DAL DIO-AMORE AI MODI DELLA CARITÀ

A partire dall'amore di Dio come “questione fondamentale”, siamo chiamati a rileggere il rapporto chiesa-mondo, il servizio della carità, l'immagine stessa della chiesa. Una rilettura approfondita di alcuni aspetti dell'enciclica 'Deus est Caritas'.

DAL DIO-AMORE AI MODI DELLA CARITÀ

da Teologo Borèl

del 11 aprile 2006

Il primo atto magisteriale che prende corpo nell’enciclica di Benedetto XVI è significativamente dedicato al Dio-carità. Mentre è forse possibile leggere l’intenzione del papa di mettere il suo ministero sotto questa cifra, che costituisce il vero patrimonio originale del cristianesimo, l’aver egli dedicato questa lettera espressamente ai credenti mostra, non tanto l’esclusione degli altri, come se il messaggio dell’amore cristiano nulla avesse da dire al mondo vasto degli uomini, ma piuttosto il desiderio di richiamare l’attenzione dei credenti su questa realtà tipica e centrale del cristianesimo, perché nelle coscienze dei vescovi, presbiteri, diaconi, persone consacrate e fedeli laici torni a risplendere in tutta la sua bellezza il nucleo irrinunciabile delle fede cristiana e possa prendere corpo nelle forme storiche della chiesa.

Degne di nota però sono ancora altre due circostanze in cui ha visto la luce l’enciclica. Innanzitutto la data della stesura del testo che porta segnato il 25 dicembre 2005, solennità del Natale del Signore. La rivelazione dell’amore con cui Dio gratuitamente ama gli uomini è stata infatti data solo grazie all’umanità di Gesù che, lungi dall’essere stata solo uno strumento della divinità, ne è stata il luogo, la possibilità e la condizione. È nel corpo di Gesù, nella sua persona umana, nelle sue parole e nei suoi gesti che si fa visibile l’amore di Dio, che si fa vicino fino a toccare le nostre piaghe, fino ad accarezzare i bambini, fino a sfiorare occhi, orecchi, bocche che, fino a quel momento chiusi, si aprono alla meraviglia di una inattesa salvezza.

La seconda circostanza si incontra nella data di pubblicazione: il 25 gennaio 2006. È infatti impossibile che la memoria non senta risuonare, in questo stesso giorno, l’annuncio del concilio Vaticano II fatto da Giovanni XXIII nella basilica di San Paolo fuori le mura. Ideale e storico richiamo e collegamento all’evento e al messaggio conciliare, nella cui scia Benedetto XVI lascia intendere di voler porre la sua enciclica.

 

La priorità del cuore

«L’amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita» (2). In questo momento storico, estremamente delicato e carico di ambiguità e contraddizioni, sia per la società mondiale che per la comunità dei credenti, dove i confini, o sono assolutizzati, come nelle forme esasperate del razzismo, delle differenze culturali e religiose, o sono eliminati come nella confusione delle appartenenze, delle fedi e delle etiche, è più che mai necessario avere e darsi dei punti certi di riferimento, ritrovare la direzione di un cammino, far intravedere una meta e tornare a individuare l’essenziale.

Ora la «questione fondamentale» è l’amore di Dio. Esso è capace di ridefinire e ricomprendere tutto: storia, istituzione, prospettive. L’amore di Dio per noi è l’amore che ci fa vivere, perché fatto di passione e tenerezza, di perdono e misericordia, ma è anche atteggiamento esigente, che educa l’uomo alla reciprocità, all’assunzione delle sue responsabilità, al prendersi cura di sé, degli altri, del creato e della storia la quale, cominciata con un atto di violenza fratricida, si trova ora davanti all’amore di Dio come ad una svolta radicale, che le chiede di farsi storia di fraternità.

Il cristianesimo è religione del “cuore”, inteso alla maniera biblica, come il luogo, la coscienza in cui l’uomo, riportato ineludibilmente a se stesso, incontra Dio e decide del senso della sua esistenza.

 

Un’esistenza unificata

Nella lettera di Benedetto XVI emerge con chiarezza la volontà di ridare unità ad aspetti diversi dell’esperienza umana, che la nostra cultura ha giustamente distinto, ma che poi si è finito per dividere e separare fino a contrapporre. Così si è fatto con realtà come ragione e fede, contemplazione e azione, anima e corpo, amore umano e amore divino, religioso e profano, chierico e laico. Il loro rapporto, rappresentato da quella “e”, va pensato come congiunzione e non disgiunzione o, peggio, opposizione. Credo che questo possa anche essere assunto come suggerimento di metodo e criterio di pensiero.

