Dopo tante smagliature torniamo alla nudità dei numeri. Ma il periodo peggiore che un genitore può annoverare nei suoi incubi si perde tra i meandri delle lettere quando, in virtù di una ennesima riforma, i voti erano diventati consonanti e vocali che indicavano traguardi personalizzati per ogni alunno. Ho preso B...
del 30 agosto 2008
 Il giudizio più duro da digerire in famiglia era «buono». Già, uno immaginava che tra i risultati fosse il massimo che si potesse ottenere in un compito e poi si scopriva che si era appena appena un gradino più su del «sufficiente». Sette? Forse. Comunque, paradosso dei paradossi, non era una splendida giornata quella in cui tuo figlio ti faceva firmare un compito «buono». Alla faccia del lessico il genitore esigente sapeva che nella scala dei valori da suo figlio poteva pretendere molto di più. La generazione cresciuta con la valutazione aritmetica, a suon di numeri accompagnati anche da due meno meno o un solo più – di otto sudati, sei stiracchiati o di quattro appioppati senza pietà – i giudizi si è sempre ostinata a tradurli in numeri.
  Non che il «distinto» non avesse la sua aura equivoca. Nella scala della valutazione si era imparato che, venendo prima di «ottimo» e stando dopo «buono», poteva corrispondere a un bel voto: un nove pieno? Forse. Ma il periodo peggiore che un genitore può annoverare nei suoi incubi si perde tra i meandri delle lettere quando, in virtù di una ennesima riforma, i voti erano diventati consonanti e vocali che indicavano traguardi personalizzati per ogni alunno. Ho preso B, diceva orgogliosa la bambina e insisteva che la maestra era contenta perché l’obiettivo era quasi raggiunto. Dunque un bel nove?
  Forse. Il dubbio che neppure gli insegnanti in fondo sapessero ben maneggiare ad arte l’abc della nuova valutazione trovò conferme quando sul quaderno arrivo un sibillino C-B. Se la ministra Gelmini dunque ridà i numeri alla scuola di ogni ordine e grado non resta che rallegrarsi. Non perché si vada a inaugurare l’era di una nuova pedagogia ma perché, forse, una nuova epoca di chiarezza e semplicità si annuncia in un mondo che ha sempre fatto fatica a gestire la complessità. I voti tornano alle elementari – comunque accompagnato dal giudizio – e alle medie esattamente come accade alle superiori. Esattamente come è successo per generazioni intere che si sono misurate sui cinque come sugli otto. E se gli insegnanti riprenderanno a usarli in tutta la loro gamma con l’arte del buon educatore, e non con il bilancino dell’orafo, nulla sarà cambiato se non una forma logorata dal cattivo uso. La riforma dei numeri infine prevede che anche la condotta abbia il suo prezzo chiaro e netto da pagare sommato a far media con il profitto. Con il cinque, è sicuro, arriverà la bocciatura. Forse i veri bulli non tremano all’idea di ripetere un anno. Le bocciature per certi soggetti sono altrettante medaglie al valore ma era tempo che ritornasse di moda l’idea di una scuola rigorosa che dice la propria anche sui comportamenti. Toccherà ora agli insegnanti declinare con sapienza e saggezza l’autorevolezza che il ministro sembra volere riconoscere loro. La scuola ha sempre avuto bisogno di gente con i numeri.
Rossana Sisti
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