovani protagonisti delle canzoni non sono per forza reali. I testi non sono composti per raccontare una storia, denunciare un problema, suggerire un pensiero, interpretare il pensiero, i gusti, le domande, le inquietudini di una generazione. Laddove si arrogano il merito di farlo, dietro ci sono sollecitazioni tutt’altro che solidali con i giovani. I testi sono studiati per piacere al pubblico dei giovani. Questo rende magari i brani da «hit parade» particolarmente «accattivanti», ma il fatto che siano piacevoli non li rende meno falsi.
Davanti a questa poco simpatica situazione, assume a volte contorni grotteschi e comici l’affannoso seguire le penultime mode da parte di molti operatori pastorali che hanno scoperto che con le canzoni che piacciono ai giovani si possono anche animare le discussioni nei gruppi di parrocchie o di associazioni, quando addirittura non fare catechesi.
È bene chiarire immediatamente che, tranne le solite benedette eccezioni, la realtà attuale della canzone italiana (fermiamoci, per comodità e per ragioni di spazio, al nostro Paese) è almeno inquietante ed irritante. È francamente assai difficile scorgervi una dimensione culturale che consenta di usarle per comprendere meglio il mondo dei giovani.
Le sollecitazioni che muovono oggi la stragrande maggioranza degli autori delle canzoni che i giovani divorano sono tutt’altro che nobili ed economicamente disinteressate. L’arte, purtroppo, è una prerogativa di pochi e quei pochi appartengono quasi tutti alla «seconda schiera», non sono cioè famosissimi. In un periodo di grave crisi discografica, tanto che vendere i «pezzi» (compact disc o audiocassetta) è impresa eroica, prevalgono le strategie di mercato sulla voglia di comunicare. Così anche le migliori intenzioni ed intuizioni finiscono per affogare. Le eccezioni non mancano, ma trattasi pur sempre di eccezioni.
A questo – parlando sempre nell’ottica dell’interesse concreto degli operatori pastorali – bisogna aggiungere il sorprendente, almeno la sorpresa credo sia d’obbligo, numero di canzoni che affrontano, direttamente o meno, temi di carattere religioso. Se da una parte questa «ondata» di brani «religiosi» favorisce gli spunti di discussione per i gruppi giovanili, dall’altra dovrebbe mettere in guardia. È buona regola non lasciarsi sopraffare da entusiasmi superficiali e non perdere il vezzo di far uso dell’intelligenza. Perché quasi tutti i cantanti italiani hanno avuto proprio ora l’ispirazione di scrivere una canzone «spirituale», tutti insieme e tutti adesso, all’unisono, quasi ci fosse stato un passaparola? La sorpresa, appunto, è almeno doverosa visto che alle espressioni di «spiritualità» contenute nelle canzoni quasi mai fanno compagnia dichiarazioni dignitose sulla fede da parte di coloro che quelle canzoni le scrivono. Qui la casistica è lunga ed esilarante.
È poi bene tener conto della logica «funzionale» – e non «emozionale» – che governa il mondo della canzone. Per l’industria discografica il vero problema è vendere il prodotto, è convincere il pubblico, composto quasi esclusivamente dai giovani, ad acquistarlo oppure ad andare al concerto. La moda della «spiritualità» nella musica leggera entra in questo contesto mercantile.
Quando si parla del rapporto tra giovani e canzoni credo che questa realtà vada sempre tenuta presente. Altrimenti si rischiano superficiali considerazioni. Certamente la canzone è un linguaggio che le nuove generazioni conoscono ed usano in maniera evidente. È facile che i più giovani si identifichino nei loro cantanti preferiti e ripetano mille volte la canzone che ritengono scritta quasi apposta per loro. Il criterio fondamentale a cui un cantante deve attenersi per piacere ai giovani è quello di essere «vero». La prima domanda che i ragazzi pongono a qualcuno che ha conosciuto il loro cantante preferito è sulla sua «autenticità». E guai a metterla in dubbio... tanto non ti crederebbero.
 
