Una storica spiega perché l'emancipazione femminile si sia potuta realizzare solo nei paesi di tradizione cristiana. «Ci sono anche profonde ragioni antropologiche alle radici di questo 'femminismo' della tradizione cristiana: sappiamo bene come al centro della Sacra Famiglia ci sia una donna, Maria, e soltanto in secondo piano un padre, Giuseppe, spesso raffigurato impegnato in incombenze domestiche, che la assiste umilmente. La natività di Cristo, quindi, propone uno schema familiare inverso a quello prevalente nella società antica classica e...».
del 31 dicembre 2006
Oggi viviamo in un panorama culturale che contrappone costantemente 'le donne' - intese come gruppo sociale che combatte per la propria emancipazione e liberazione - a una Chiesa cattolica presentata come l’ultimo e il più duro ostacolo a questi obiettivi; un panorama culturale, insomma, che non tiene conto di quella che è una evidenza storica inoppugnabile: l’emancipazione femminile è stata proposta e realizzata con successo soltanto in paesi che, pur secolarizzati, si rifacevano alla tradizione cristiana.
 
Il legame fra uguaglianza e rispetto delle donne da un lato e cristianesimo dall’altro, infatti, è apparso evidente fin dai primi secoli dopo Cristo: a cominciare dall’importanza delle donne nei vangeli - liberate da Gesù dall’esclusione dallo spazio sacro per l’impurità mensile - sino alla famosa frase di Paolo: 'Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù' (Galati, 3, 28). Per arrivare a una concezione rivoluzionaria del matrimonio in cui ai coniugi era imposto lo stesso dovere di fedeltà; nella nuova concezione cristiana di matrimonio, inoltre, la donna era protetta grazie all’indissolubilità, che impedisce il ripudio per sterilità o adulterio.
 
Lo storico Peter Brown ha poi messo in luce come la possibilità di percorrere una 'carriera spirituale' praticando la castità abbia aperto anche alle donne - oltre che, naturalmente, a maschi analfabeti come Antonio, il fondatore del monachesimo cenobitico - la via dell’evoluzione spirituale fino alla santità. A fronte di una storia politica dell’Occidente in cui la presenza delle donne si conta quasi sulle dita di una mano - e si tratta sempre di donne importanti per i nobili natali - la storia della Chiesa, cristiana prima, cattolica poi, è costellata proprio per questo dalla presenza di sante che svolgono ruoli di primaria importanza nella costruzione della tradizione cristiana. Per citare solo qualche esempio: Elena, madre di Costantino, che svolge un ruolo fondamentale nell’uso del pellegrinaggio in Terrasanta, nonché nel culto delle reliquie con il ritrovamento della croce e di altre reliquie della passione di Cristo; Caterina da Siena, che trae da Dio stesso la forza e l’autorevolezza per farsi ascoltare dai potenti della terra, papa compreso; Teresa d’Avila che riforma la vita monacale femminile e costruisce un nuovo modello di ascesi mistica che sarà al cuore della Controriforma; Margherita Maria Alacoque, la quale 'inventa' quello che diverrà il simbolo devozionale più diffuso a partire dalla Rivoluzione francese, il Sacro Cuore di Gesù. E a queste se ne potrebbero aggiungere molte altre.
 
Ci sono anche profonde ragioni antropologiche alle radici di questo 'femminismo' della tradizione cristiana: sappiamo bene come al centro della Sacra Famiglia ci sia una donna, Maria, e soltanto in secondo piano un padre, Giuseppe, spesso raffigurato impegnato in incombenze domestiche, che la assiste umilmente. La natività di Cristo, quindi, propone uno schema familiare inverso a quello prevalente nella società antica classica e in quella ebraica, modello fondato sull’importanza del padre e del lignaggio maschile.
 
Nel cristianesimo, infatti, assume importanza un nuovo legame con Dio padre, che è di tipo spirituale ed è più importante di quello carnale. Questa nuova verità rappresenta un rifiuto completo di qualsiasi sistema patriarcale: Dio padre, a cui ci lega una parentela spirituale, abbassa infatti la potenza del pater familias. I santi cristiani non sono padri di famiglia come i patriarchi, e questa caratteristica si mantiene fino a tempi recenti nella cultura cattolica, mentre la Riforma protestante, abolendo il clero celibe e consacrato, ha accentuato nuovamente il potere del padre di famiglia e - fino al Novecento - ha escluso del tutto le donne da ruoli importanti nella vita religiosa.
 
