Il presidente del Forum degli oratori italiani, don Massimiliano Sabbadini, spiega in questa intervista perché quella dell'oratorio è una formula ancora oggi vincente: ripartire dal quotidiano, infatti, è il modo migliore per dare continuità alla pastorale giovanile.
del 25 giugno 2008
Nella parete di fronte alla scrivania è dispiegato un vecchio manoscritto: sette pagine vergate nel 1958 dall’allora arcivescovo di Milano, monsignor Giovanni Battista Montini, e indirizzate «Ai Rev. Parroci e Direttori degli oratori». Don Massimiliano Sabbadini, presidente del Forum degli oratori italiani, accoglie gli ospiti con amicizia e inizia subito a raccontare. «La tradizione degli oratori parte nel ’900 e si sviluppa soprattutto grazie all’impulso dei cardinali Ferrari, Schuster, Colombo. Montini, in quello scritto del 1958, raccomanda di pensare per ogni nuova chiesa anche all’oratorio. Oggi è quasi nel canone ambrosiano: non si costruisce una chiesa se non c’è annesso un oratorio. Esso accompagna la quotidianità dei ragazzi e dei giovani, ne scandisce i tempi del gioco, dello studio, dell’impegno, della preghiera».
 
·         Questa formula è ancora attuale?
«Credo che oggi lo sia più di ieri. L’oratorio colma quello che diversamente rimarrebbe un vuoto nel tessuto e nella rete educativa della società. Riempie la quotidianità, l’ordinario, ciò che è fra la scuola e la famiglia. Le coordinate dell’oratorio sono all’intreccio tra la chiesa, la casa, la scuola e la strada. È un’esperienza che, un po’ come il tessuto epiteliale, tiene unite, con la sua normalità e la sua forte presenza, queste dimensioni».
 
·         Negli anni, comunque, l’oratorio è cambiato. Cosa è rimasto dell’identità originaria?
«L’oratorio ha una forte connotazione, che è quella della comunità cristiana che educa i suoi figli. Esso inizia idealmente nel fonte battesimale perché, nel momento in cui si chiede il battesimo, quel bambino o quella bambina diventano figli di tutta la comunità. E la comunità prende l’impegno di educarli, di accompagnarli, di stare in dialogo con i genitori e con le agenzie educative del territorio. Per usare un’espressione di don Bosco, di vedere crescere i suoi figli come buoni cristiani e onesti cittadini».
 
·         In cosa invece è cambiato?
«Credo che oggi ci sia una consapevolezza maggiore. Un tempo, oltre all’oratorio, non c’era altro. Oggi l’agenda di un ragazzo di 12 anni è quella di un top manager. Eppure, quando le famiglie vedono la proposta che facciamo, insieme con i loro figli, decidono di aderire. Il tempo passato qui è un tempo scelto. Ed è scelto innanzitutto per la sua gratuità. Che non significa soltanto che non si pagano le attività. Anzi, a volte le famiglie danno dei contributi. Però la gratuità è l’aria che si respira, le relazioni amicali che si intessono, l’impegno, le proposte che sono fatte per promuovere lo stare insieme. Non solo: qui c’è uno spazio per essere protagonisti. Nell’oratorio i ragazzi non sono clienti, non guardano in vetrina le cose che vengono offerte e poi scelgono. Sono loro che fanno le attività, che le decidono, che ne sono artefici in prima persona. Qui hanno anche la libertà di correre e schiamazzare. Prima l’oratorio era l’unico luogo di aggregazione, un modo per togliere i ragazzi dalla strada. Oggi le offerte sono tante, ma questo resta uno dei pochi luoghi dove possono crescere aggregandosi liberamente, sperimentando tante cose, ma dentro uno sguardo, una relazione educativa che li accompagna».
 
·         Anche per gli oratori c’è la difficoltà a 'trattenere' i giovani dopo i 18 anni?
«Frequentano gli oratori soprattutto i bambini accompagnati dai loro genitori, gli adolescenti e sempre meno i giovani dai 18 anni in su. Questo perché la collocazione è molto locale, mentre, crescendo, oggi più di ieri, cresce la mobilità dei giovani. In questo l’oratorio segue il cambiamento della condizione giovanile che si è verificato negli ultimi decenni. E, dunque, non riesce ad accompagnare le età successive. Abbiamo però anche dati incoraggianti. Secondo una recente ricerca fatta in Lombardia è sempre più numerosa la popolazione giovanile sopra i 18 anni che resta in oratorio scegliendo di servire, impegnandosi da volontaria, la società, il prossimo, la Chiesa. Per il futuro mi sembra quindi che non si possa parlare né quantitativamente né qualitativamente di crisi. L’oratorio va trasformandosi, ma mantenendo la sua vivacità e il suo ruolo essenziale di comunità educante».
Annachiara Valle
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