 
LA PAROLA A TRE AUTORI DI SUCCESSO
 
Per non far la figura del «vecchio brontolone», sempre pronto a far polemiche, preferisco lasciare la parola ad alcuni dei cantanti che, direbbe Mike Bongiorno, «vanno per la maggiore». Quelli, insomma, in testa alle classifiche di vendita, sempre bene in mostra sugli scaffali e nelle pagine dei giornali, sempre in prima fila sugli schermi televisivi e nei palinsesti radiofonici.
Diamo loro la parola, stavolta però senza il filtro delle loro case discografiche, dei loro addetti stampa e dei loro manager. E ascoltandoli possiamo così provare a capire anche che cosa i giovani vogliono sentirsi dire. Purtroppo spesso le cose coincidono. Dico purtroppo perché non dovrebbe essere per forza così. Se la canzone ha la pretesa di essere una forma artistica, culturale, non dovrebbe far di tutto per piacere al maggior numero possibile di persone, di acquirenti. Invece le canzoni «di successo», quasi tutte, sono evidentemente composte, ed arrangiate, per toccare le corde più care ai giovani. Che le prendono invece quasi come «confidenze» di un amico più grande. Questa situazione toglie alla canzone gran parte delle sue potenzialità di espressione autentica del mondo giovanile e nel mondo giovanile.
Incontriamo da vicino Max Pezzali (883), Marco Masini e Massimo Di Cataldo.
 
 
Faccio volontariato, ma canto l’opposto (Max Pezzali - 883)
 
Domanda. Hai mai pensato come una tua frase buttata là in una canzone possa essere recepita dai ragazzi che ascoltano? La stragrande maggioranza di chi ti segue non ha la preparazione, neppure culturale, per saper distinguere i messaggi costruttivi, positivi, da quelli che certamente non lo sono.
Risposta. La risposta sta nelle cose che scrivo nelle mie canzoni. Le frasi che canto, le storie che racconto, non presuppongono alcun tipo di preparazione culturale né di formazione. Quindi il problema non esiste. Non mi sono mai posto il problema di lanciare messaggi o comunque di andare oltre la mia esperienza quotidiana. In pratica parlo con il linguaggio corrente, lo stesso delle persone che sentono la mia musica. Le possibilità di fraintendimenti, il rischio cioè che le mie canzoni diano adito a conseguenze negative, le ritengo molto remote. L’industria ce l’hanno dietro tutti, ma non tutti arrivano al successo. Penso che il nostro successo sia dovuto al fatto che in linea di massima noi raccontiamo storie normali, vissute da ragazzi normali.
 
D. Hai dichiarato di aver fatto l’obiettore di coscienza alla Croce Rossa e di essere un sostenitore del volontariato, però non hai mai parlato di queste esperienze nelle canzoni, esperienze oltretutto diffuse tra i giovani. Sarebbe un argomento più interessante di quelli che affronti abitualmente che certo non sfiorano mai il tema della solidarietà.
R. Ci sto pensando, purtroppo quando fai una canzone devi pensare che dev’essere fruibile. Ho pensato di chiamare una canzone come l’ambulanza che ho sempre usato: la numero «009». La pulivo 30 volte al giorno! Lì sopra si sono consumate più tragedie e più atti di «piccolo eroismo quotidiano» che non su un palcoscenico con accese sopra le luci e le telecamere attorno. Ci sto pensando seriamente, è un’idea che sto curando da tempo.
 
