A partire dal XVII secolo la scienza ha esercitato un suo dominio, quasi una «signoria» come le grandi dinastie europee La sua crisi inizia secondo molti alla fine dell'800. Le numerose scoperte avute in seguito sono da porsi dentro l'ambito dell'empirismo Si è poi fatta strada l'idea che la scienza sia negativa perché ha prodotto problemi maggiori dei suoi pur evidenti benefici. Questo ha significato una drammatica caduta di certezze, riversatasi sulla visione della vita e sull'attuale morte dei «principia».
del 06 febbraio 2006
Per questo viaggio serve un equipaggiamento speciale: la voglia di capire in profondità e dunque lontana dalla pseudocultura dominante che per rendere tutto semplice, nasconde o banalizza ogni problema. Voglia di capire che significa anche meditare e pazienza di rileggere La storia dei princìpi della scienza, il sapere che interpreta e racconta la realtà, mostra la via della loro affermazione e le diatribe per la loro distruzione
Dopo lo sguardo sullo stato dei princìpi nel nostro tempo (vedi) e dopo quella percezione immediata carica di preoccupazione, iniziamo un viaggio che non farà riferimento alle impressioni,ma si calerà in un costume più profondo, in una vera analisi. Un percorso dentro la scienza. Quale migliore terreno per mostrare come i princìpi si sono insediati in questo dominio fondamentale della conoscenza umana? E, aggiungiamo subito, per mostrare come essi abbiano incontrato la morte?
 
I PARTE. Dopo lo sguardo dato alla condizione in cui si trovano i princìpi dentro il nostro tempo  (vedi), e dopo quella percezione immediata che abbiamo avuto così carica di preoccupazione, ora iniziamo concretamente un viaggio che non si baserà su delle semplici, precarie impressioni, ma si calerà più in profondità, attraverso un percorso di analisi vera, che vuol portare ad evidenza il 'come stanno davvero le cose' e come ha potuto effettivamente determinarsi la condizione di crisi in cui ci troviamo.
Non siamo arrivati a caso al punto odierno. È stato fatto un tragitto preciso lungo i decenni, che ora noi a ritroso ripercorriamo per rendercene conto meglio. Un itinerario che non è eccentrico rispetto alle cose che contano, in quanto passa addirittura dentro la scienza. Perché? Ma perché non è nemmeno pensabile una scienza che non abbia princìpi e metodo. Anzi, quale migliore terreno per mostrare quanto i princìpi si fossero ben insediati? E mostrare, aggiungiamo subito, come essi siano poi anche morti? La morte dei princìpi appunto, rilevata innanzitutto in quello che è il regno dei princìpi, cioè la scienza.
Qualche lettore potrebbe ritenerlo, questo, un cammino un po’ lungo, perché ha voglia che si arrivi subito a parlare del comportamento dell’uomo.
 
Noi pensiamo invece che convenga fare una strada un po’ più lunga e si debba passare proprio attraverso la vicenda dei princìpi dentro la scienza, in quanto quella vicenda risulterà decisamente incisiva anche per comprendere la nostra realtà odierna.
Tale tragitto dentro la scienza infatti mostra la via attraverso cui i princìpi si sono chiarissimamente affermati, ma anche le diatribe che hanno portato alla loro distruzione. Ebbene, solamente attraverso un simile percorso potremo evidenziare la dimensione dei princìpi dentro la nostra cultura e la nostra mentalità e preparare il contesto per scavare attorno ai princìpi del comportamento umano dell’uomo di oggi.
Sapete cosa serve per un simile viaggio? Un equipaggiamento speciale, ossia quella voglia di capire in profondità che si distanzia al quanto dalla pseudo-cultura dominante che, per rendere tutto semplice, nasconde o banalizza ogni problema. Voglia di capire che significa anche meditare, ritornare talvolta sopra le righe appena lette per cogliere quei significati che ad una prima scorsa sfuggono, come significa anche appropriarsi di qualche illuminante sentenza di questo o quell’autore che verrà indicata lungo il tragitto. Insomma, bisogna fare quello che non si fa di solito con un giornale, ma che per una volta vale la pena tentare. Nessun riferimento è messo lì a caso, o per lusso. Queste pagine sono una sorta di mappa per arrivare effettivamente alla comprensione della realtà che ci morde dentro.
