Varcata la soglia della quaresima, il percorso di purificazione della Chiesa si rifà più intenso e all'interno delle nostre comunità ecclesiali il sacramento della Penitenza viene riproposto quale aiuto fondamentale per una crescita spirituale che, come il Santo Padre ha sottolineato in un suo recente intervento, 'va riscoperto ancor più nel suo valore e nella sua importanza per la nostra vita cristiana'
del 02 marzo 2009
Varcata la soglia della quaresima, il percorso di purificazione della Chiesa si rifà più intenso e all’interno delle nostre comunità ecclesiali il sacramento della Penitenza viene riproposto quale aiuto fondamentale per una crescita spirituale che, come il Santo Padre ha sottolineato in un suo recente intervento, 'va riscoperto ancor più nel suo valore e nella sua importanza per la nostra vita cristiana' (Angelus 15 febbraio 2009). Nelle nostre chiese l’esodo dal confessionale è certamente riflesso di una società individualistica e di uno smarrimento del senso del peccato, ma credo che parte dell’allontanamento da questo sacramento possa essere ricondotto anche ad uno scarso tatto che noi confessori mostriamo nell’esercizio del nostro ministero.
  Nel ricevere i penitenti faccio spesso allenamento nel modulare il tono della voce e l’espressione del volto, nello sforzo di mostrare sempre un aspetto sereno e sorridente, perché nessun disagio o stanchezza passi attraverso me ed il naturale imbarazzo di chi confessa la propria miseria ad un altro uomo possa essere in qualche modo stemperato.
  Con rammarico sento ancora risonanze di confessori troppo invadenti nelle loro domande o poco accoglienti nel ricevere i fedeli. Ancora c’è chi manda via i penitenti in modo sgarbato o mostra un certo fastidio nell’ascolto. Ma soprattutto penso che sia da superare quell’atteggiamento asettico di chi nel ricevere le confessioni con il più grande rispetto delle indicazioni canoniche, non riesce a comunicare il volto accogliente e gioioso di quel Padre Misericordioso che correndo incontro al figlio e abbracciandolo a lungo festeggiò per il suo ritorno.
  Certo, spesso tanti cercano nel sacerdote un terapeuta con cui aprirsi o lo strumento per un atto abituale per far tacere la coscienza senza grandi pentimenti, ma anche queste modalità possono diventare nelle nostre mani strumento prezioso per comunicare la bontà di Dio. Se le nostre Confessioni sanno molto di rubricismo, se non ci alleniamo ad asciugare le lacrime dei fratelli, guardandoli negli occhi, se non riusciamo a stringere le mani dei sofferenti per comunicare coraggio e forza e se non ci caliamo un po’ in più nella vita dei nostri fedeli, i nostri luoghi penitenziali diventeranno solo ricordo dei tempi passati.
  Mi capita spesso nell’accogliere i penitenti che confessando i loro peccati dicono: «Padre ho fatto questo… questo…», di sentire come il desiderio di aggiungere stringendo le loro mani: «Coraggio l’ho fatto anch’io! Con modalità e circostanze diverse, ma nel tuo peccato ritrovo un’eco della mia debolezza».
  Il comune denominatore di noi confessori deve essere quindi una spontanea, gioiosa e benevola accoglienza ricordando che, come san Giovanni scrive, «se il nostro cuore ci rimprovera di qualcosa, Dio è più grande del nostro cuore» ( 1Gv 3,20),
 solo così noi ministri mostreremo con il nostro, l’immenso cuore del Padre.
 Mi capita nell’accogliere i penitenti di sentire il desiderio di aggiungere stringendo le loro mani: «Coraggio l’ho fatto anch’io! Pur con modalità e circostanze diverse...»
 
Salvatore Giuliano
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