D. Tutto bene, però se si ascoltano le tue canzoni sembra di stare su un altro pianeta. Di questi tuoi discorsi impegnati non c’è neppure un vago accenno perché l’unico problema dei protagonisti delle tue canzoni è trovare «una ragazza che ci sta».
R. Sono convinto, invece, che non c’è alcuna contraddizione anche se capisco la tua domanda e dico subito che il discorso sarebbe lunghissimo. La vita è un insieme di sensazioni, di emozioni e di esperienze.
Quello che, secondo me, ha fatto per tanto tempo perdere di vista il messaggio nelle canzoni cosiddette impegnate, è stato proprio l’eccessivo manierismo. È vergognoso fare una canzone impegnata per forza. Non ci crede più nessuno: tu stai tutto il giorno, tutta la vita, con le tue canzoni, a pensare a cose tristissime? Davvero vivi così male? La categoria dei cantautori è quella che vive peggio al mondo, che soffre di più? Non è vero! La musica leggera, le canzonette, devono essere lo specchio reale della vita che è un insieme di sensazioni: c’è l’innamoramento, il piacere dell’amicizia, dello stare insieme, tutti in giro a fare gli stupidi per il gusto di una serata tra amici. Solo così si riesce a dare un quadro della vita.
L’impegno e il pensare agli altri non è assolutamente separato dall’andare in discoteca, dal divertirsi, dallo stare bene insieme.
Anzi, proprio lo stare bene insieme fa capire come l’amicizia di gruppo sia anche solidarietà. Magari c’è l’amico in difficoltà e bisogna affrontare insieme i suoi problemi. Se questo vale nel micronucleo dei luoghi di ritrovo tra amici, a scuola, allora forse è possibile, uscendo dal proprio guscio, farlo valere per le forme di aggregazione sociale più ampie.
 
 
Le parolacce appartengono alla mia generazione (Marco Masini)
 
D. Sei accusato di essere un pessimista e di far canzoni che creano disperazione tra i tuoi giovanissimi ascoltatori...
R. Non posso dare soluzioni ai problemi di nessuno perché non le ho. Questa è una critica che mi fa arrabbiare: non dai soluzioni ai temi che tratti. È vero, ma sto ancora aspettando le soluzioni degli altri. Ricevo anche 500-600 lettere al mese, ma non voglio e non so interpretare i fenomeni giovanili. Non do risposte, riesco solo a fare domande. Oggi noi giovani non capiamo cosa sta succedendo e si va in paranoia, siamo tutti schizofrenici. È normale secondo te scandalizzarci di stragi e di guerre davanti alla tv e poi correre in discoteca? Cerco di raccontare ciò che vedo e mi arrabbio quando mi dicono che sono volgare.
 
D. Alcune tue canzoni sono state definite volgari perché piene di parolacce...
R. La volgarità nasce da un disagio insoluto. «Vaffanculo» e «Bella stronza» raccontano storie tipiche dei ragazzi e sono espressioni che, comunque, appartengono alla mia generazione. Non posso farci niente.
Mi chiedo se davvero c’è uno che non dice nemmeno una parolaccia al giorno. Se parlassi come il Manzoni non mi capirebbe nessuno. Invece voglio farmi capire. E a proposito delle parolacce, credo che nessuno sia tanto stupido da comprare un disco perché ce n’è una. Ritengo di scrivere canzoni che rispecchiano la vita di tutti noi. A me non interessa polemizzare con i cattolici che mi hanno accusato di essere volgare e disperato. So che ci sono molti ragazzi credenti tra i miei fans, rispetto le loro idee ma io, non avendo la fede cristiana, parlo da un altro punto di vista.
D. Qual è il tuo punto di vista?
R. È il punto di vista di una persona che è ancora alla ricerca della verità. Cerco una risposta vera alla morte di mia madre, stroncata a 47 anni da un tumore. È una morte che non so accettare, che non ritengo giusta. I temi forti nelle mie canzoni sono una mia scelta. Preti e gruppi cattolici sbagliano quando mi accusano di essere un «prodotto costruito» da ottimi professionisti.
 
D. Non è così?
R. No. Chiedo quindi ai cattolici almeno il rispetto morale. A chi mi accusa di volgarità io rispondo: non la invento io, la raccolgo dalla vita, dalle esperienze dei miei amici, quelli della strada, dello stadio. Noi parliamo così in privato e non me ne vergogno. Questo è il prodotto dei falsi valori del consumismo, dell’assenza della famiglia, della scuola e della società. La Chiesa non l’ho mai sentita vicina alla mia vita.
Le mie canzoni sono piene di speranza. Chi non la trova non ha capito niente di me. Non sono un profeta, una guida. Forse sono un portavoce di tanti giovani che la pensano come me, ma nessuno li ascolta. Forse per questo mi accusano di essere uno che porta «sfiga». Mi secca questa etichetta. Ho una voce drammatica, sono uno normale, non sono «un bello», canto cose semplici che vengono capite all’opposto.
 