Su tre punti la lettera del papa ricuce gli strappi dell’esperienza umana. Innanzitutto ristabilendo un rapporto tra eros e agape. «L’eros di Dio per l’uomo è, insieme, totalmente agape» (10). È un eros che, senza perdere se stesso, si trasforma in agape. Eros è amore passionale, viscerale – usa dire la Bibbia –, per combattere ed eliminare anche solo il sospetto di indifferenza, di distacco, di sufficienza di Dio nei confronti del destino umano, ma anche più scandalosamente un amore corporale, fisico, diventato visibile in Gesù, di cui noi continuiamo a onorare, venerare e costruire il corpo nelle dimensioni dell’eucaristia, della comunità e del povero. È con il “corpo” di Cristo che noi ci comunichiamo, non con la sua idea.

Il secondo rapporto riguarda la riconferma evangelica dell’inseparabilità dell’amore di Dio e dell’amore dell’uomo. Non bisogna troppo velocemente passare oltre questo aspetto, perché, se è vero che “lo sappiamo” da duemila anni, sembra nei fatti altrettanto vero che a questa unità non ci siamo ancora convertiti: «Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento» (18). Lo possiamo infatti constatare nel divario, che gli stessi vescovi denunciano, tra culto e vita (non si può essere solo pio, senza attenzione per l’altro, afferma il papa), tra fede proclamata e fede testimoniata, tra impegno intraecclesiale e impegno mondano. Lo si nota nella difficoltà a introdurre nella predicazione, e soprattutto nella coscienza dei cristiani, le tematiche dei poveri, dell’accoglienza, dello straniero, dei malati mentali, dei carcerati. Tra molti cristiani serpeggia la sensazione che queste realtà siano estranee alla fede, anzi che la disturbino.

Il terzo rapporto ricongiunge carità e giustizia. «In questo punto politica e fede si toccano» (28). Prese le distanze da letture riduttive («la giustizia non ha bisogno di carità») e operata una distinzione dei compiuti dello stato e del proprium della chiesa, il papa afferma che «l’uomo, al di là della giustizia, avrà sempre bisogno dell’amore» (29).

 

Il rapporto chiesa-mondo

Fin dalle origini del cristianesimo il rapporto chiesa-mondo ha vissuto oscillazioni tra il rifiuto, la fuga o l’assimilazione, il conflitto, il dialogo, l’identificazione. Segno, questo, che tale rapporto non può essere definito una volta per sempre e in maniera rigida, ma dev’essere continuamente ripensato e fondato.

Anche oggi, dentro la comunità cristiana, sono presenti diversi modelli di relazione. Dalla posizione di coloro che soffrono il senso di minoranza, la perdita di incidenza e di ascendente e auspicano la ricerca e la ripresa di posizioni più decise ed egemoniche, a coloro che vedono nel mondo il nemico di sempre che, cambiando identità, continua a minacciare la chiesa vista come cittadella assediata e auspicano quindi una separazione, una difesa e una lotta ad oltranza; a coloro che leggono più positivamente la situazione e desiderano dialogo e confronto; fino a coloro che pensano che la chiesa debba assumere forme e strutture simili a quelle dello stato.

Mi sembra innanzitutto necessario tener fermo che la comunità cristiana non può e non deve rispondere per reazione alle varie posizioni che si assumono nei suoi confronti, ma debba rifarsi alla sua identità, come la delinea l’Evangelo, per non rinunciare a se stessa. Ora, il papa dialoga con il pensiero contemporaneo e accetta il confronto, delineando con chiarezza la posizione della chiesa, riconoscendo la reciprocità dei contributi che chiesa e mondo possono vicendevolmente offrirsi, sulla scia della Gaudium et spes, e affermando che la chiesa «non vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa».

Pastoralmente parlando, il criterio qui espresso risulta tuttavia complesso ed esige discernimento, perché la formale appartenenza alla chiesa e la stessa ricezione dei sacramenti non è ancora indice sicuro della scelta di fede. Tuttavia – poiché duemila anni di cristianesimo hanno comunque fecondato una storia e una cultura, anche quando il pensiero contemporaneo prende le distanze dal cristianesimo – tali tensioni e valori vengono riproposti e ricordati alla stessa comunità cristiana.

