Uno degli elementi più distintivi della spiritualità cristiana è sempre stata l'attenzione alla dimensione dell'interiorità: la santità non consiste in un insieme di prestazioni, fossero pure buone, sante o eroiche, ma si colloca sul piano dell'essere e tende alla conformazione a Cristo dell'intera persona.
del 01 gennaio 2002
Uno degli elementi più distintivi della spiritualità cristiana è sempre stata l’attenzione alla dimensione dell’interiorità: la santità non consiste in un insieme di prestazioni, fossero pure buone, sante o eroiche, ma si colloca sul piano dell’essere e tende alla conformazione a Cristo dell’intera persona. Questo significa che la sequela di Cristo esige che l’umano non venga mai disgiunto dallo spirituale e che al movimento di conoscenza del Signore si accompagni sempre il parallelo movimento di conoscenza di sé. È questo un tema che traversa tutta la tradizione cristiana la quale non ha esitato a riprendere e riformulare nei termini suoi propri l’iscrizione posta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: «Conosci te stesso». Così Origene e i Cappadoci, Ambrogio e Agostino, Gregorio Magno, Guglielmo di Saint-Thierry e Bernardo, i padri Certosini e Vittorini hanno ripreso e approfondito il senso di questo movimento essenziale all’uomo per umanizzarsi («Non conduce vita umana chi non si interroga su se stesso», Platone) e al cristiano per iniziare autenticamente la propria sequela Christi (il rinnegamento di sé chiesto da Cristo deve poter essere attuato in libertà e per amore, e questo comporta la conoscenza di sé). Senza vita interiore, senza sforzo di conoscenza di sé, non sarà possibile una vita spirituale cristiana e neppure la preghiera!
Purtroppo oggi si assiste a quel deprecabile scollamento fra chiesa e vita spirituale, fra chiesa e vita interiore, che è elemento di crisi molto più grave di quello «numerico-quantitativo», perché dice che la chiesa è venuta meno al compito di iniziazione sia alla vita che alla vita secondo lo Spirito. Non si può inoltre tacere che l’attenzione oggi prestata all’«io» e alle istanze della soggettività presenta molte ambiguità: il narcisismo culturale («Quando la ricchezza occupa un posto più alto della saggezza, quando la notorietà è più ammirata della dignità e quando il successo è più importante del rispetto di sé, vuol dire che la cultura stessa sopravvaluta l’immagine, e deve essere considerata narcisistica», A. Lowen), la pornografia dell’anima (l’esibizione dell’intimo, la scomparsa del pudore nel dare in pasto a milioni di telespettatori le confessioni personali o i problemi familiari), la compressione dell’individualità da parte della cultura tecnologica (a cui interessa un esecutore funzionale di un lavoro già programmato) che provoca l’ipertrofia dell’io negli altri ambiti esistenziali, sono tutti elementi che rendono, da un lato, prudente, dall’altro, urgente, un discorso sulla conoscenza di sé. Ne va infatti della libertà dell’uomo! È veramente libero chi conosce se stesso, perché questi può nutrire un rapporto equilibrato con la realtà e con gli altri e scoprire motivi di speranza e di fiducia nel futuro.‚Ä®Il processo della conoscenza di sé consiste nella risposta a un appello: l’appello che si fa sentire in noi, per esempio, quando proviamo il bisogno di starcene soli per un po’di tempo per riflettere e pensare, per «tirarci fuori» dal quotidiano che rischia di intontirci con la sua ripetitività o di travolgerci con i suoi ritmi esasperati. Si tratta della chiamata a compiere un esodo verso l’interiorità, un viaggio all’interno di se stessi, viaggio che si svolge ponendosi domande, interrogando se stessi (Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Che senso ha ciò che faccio? Chi sono gli altri per me?...), riflettendo, pensando, elaborando interiormente ciò che si vive di fuori. Solo così, attraverso l’interiorizzazione, si diviene soggetti della propria vita e non ci si lascia vivere. Certo, questo cammino nella propria interiorità, questa discesa nel proprio cuore sono molto faticosi e dolorosi: normalmente noi li respingiamo, ne abbiamo paura, perché temiamo ciò che di noi può emergere, ciò che di noi può esserci svelato. Nietzsche ha parlato del grande dolore di cui fa uso la verità quando vuole svelarsi all’uomo.
La conoscenza di sé esige attenzione e vigilanza interiore, quella capacità di concentrazione e di ascolto del silenzio che aiuta l’uomo a ritrovare l’essenziale grazie anche alla solitudine. Allora si perviene ad habitare secum, ad abitare la propria vita interiore, e si consente alla propria verità interiore di dispiegarsi in noi: è allora che la conoscenza di noi stessi diviene anche conoscenza dei limiti, delle negatività, delle lacune che fanno parte di noi e che normalmente tendiamo a rimuovere pur di non doverli riconoscere. La conoscenza della propria miseria, accompagnata dalla conoscenza di Dio, può allora divenire esperienza della grazia, della misericordia, del perdono, dell’amore di Dio. Ciò che prima si conosceva per sentito dire ora diviene esperienza personale. Si tratta di mai scindere questi due momenti dell’itinerario spirituale: la conoscenza di sé e la conoscenza di Dio. Infatti la conoscenza di sé senza la conoscenza di Dio ingenera la disperazione, e la conoscenza di Dio senza la conoscenza di sé produce la presunzione.
Enzo Bianchi
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