D. Puoi fare un esempio?
R. «Il niente» è una canzone che è stata presa a pretesto per dire che Masini non ha valori, è un disperato sfigato. Invece in quella canzone invito a compiere un preciso salto di qualità. Non sono un nichilista, ma uno che invita ad essere più consapevoli di se stessi e della realtà. Lo ritieni un messaggio superficiale? Di politica non m’interesso per nulla, la mia generazione non ha bisogno di chiese, di «mamme», di padri o di santi protettori. Siamo una generazione più realista, forse più cruda. I drammi che ci circondano sono tanti. Penso alla droga, un vero martirio di massa.
 
 
Gesù Cristo? Un «fico» (Massimo Di Cataldo)
 
Domanda. Tu non scrivi canzoni sulla fede e non sei cristiano, però c’è chi usa i tuoi brani per fare catechismo. Che cosa ne pensi?
Risposta. È una notizia che mi ha sorpreso e colpito profondamente. Evidentemente canto parole «buone», quelle che appartengono a noi giovani. Del resto la musica è il canale di comunicazione più diretto, immediato, quello più usato dai giovani. E la Chiesa lo deve utilizzare altrimenti resta indietro e non sa più parlare con i giovani. Conosco alcune persone di Chiesa, anche frati, con cui ho tanti valori in comune. Quando andavo a catechismo, invece, mi annoiavo terribilmente. Se la Messa è una funzione per celebrare, che ne so, Dio, perché dev’essere tutto così triste, grigio, spento, morto? Ma noi siamo vivi! Se noi crediamo che la Messa è bella, facciamola bella! Senza però tornare al barocco per far vedere solo il bello fuori. Il Signor Gesù Cristo è un uomo «fico», uno a cui non gli puoi dire nulla contro. Lui non ha mai detto: adesso invento il cattolicesimo e faccio un sacco di soldi. Al di là di essere o meno Figlio di Dio, può essere un’affermazione discutibile, come uomo ha compiuto tante azioni semplicemente perché sentiva di farle. Poi penso che noi siamo tutti figli di Dio. Quando il Signor Gesù diceva di essere il Figlio di Dio non pensava di essere l’unico, secondo me. Il cristianesimo ha ormai duemila anni. Se noi andiamo a vedere la storia di tutte le religioni, intorno ai duemila anni cominciano a scricchiolare: si sciolgono e ne escono altre. Questa è una cosa che ho studiato per l’esame di storia delle religioni. (n.d.a.: infatti l’hanno bocciato).
 
 
 