Occorre dunque dotarsi di curiosità, e poi di fiducia in chi vi guida: proprio come una guida, desidero mostrare dei punti, indicarveli, perché guardandoli possiate voi stessi aggiungere le vostre osservazioni, il portato della vostra sensibilità. So bene che non vi condurrò in giro per un parco di divertimenti, ma dentro la testa e il pensiero di tanti autori che hanno fatto la nostra storia, e la storia dei princìpi di cui oggi soffriamo la distruzione. Ma è tempo di andare, cioè di pensare, e non escludo che scopriate (molti lo sanno già) che pensare è persino divertente, e al contempo utile, anzi molto utile.
 
LA PARABOLA DELLA SCIENZA. La crisi dei princìpi sui quali una civiltà si è sostenuta per secoli ha, come ogni grande fenomeno della storia, degli antecedenti che in qualche modo ne segnano l’inizio, o ne sono la causa, o rappresentano almeno una delle tante insidie che l’hanno promossa.
È certo che, a tale proposito, occorre indagare all’interno della scienza: non solo perché si tratta di un’attività che ha reso grande la civiltà occidentale e l’ha profondamente diversificata da altre, ma anche perché la scienza è una disciplina di princìpi, si fonda su procedure ben radicate del pensi ero logico e su una metodologia che, in sintesi, è un insieme di leggi e di regole attraverso le quali indagare la realtà. La scienza sperimentale in particolare giunge a riprodurre un dato fenomeno in laboratorio e a poterlo poi ripetere. Ci consente quindi di conoscere le cause che lo determinano, permettendoci persino di prevederlo o di escluderlo agendo opportunamente su di esse.
Chiunque esamini il periodo che si pone tra Seicento e fine dell’Ottocento dovrà necessariamente concludere che si è trattato di un’età nella quale la scienza ha esercitato un netto dominio. Facendo anzi riferimento alle Signorie che hanno esercitato il potere politico, sarebbe possibile per analogia parlare di 'Signoria della Scienza'.
Ciò che caratterizza tale periodo è la continuità, uno sviluppo cioè che risulta evidente a partire dai tempi di Galileo, Bacone e Cartesio. Kant lo noterà in maniera chiara quando, a fine Settecento, rileverà la differenza tra il continuo progresso negli studi scientifici, specialmente nel campo della fisica, e il continuo ricominciare da capo dei filosofi.
Altra distinzione tra scienza e filosofia è che nella scienza la scoperta di uno appartiene a tutti gli scienziati, mentre i filosofi altro non fanno che contraddirsi reciprocamente e ricominciare sempre dagli stessi argomenti e dalle stesse domande. Kant si era chiesto se la metafisica sarebbe mai stata in grado di porsi come scienza, cioè con quei caratteri di certezza e di universalità che sono propri delle verità scientifiche. Il fatto sconvolgente non è tanto che un simile salto non sia affatto avvenuto, ma che la fiducia stessa che il filosofo di Königsberg nutriva per la scienza quale modello di conoscenza venisse profondamente scossa.
Insomma, la scienza è entrata in crisi – se non proprio distrutta – a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento.
Certo, un tempo per noi lontano più di un secolo ormai, ma è a quel periodo – a me pare – che si deve risalire per verificare se davv ero non fossero già allora presenti i primi sintomi di quella decomposizione della grande civiltà occidentale che potrebbe oggi rendere noi contemporanei testimoni della sua morte drammatica.
È all’ultimo decennio dell’Ottocento infatti che si fa concordemente risalire la crisi della scienza, e uno dei primi a rendersene conto fu Williams D. Cunnigham che dichiarò: «Si può dire senza esagerazione che in quell’epoca era terminato il periodo cominciato con Copernico». Questi certamente non ignorava che nel Novecento si erano avute molte scoperte, che avrebbero fatto avanzare l’industria moderna; ma per quanto significative queste potessero essere, Cunnigham le collocava dentro la nascita dell’empirismo (cfr. A. Deltheil, «Quelques caractères essentiels de l’évolution des sciences depuis un siècle», Revue Scientifique, 11, III, 1933).
Dunque, stiamo oggi vivendo una fase che potremmo dire addirittura di distruzione della scienza e di negazione del suo valore, iniziata appunto allora. E all’orizzonte si profila persino l’idea che la scienza sia negativa, poiché con le sue applicazioni produrrebbe per la coesistenza dell’uomo problemi maggiori dei vantaggi, che pure sono evidenti.