Non ci dobbiamo stupire, quindi se, proprio all’interno della vita religiosa femminile cristana, si siano manifestati i primi casi che la storia ricordi di donne leaders sul piano spirituale e intellettuale: molto studiato negli ultimi anni è stato così l’importante ruolo di guida spirituale svolto dalle mistiche che, slegate da interessi mondani, hanno saputo ricordare agli uomini potenti, di Chiesa e non, il loro dovere morale.
 
Molto meno noto è il processo di reale emancipazione sociale realizzato dalle religiose cattoliche dopo la Restaurazione, quando, cioè - per effetto delle spoliazioni dei beni ecclesiastici e della profanazione dei monasteri avviate dalla Rivoluzione francese - si sono poste finalmente le condizioni per una vita religiosa femminile attiva nella società. Le nuove possibilità sono state colte con vero entusiasmo da una legione di fondatrici di congregazioni di vita attiva. Innumerevoli donne hanno così saputo intraprendere una via di cristianizzazione della società che si stava secolarizzando attraverso la creazione di una imponente rete di opere assistenziali: dalle scuole agli ospedali e agli orfanotrofi, fino all’assistenza agli emarginati. Queste religiose hanno dimostrato eccezionali capacità imprenditoriali, muovendosi con autonomia e creatività, adattandosi di volta in volta ai bisogni della società in cui si trovavano a operare.
 
Le fondatrici sono state le prime donne ad amministrare da sole e con successo somme ingenti di denaro e a viaggiare per il mondo, accettando anche di recarsi in zone ancora sconosciute: citerò per tutte le missionarie comboniane che hanno raggiunto villaggi ignoti del Sudan, come El Obeid nel 1878. Anche se non teorizzavano il loro diritto all’emancipazione come le loro contemporanee femministe, le suore cattoliche dell’Ottocento erano ben consapevoli del percorso che stavano aprendo alle altre donne con le loro battaglie. Lo dimostrano due casi particolarmente significativi. Teresa Eustochio Verzeri - nata nel 1801 e morta nel 1852, beatificata nel 1946 e canonizzata nel 2001 - è una delle prime fondatrici italiane di congregazione di vita attiva, che combatté la battaglia per ottenere dalla Santa Sede il diritto per le congregazioni femminili di avere una superiora generale. Ma quando, nel 1841, ottenne da Gregorio XVI questo riconoscimento, non si accontentò del risultato raggiunto, perché si trattava di una eccezione ad personam: era ancora in vigore, infatti, la costituzione apostolica di Benedetto XIV Quamvis iusto che lo impediva formalmente. Ella non esitò dunque ad intervenire nuovamente presso i competenti dicasteri della Santa Sede - 'questa libertà non è soltanto utile, è necessaria', scriveva - perché venisse aperta la via alle altre fondatrici.
 
Analoga consapevolezza di un ruolo 'femminista' ha dimostrato, oltre mezzo secolo più tardi, Francesca Cabrini. Anche se quella che è poi divenuta la prima santa statunitense non ha mai teorizzato questo suo pensiero, né ha avuto contatti con i gruppi di cattoliche che, in quegli stessi anni, stavano impegnandosi in movimenti emancipazionisti insieme con le femministe laiche. Abbiamo una testimonianza decisiva - la lettera scritta dalla Cabrini da Buenos Aires al primo congresso nazionale delle donne italiane, tenutosi a Roma nell’aprile del 1908, congresso a cui era stata invitata - e da questa possiamo dedurre come fosse ben consapevole di rappresentare lei stessa un modello di emancipazione femminile ben più realizzato che nelle militanti alle quali si rivolge: 'La sua lettera mi trova di ritorno da un viaggio traverso le sterminate pianure della pampa Centrale e in procinto di imbarcarmi per il Brasile. Da alcuni giorni essa è sulla mia tavola, fra un mucchio di lettere che chiedono risposta, di carte d’affari, che vogliono essere sbrigate, mescolate a piani di nuove costruzioni, a progetti di proprietà da compiersi, da copie di contratti da conchiudersi. Se lo immagina il mio lavoro?'.
 