UNA QUESTIONE DI LIBERTÀ
 
Signori, se i giovani sono proprio come li descrivono le canzoni di questi autori (se ne potrebbero aggiungere altri, come Ramazzotti), nessuno si sorprenda che lancino sassi da un cavalcavia sull’auostrada, si accoltellino allo stadio o in una discoteca.
I comunicati-stampa che accompagnano l’uscita dei lavori di questi personaggi sono da incorniciare: accanto vanno messi i ritagli di giornali con le «recensioni». L’ultimo disco, di chiunque, è sempre bello, spesso «alternativo» (rispetto a che cosa?), «trasgressivo» (oggi la vera trasgrssione è la «normalità») e si arriva fino al punto di dire che «interpreta i segni dei tempi». In pratica una citazione del Concilio Vaticano II...
Un dispaccio promozionale degli 883 avverte che gli autori «si sono divertiti a mettere in musica i discorsi che quotidianamente fanno con gli amici, i sogni, le risate, le arrabbiature (n.d.a. parola più sfumata di quella realmente usata) e le delusioni di un gruppo di ragazzi di provincia».
Riporto alcuni versi famosi presi a caso (non sono neppure i peggiori): «Sarà bello da guardare come un poster di James Dean, sarà dolce la paura sganciandoci i blue jeans... t’innamorerai di un bastardo che ti dirà bugie... un ritardo di sei giorni che non sai se dirlo a lui» (Masini) – «Ti pretendo è inutile che dici di no... io non ti voglio ti pretendo sei l’unico diritto che ho» (Raf) – «In questo regno dove tutto è permesso lasciati andare e vedrai che se anche non cambia niente lo stesso tu ti divertirai» (883).
Credo che gli operatori di pastorale giovanile possano avere un tassello per un quadro un tantino più preciso della realtà della canzone oggi. Ognuno penso possa trarre da quanto presentato fin qui alcuni elementi per tirare conclusioni proprie e considerare se è il caso di indicare questo genere di cantanti famosi come esempio o di proporre le loro canzoni come argomenti di discussione. Visto che ci sono già i canali della promozione televisiva, radiofonica e giornalistica a dare spazio sempre agli stessi, non sarebbe il caso di aiutare i ragazzi a riflettere su se stessi, sulla loro generazione, anche attraverso canzoni meno conosciute e forse proprio per questo più vere e più belle? Si potrebbe parlare a lungo sulla canzone e sulla sua dignità, sulla sua «utilità»: dovrebbe essere un’arte fatta più di sfumature che di grancasse pubblicitarie o di eccessive illuminazioni, ancorata alla sostanza di scrivere canzoni e di cantarle. È grave che si pensino canzoni apposta per i giovani. Soprattutto agli autori che anagraficamente non rientrano nella catgoria «ragazzi» dovrebbe risultare piuttosto complicato parlare con il linguaggio dei quattordicenni. Invece quanti splendidi quarantenni e cinquantenni che sanno adeguarsi...
Da parte mia, posso indicare in canzoni composte da autori che non sempre sono ai vertici delle classifiche o in televisione alcune splendide «provocazioni», idee, intuizioni che certamente potrebbero essere utili alla creatività e a formulare un pensiero in più. Non mancano autori che nelle loro canzoni riescono a raccontare i chiaroscuri della condizione giovanile. Potrebbe essere interessante l’ascolto di «vecchi leoni» come Fabrizio De André e Paolo Conte e la riscoperta di autori che non hanno avuto l’attenzione che meritano come Mario Castelnuovo e Mimmo Locasciulli. A questo proposito mi permetto di suggerire la lettura del sussidio per gruppi di giovani (14-19 anni) curato dal Servizio diocesano di pastorale giovanile di Roma (edito dalla Ldc).
Credo anche che siamo davanti ad una questione che investe la libertà. Chi ascolta (o legge) ciò che viene proposto dai mezzi di comunicazione in questo campo dovrebbe avere una maggiore coscienza critica: mi riferisco al pubblico dei ragazzi, ma anche a chi ha la pretesa di svolgere mansioni di educatore. Una maggiore coscienza critica impedirebbe l’uso almeno singolare delle canzoni più basse (artisticamente parlando, non entro nel contenuto) per occasioni che meriterebbero più attenzioni. È il caso di accennare all’utilizzo di canzoni «famose» nelle liturgie (tra le altre «Si può dare di più» e «Gli altri siamo noi» oltre l’ormai storica «Dio  è morto»). Non sarebbe male anche un’educazione al bello, all’arte vista per quello che dovrebbe essere. Il problema è che tanti prodotti vengono reclamizzati anche con una buona dose di aggressività e di insolenza, quindi riducono la libertà di scelta: se un ragazzo sente dalla mattina alla sera sempre lo stesso prodotto, probabilmente è indotto a ritenere che sia più bello ed intelligente. Spesso e volentieri invece non è così.
Per quanto riguarda la libertà di chi fa musica, ritengo che ci sia qualche problemino in più. C’è chi fa musica perché è convinto di praticare un mestiere estremamente nobile e gratificante. C’è però anche chi usa questo mezzo come un lavoro normale, quindi con lo scopo del business. Ed è legittimo. Non sto assolutamente polemizzando con nessuno, dico soltanto che esistono queste due strade. Da una parte chi fa musica per amore di quest’attività che sta a metà tra arte ed artigianato e dall’altra chi la considera assai meno. Infatti nel mondo della canzone ci sono un sacco di servi in circolazione. E se ci sono i servi, evidentemente ci sono anche i padroni.
 
 
 
 
Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile - Roma.
Giampaolo Mattei
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