Ma crisi della scienza significa veramente una caduta di princìpi straordinariamente forti che – e questo fa parte della nostra ipotesi – si è poi riversata sull’empirismo del vivere e sull’attuale morte dei princìpi.
Per capire ciò che è andato in crisi, e per capire meglio come questo sia avvenuto, è opportuno richiamare sia pure schematicamente che cosa erano la scienza e la sua forza, che pure tanto avevano colpito Kant. Guardare cioè alla fase di entusiasmo, prima di quella della caduta.
 
LA SCIENZA VISTA DA KANT. Anzitutto si pensava che tra le diverse scienze si esprimesse una gerarchia di perfezione al cui vertice fosse posta la matematica. Sia come pura logica, sia come logica applicata, la matematica appariva non solo una scienza perfetta in sé, nelle sue premesse e nei s uoi metodi, ma anche un perfetto strumento per le ricerche nel campo della natura. Ogni altra scienza era tanto più vicina alla perfezione quanto più si prestava all’applicazione matematica, attraverso la quale l’uomo penetrava nel segreto di quella natura che Dio, anche secondo le sacre scritture, aveva creato: un segreto che si dispiegava in 'pondere, numero et censura'.
Kant, nella prefazione ai Primi elementi metafisici della scienza naturale, scrive: «In ogni ramo della conoscenza della natura si può raggiungere in realtà solo tanto di scienza quanto si raggiunge di matematica».
Se la fisica aveva conquistato un simile traguardo, le altre scienze erano come tanti fratelli in età decrescente, ma tutti avviati a raggiungere la maggiore età. Più vicine apparivano le scienze biologiche, di cui già sembrava prossima la completa matematizzazione; più lontane quelle antropologiche e sociologiche.
Per comprendere meglio questa posizione, occorre aggiungere che la concezione dell’universo fisico era considerata allora in senso nettamente meccanicistico, seguendo il famoso detto di Cartesio: «Toute ma physique n’est autre chose que mécanique» (lettera a M. De Baume, 1639), e che gli scienziati avevano adottato l’ideale cartesiano della rappresentazione della realtà per figure e per movimenti, considerando la natura fisica come costituita di particelle che, a ogni istante, hanno una certa disposizione nello spazio. Ciò significa che lo stato dell’universo in un determinato istante è completamente definito dalla distribuzione dei suoi elementi, cioè da una certa configurazione o 'figura'.
Alla base di questa concezione stava un presupposto materialistico da cui gli scienziati avevano tratto senz’altro un principio, convincendosi che il meccanicismo dovesse essere inteso nel senso di una rigorosa prevedibilità, teoricamente sempre possibile, di un qualsiasi stato dell’universo in ogni momento del passato e del futuro, una volta conosciuto lo stato presente.
Laplace aveva esposto con efficacia questa convinzione sostenendo la possibilità di conoscere lo stato presente dell’intero universo, e pertanto di conoscerne il suo futuro. Insomma, «Un’intelligenza che per un dato periodo conoscesse tutte le forze di cui la natura è animata e la situazione reciproca degli esseri che la compongono… nulla sarebbe per essa incerto, e l’avvenire come il passato sarebbe presente al suo sguardo...». E questa certezza, per cui l’uomo può conoscere tutto e nulla gli rimane più di misterioso, si fonda «sul principio evidente che una cosa non può cominciare ad essere senza una causa che la produce...» (Essai philosophique sur les probabilités, Paris 1814, pp. 3 sgg.).
Sempre alla base di questa affermazione, che certo attribuisce alla scienza un potere enorme, si trova l’idea in base alla quale esiste una corrispondenza piena tra pensiero e realtà. Il sapere veniva cioè considerato oggettivo in quanto riproduzione di un reale distinto dal pensiero e da esso indipendente, e che tuttavia gli era completamente accessibile: si chiama verità del realismo.
Naturalmente si ammetteva in maniera implicita che fosse possibile misurare quantitativamente lo stato d’un sistema senza turbarlo, senza cioè una interazione tra osservatore e sistema. E ciò esigeva a sua volta che la distinzione tra soggetto e oggetto della conoscenza fisica fosse per lo scienziato cosa certa.