 

Il servizio della carità

«L’amore per il prossimo, radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i livelli» (25a).

Qui è ribadita la necessità che, anche a livello di singola comunità cristiana, l’esercizio organizzato, cioè non saltuario e assistenzialistico della carità, trovi spazio, strumenti e persone. La contrapposizione tra il compito di annunciare l’Evangelo, che sarebbe prioritario per la chiesa, e l’esercizio della carità, è falso e fuorviante, anche semplicemente considerando che l’Evangelo non è un contenitore vuoto, ma esattamente l’annuncio dell’amore gratuito e perdonante di Dio che si rivela nelle parole e nelle azioni di Gesù. Il riferimento al modello del buon samaritano (31a) e l’affermazione che «l’amore per il prossimo è una strada per incontrare Dio e il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi di fronte a Dio» (16) sono di un’eloquenza inoppugnabile.

Il fatto poi che il papa sottolinei il livello personale del servizio caritativo – da cui non si può prescindere e che fa appello alla formazione della coscienza, alle convinzioni delle esigenze della fede e alla necessità della testimonianza – accanto al livello comunitario, dice la non scindibilità dei due aspetti, ma anche l’insufficienza del primo senza il secondo: la comunità cristiana, nel suo insieme, è soggetto della carità.

 

Una proposta ecclesiologica

Giovanni Paolo II ci ha lasciato un’ultima immagine della chiesa consegnando ai cristiani la sua lettera intitolata Ecclesia de eucharistia. Benedetto XVI inizia il suo ministero petrino presentandoci un’Ecclesia ex caritate. Afferma, infatti, che il servizio della carità fin dagli inizi della storia del cristianesimo ha avuto «rilevanza costitutiva» (20) e l’istituzione della diakonia come ministero, derivante e legato in seguito al servizio della Parola, è un monumento a perenne memoria per la chiesa di tutti i tempi che l’amore, la carità, che sta all’origine sia del servizio che della comunione, niente altro è che la forma storica della fede in Gesù che ha assunto la «forma del servo» e che trova nell’eucaristia il continuo e incalzante stimolo a fare altrettanto.

Ma come sarà possibile rendere visibile con altrettanta efficacia, come succede per l’eucaristia, l’origine e la struttura amorosa della chiesa? Come l’istituzione e l’organizzazione, la pastorale e il culto, la predicazione e la gestione economica di una comunità cristiana potranno svelare agli occhi di chi li osserva che sono frutto, risultato, incarnazione dell’amore?

 

Carità e Caritas

Descrivendo, nella seconda parte della lettera, il profilo specifico dell’attività caritativa della chiesa, il papa nomina la Caritas ponendola sotto la figura del buon samaritano. Ma, al di là di questa citazione specifica, mi sembra che l’enciclica, nella sua impostazione e nei suoi suggerimenti, costituisca una conferma del lavoro pedagogico e dell’impostazione della Caritas.

Innanzitutto, nell’affermazione che la comunità nel suo insieme è soggetto della carità e che questa è indivisibile dalla Parola e dal sacramento (20.22). Così come nel capitolo sul rapporto tra giustizia e carità, quando si afferma che «interessa» alla chiesa, e quindi alla Caritas, lavorare «per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene comune» (28). O quando l’enciclica indica che il servizio della carità è un’attività organizzata che si avvale di numerose forme di collaborazione anche con «istanze statali» (30b).

Per quanto riguarda gli operatori della carità, il papa indica nella competenza professionale e soprattutto nell’attenzione del cuore e nell’umiltà gli atteggiamenti più appropriati per coloro che si avvicinano alle necessità degli altri (31), elementi che da sempre fanno parte del percorso formativo di Caritas.

Ancora leggo una conformità là dove Benedetto XVI afferma che l’attività della carità deve essere indipendente da partiti e ideologie, che non può essere usata come mezzo di proselitismo e che, all’interno della chiesa, fa capo alla figura del vescovo, cui è chiesto di «essere accogliente e misericordioso verso i poveri» (32).

La via è tracciata, ora sta a noi percorrerla.

 

Dalla rivista 'La Settimana', ed. Dehoniane, 14/2006, p. 12.

don Giovanni Perini

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