Si tratta naturalmente di un femminismo poco ideologico, che si propone di dimostrare, con i fatti, che le donne sono in grado di svolgere ruoli importanti di responsabilità in settori fino a quel momento considerati maschili. Ma in sostanza questo femminismo religioso - insieme con quello delle militanti femministe cattoliche (come in Italia Adelaide Coari, e poi Cristina Giustiniani Bandini e Armida Barelli) che si afferma in tutta Europa a partire dai primi decenni del Novecento - non si differenzia sostanzialmente da quello laico che nasce e si diffonde nello stesso periodo. In entrambi i casi, si richiede per le donne il diritto all’istruzione, alla partecipazione politica - i partiti cattolici sono i primi a mettere in programma il voto alle donne, come fa don Sturzo nel 1919 - e all’ingresso in tutte le professioni, mantenendo però una grande attenzione al ruolo materno. La protezione della maternità e il rafforzamento del ruolo e del potere della donna nella famiglia - richiesto e ottenuto con una serie di riforme legislative quasi sempre da parlamentari cattoliche (in Olanda, Germania, Italia e Spagna le prime donne a ricoprire ruoli politici importanti sono cattoliche) - stanno a dimostrare come l’ampliamento dei diritti alle donne comprendesse sempre, e in primo luogo, la protezione della madre. Femminismo 'liberale' e femminismo cattolico della prima metà del Novecento, del resto, avevano in comune l’idea di una superiorità morale della donna data dall’esercizio della maternità: cioè da una abitudine a donare senza aspettarsi nulla in cambio che, se le donne fossero entrate nella sfera pubblica, avrebbe migliorato tutta la società.
 
Si trattava quindi di un femminismo che considerava la donna differente dall’uomo, ribaltando però il pregiudizio tradizionale per cui proprio questa differenza avrebbe giustificato l’inferiorità psicologica e morale delle donne.
 
Tutto cambia negli anni Sessanta del Novecento, con l’affermazione di una rivoluzione nei comportamenti sessuali che era già in atto - ma solo per alcune minoranze - dal secolo precedente, e che ora, invece, può diventare di massa grazie alla diffusione degli anticoncezionali chimici. Da allora si è così progressivamente affermato, nelle società occidentali, un femminismo che di fatto tende a legare la libertà e la realizzazione delle donne al rifiuto della maternità e di tutte quelle attività di cura tipiche del ruolo femminile, e che predica una virtuale trasformazione dell’identità femminile nel senso di una sempre maggiore somiglianza con quella maschile. Ma, da qualche anno, questo modello di liberazione della donna, sostenuto dal femminismo radicale degli anni Sessanta - il femminismo della liberazione della donna - sembra mostrare numerose crepe, con due effetti, in particolare: il crollo demografico delle società occidentali - il cui effetto è un aumento crescente dell’immigrazione - e la procreazione medicalmente assistita, che è l’altra faccia del controllo delle nascite e che provoca gravi e inquietanti problemi etici. Queste nuove situazioni sono una spia significativa dei profondi disagi prodotti dalla nuova condizione di donna emancipata, dalle ragazze che muoiono di anoressia a quelle che vengono costrette, dalla pressione dei coetanei, a comportamenti sessuali umilianti e poco soddisfacenti. Più grave di tutto, naturalmente, è però la difficoltà delle donne a realizzarsi come madri.
 
Il modello di liberazione della donna sostenuto dal femminismo radicale - che influenza largamente il femminismo occidentale traformandosi quasi ovunque in principi legislativi - è quindi, oggi, all’origine di gravi problemi sociali e culturali. In questo momento, in cui cominciano, sebbene ancora poco ascoltate, ad alzarsi voci critiche interne anche a questo femminismo, la Chiesa sembra svolgere sempre di più un ruolo di difesa della specificità femminile di cui non si può sottovalutate l’importanza.
 
La continuità con cui il mondo cattolico, religioso e laico, nel corso dell’ultimo secolo, ha sempre difeso un modello di emancipazione che non implicasse l’esclusione della maternità, e che quindi salvasse la specificità femminile, è stata criticata per decenni, ma adesso comincia a essere letta in modo nuovo: non più come una reazionaria difesa del passato, ma piuttosto come previdente preoccupazione per un futuro che - ancora una volta in nome di una utopia dell’uguaglianza - vuole tutti trasformati in individui 'neutri', che dovrebbero dimenticare la loro differenza sessuale biologica e dovrebbero essere orientati, al contrario, verso un modello di vita di tipo maschile, più funzionale a una società che ha interesse a cancellare e sottoporre ogni cosa e ogni persona a principi di efficienza di natura sostanzialmente economica.
 
L’alleanza fra donne e Chiesa, che ha caratterizzato il cristianesimo fin dalle origini, si ripropone quindi di nuovo oggi come possibile, anzi come occasione da non perdere perché è la chiave di alcuni dei problemi più gravi della società contemporanea. Ed è tempo che non solo le donne, ma anche tutta la Chiesa, se ne rendano conto.
Lucetta Scaraffia
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