 
Ogni scienziato infine, ove gli fosse stato chiesto che cosa intendesse per scienza, non avrebbe esitato a rispondere all’incirca così: una conoscenza definitiva del mondo conseguita attraverso l’osservazione e l’esperimento, e con la misurazione dei fenomeni oltre alla scoperta delle leggi regolatrici del reale.
Si era raggiunta, insomma, una concezione perfetta della scienza e dei suoi metodi.
Le manchevolezze, le lacune e talora le contraddizioni che pur si riscontravano qua e là nelle trattazioni delle singole discipline non potevano dipendere che dalla incompleta conos cenza dei fenomeni stessi: lo studio le avrebbe via via eliminate tutte e l’edificio della scienza, ordinatissimo nelle sue fondamenta, si sarebbe completato a poco a poco fino a raggiungere la perfezione. I meravigliosi progressi della scienza sperimentale alimentavano, a fine Ottocento, le vive speranze degli scienziati e della maggior parte degli uomini colti.
 
LA SCIENZA E L’UOMO. È fuori discussione che l’idea di un mondo perfettamente comprensibile e riducibile dentro le formule della matematica, e dunque in una previsione di perfezione, fosse molto rassicurante. Anche se nel Settecento non si era ancora passati all’elemento umano e alle scienze antropologiche, c’erano buone premesse, in questo campo, per poter affermare che pure l’uomo è e deve essere un oggetto geometrico e logico, pure lui sottoposto a leggi, e dunque a una vita che può essere ricondotta all’interno di regole comprensibili e persino perfette. L’esserne ancora lontani dipendeva solo dalla constatazione che il lavoro della scienza non era completato e molto restava da fare: l’ignoramus non significava affatto ignorabimus: non lo sappiamo adesso ma lo sapremo molto presto. Tale era la sicurezza che la 'Signoria della Scienza' aveva fornito a una civiltà che per più di tre secoli si era fondata su questa via della certezza e della verità definitive. E questo il castello che cominciò a vacillare a partire dai primi anni del Novecento, quando iniziò la crisi nelle certezze della scienza, si avviò la fine delle leggi che diverranno sempre più parziali e dubbie, soprattutto si avvicinò la disgregazione dei princìpi che su quell’assetto regnavano.
 
IL PRIMO SEGNO DELLA CRISI: LA LIBERTÀ. Ma procediamo con ordine. Il primo elemento di crisi del sistema scientifico scaturisce da una delle più profonde esigenze umane, l’idea di libertà. La quale libertà era stata abbondantemente propugnata dalla cultura greca classica, che l’aveva difesa anche quando con Democrito si affacciò il meccanicismo. Ep icuro infatti vi introdusse la correzione del clinamen, quella minima 'deviazione' che in qualche modo poteva interferire con il procedere fatale degli atomi, con il loro decorso fissato: bastava una piccola inclinazione del sistema perché gli atomi si muovessero in modo imprevisto e dunque in qualche modo libero. Insomma, è vero che se tutto nell’universo è noto, nulla sarà al di fuori di un programma fatale e quindi non c’è libertà, ma Epicuro per salvare questa esigenza inserisce una sorta di diavoletto che si diverte con piccoli spostamenti a rompere le regole.
L’idea di libertà si fece ancor più esplicita nella cultura latina, con Cicerone prima e sant’Agostino poi. E il pensiero moderno ereditò, attraverso il cristianesimo, l’idea forte della coscienza posta tra determinismo del mondo fisico e libertà dell’uomo, che in qualche modo diventa un’aporia rispetto alla natura e a tutto il rimanente che esiste nel mondo.
E prima ancora di giungere alla percezione della libertà dello Spirito, dunque restando su un orizzonte umano, ci si chiede se la concezione scientifica con il suo determinismo rigoroso lasci un certo spazio all’attività orientata a uno scopo che si riscontra già in organismi viventi semplici. Poi certo si giunge al quesito se la scienza lasci allo Spirito e alle sue manifestazioni uno spazio nel mondo reale, o siano soltanto illusioni.
 
n altre parole, come può aver posto la libertà in un mondo fisico che sia rigorosamente determinato? O si ammetterà una libertà puramente interiore, sul tipo ad esempio di quella stoica (libertà di accettare quanto il Fato ha stabilito) o si riconoscerà una libertà che possa estrinsecarsi in azioni capaci di improntare di sé il mondo esterno. Se nel primo caso si tratterà di una pseudo-libertà, quella propria di uno che, sorpreso nella campagna da un acquazzone, non solo non potrebbe cercare un riparo, ma neppure dovrebbe lamentarsi, nel secondo si mette in gioco addirittura l’ordine della natura. E l’esse re libero sarebbe come un folle che danza allegro e per proprio conto nel bel mezzo di una perfezione prestabilita, o come un gatto dispettoso che con un balzo crea scompiglio su una tavola accuratamente apparecchiata o, se ancora si preferisce, come un bimbo che getta un sasso dentro gli ingranaggi di una macchina perfetta. Anche ammettendo che vi sia nella natura una qualche capacità di ristabilire l’ordine violato dal turbolento intervento dell’essere libero, difficilmente si riuscirebbe a salvare il determinismo: in questo caso, infatti, cadrebbe la possibilità di prevedere un qualsiasi stato futuro. E d’altra parte, quand’anche la natura avesse questa capacità di ricostituirsi nel proprio ordine, quasi assorbendo o eliminando da sé ogni alterazione, essa possederebbe quella che è forse la più spiccata caratteristica degli organismi viventi: la libertà di agire, di operare.
 
I TENTATIVI DI SALVARE DETERMINISMO E LIBERTÀ. Questioni cruciali, queste sulla libertà, che dovevano scontrarsi con il determinismo, e all’inizio si è tentato di salvarlo: ma come sfuggire dalle sue maglie? E come salvare la libertà?
Kant è il pensatore che ha maggiormente avvertito questa contrapposizione, e sia pure a prezzo di veri e propri salti mortali, aveva postulato una oscura libertà metafisica, relegata nel noumeno, libera causa di un determinismo rigoroso che rimanda forse al mythologhein di Platone, là nel racconto di Er, dove è addirittura presente una sorta di peccato d’origine.
Nella Critica della ragion pura vi è una pagina che si richiama al citato Laplace applicato però all’uomo e non all’universo. Kant sostiene che se noi conoscessimo tutto di un uomo :«... in modo che ciascuno dei suoi moventi, anche il minimo, fosse conosciuto nel medesimo tempo per tutte le occasioni esterne che giocano su questi moventi, si potrebbe calcolare la condotta futura di un uomo con tanta certezza quanto un’eclissi di luna o di sole, e tuttavia sostenere, nel medesimo tempo, che l’uom o è libero». In che modo? «…scorgeremo che quella intera catena dei fenomeni…dipende dalla spontaneità del soggetto come cosa in sé, spontaneità la cui determinazione non può in nessuna maniera essere spiegata fisicamente» (cap. IV).
Insomma, oltre la dimensione della fisicità, si intuisce la presenza di un qualcosa che materiale non è, e che sta alla base dello scegliere: la morale dell’uomo. Se nell’uomo esiste la dimensione del poter scegliere tra comportamenti diversi, il principio etico appunto, ciò presuppone la libertà.
E Kant sostiene che questa dimensione si avverte come imperativa e nulla può sopprimerla. Dunque, da una parte la scienza che spiega la realtà, ciò che è fuori dell’uomo, dall’altra la morale che si inscrive all’interno dell’uomo. E queste due dimensioni sono così sostanziali nel pensiero di Kant che ha voluto si inscrivesse nella sua tomba ciò che lo aveva colpito come uomo: 'la legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me. In altre parole, la libertà e l’universo che è oggetto della scienza.
Questo passaggio che meriterebbe più profonde discussioni, e noi non saremmo i migliori interpreti, dimostra – per semplificare – che proprio partendo dalla difesa della libertà bloccata dentro una scienza sicura ma anche deterministica, comincia a profilarsi una forte reazione. E se Kant è l’espressione di un tentativo di salvare determinismo e libertà, ora cominciano a profilarsi posizioni di netta incompatibilità.
INCOMPATIBILITÀ TRA DETERMINISMO E LIBERTÀ. Ad inizio Ottocento, Joseph de Maistre aveva proclamato la ripugnanza che il determinismo suscitava in molti: «La ragione – sosteneva nelle Serate di San Pietroburgo – ci ha esposti alla più perfetta tentazione che possa offrirsi alla mente umana, quella di credere alle leggi invariabili della natura». Così ad una ragione tanto temeraria questi contrappose quel buonsenso che nega la rigidità della concatenazione causale; ma la sua contrapposizione non suffragata da alcuna pr ova lasciava il problema intatto.
Gli scienziati, da parte loro, rendendosi conto dell’antinomia, non se ne preoccuparono mai troppo, sanandola talvolta con un ricorso alla fede che non doveva essere oggetto di ricerca scientifica. Racconta Gabriel Hanotaux, nella prefazione al Déclin du Moyen Age di Johan Huizinga, che Louis Pasteur, interrogato da Hippolyte Taine all’Accademia sull’argomento della fede, rispondeva tranquillamente: «Noi non troviamo ciò nei nostri alambicchi»: saggia risposta, forse, ma che non serviva a risolvere il problema, troppo importante d’altra parte perché si potesse eluderlo.
Né vale a risolverlo il contrapporre, come fece la scuola di Cousin, la coscienza al determinismo della scienza; e infatti la prima poteva anche essere facilmente spiegata (nei termini con cui aveva fatto Spinoza, e dopo di lui Leibniz ) come un epifenomeno, un’illusione: l’illusione del sasso che, lanciato nell’aria e ignorando le cause del suo andare, si crede libero.
Insomma, sarà proprio il problema della libertà, quello che non si riusciva ad inserire nel sistema della perfezione scientifica,
A spingere prima verso una soluzione filosofica che potesse salvare il grande valore della scienza insieme all’esigenza della libertà, e successivamente a portare inesorabilmente a criticare la scienza, le sue premesse e persino i propri statuti.
Cominciò a profilarsi allora la presa di coscienza che anche in periodi pre-scientifici come il Rinascimento, prima dunque di Bacone e di Cartesio, si fossero ottenuti, senza l’applicazione di alcuna vera propria metodologia, frutti magnifici (Th. H. Huxley, Methods and Results, London 1894, pp. 46-47).
D’altra parte Gaston Bachelard dichiara che ogni metodo sia sperimentale che razionale, come ogni concetto, finisce con il trascorrere del tempo per perdere ogni fecondità, sicché «un discours sur la méthode scientifique sera toujours un discours de circonstance, il ne décrira pas une constitution definitive de l’espr it scientifique» (Le nouvel esprit scientifique, Paris 1937, pp. 10 e 147).
 
LA SCUOLA DEI VALORI DI CROCE E GENTILE. Un aspetto che contribuì a fomentare la crisi è ancora quello della classificazione delle scienze. Si cominciò, ad un certo punto, a rendersi conto che risultati diversi si ottengono a seconda dei criteri formali o logici che vengono usati, e quindi che esiste una divergenza scontata e insanabile tra i pensatori appartenenti agli indirizzi più diversi. Fino a giungere alla 'scuola dei valori', e ai nostri Croce e Gentile che ne evidenzieranno addirittura la vanità.
Per Croce, l’idea di classificare le scienze nasce dalla sfiducia nel pensiero filosofico e da una eccessiva fiducia nei metodi naturalistici: non essendo possibile sopprimere il bisogno di dominare il caos delle scienze e non volendo ricorrere alla sistemazione filosofica, si cade nell’ingenua idea secondo la quale si potrebbero classificare le scienze come fossero piante o animali. Idea che poteva nascere solo nel clima del positivismo che è appunto 'filosofia di schemi' (Logica, Bari 1917).
Il Gentile è ancora più radicale: «Quello della classificazione è un primo sforzo, assolutamente insufficiente, di portare sistema e unità nella molteplicità del sapere; insufficiente perché parte dal falso concetto secondo cui lo spirito sarebbe capacità vuota, le scienze, che gli forniscono la materia, oggetti costitutivi o in via di costituirsi. Ma gli oggetti, astratti dalla vita dello spirito, sono cose morte tra cui vano riesce ogni tentativo di unificazione. L’unica soluzione possibile è nella considerazione che una sola vera categoria vi è: non vuota bensì ricca di differenze interiori in cui non ha posto la molteplicità delle scienze. Questa categoria è lo spirito» (Sommario di Pedagogia, Bari 1925), che il Gentile, a differenza del Croce, concepisce come assoluta unità.
E già si intravede che sulla caduta della scienza, quanto meno della scienza come monumento di certezza assoluta , di verità e di perfezione, è necessario considerare il ruolo decisivo della filosofia, che per certi aspetti si configura come un vero attacco alla prima, cioè – chi l’avrebbe detto? – a sua maestà la scienza. Vedremo presto l’esito di questo attacco.
Vittorino Andreoli
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