Immigrazione cinese: un fenomeno tanto visibile da sembrarci misterioso.
del 27 maggio 2008
 Fritture a non finire, lanterne arancione su vetrine dagli accostamenti cromatici azzardati e un accento inconfondibile, con quell’R che “ploplio non vuole andale”: chinatown, ormai anche in Italia, è sinonimo di realtà brulicante e poliedrica, assolutamente inconfondibile.
A voler guardare oltre gli involtini primavera e gli abiti dalle taglie sempre troppo piccole, ci si ritrova nelle maglie di un universo del tutto caratteristico, fatto di ritmi e tradizioni diversi, portati avanti con molta discrezione.
 
 
Sono ovunque… ma da dove sbucano!?
 
    I cinesi si stabiliscono in Italia inizialmente nel primo dopoguerra, provengono dalla Francia –dove hanno trovato impiego per la scarsa manodopera nel periodo bellico- e sono originari della regione Zeijang, Cina meridionale.
Dalla stessa area, negli anni ’70-’80, si sviluppa un secondo flusso migratorio, che prende a coinvolgere anche i nuclei famigliari.
Si aggiunge, più tardi,tra gli anni ’80 e 2000, l’arrivo di immigrati  dalle città del nord della Cina.
    A partire dagli anni ’70-’80, pertanto, iniziano a formarsi comunità cinesi le cui proporzioni vanno via, via aumentando: sono un punto d’appoggio per i neoarrivati, i quali, oltre a poter contare su una fortissima solidarietà tra connazionali, trovano una struttura che –assieme all’uso vivo della lingua madre- ripropone rapporti sociali e ritmi vicini a quelli dei paesi d’origine.
 
 
Immigrati cinesi: quale integrazione?
 
    Protagonisti spesso di episodi legati allo sfruttamento e alla clandestinità, i cinesi sono divenuti tristemente noti per un’impareggiabile dedizione al lavoro.
Le condizioni d’abuso a cui molte volte vengono sottoposti sono la conseguenza di una modesta consapevolezza riguardo i propri diritti-doveri e rientrano, in parte, in logiche criminali di controllo dell’immigrazione. Anni di lavoro intenso con compensi irrisori, se non inesistenti, sono nella maggior parte dei casi il prezzo da pagare per poter raggiungere il Bel Paese.
Inoltre, l’impiego sfrenato in ditte aperte da connazionali o all’interno di aziende italiane (in particolare nel campo dell’abbigliamento e della pelletteria) è generalmente considerato un passaggio indispensabile che permette l’apertura di piccole imprese a conduzione famigliare: traguardo piuttosto ambito, soprattutto nei riguardi del mondo della ristorazione.
 
   Il progetto migratorio volto all’arricchimento che ha potato i cinesi in Italia li ha spinti, dunque, a dedicarsi quasi esclusivamente al lavoro e alla vita famigliare. Ciò ha determinato, per i cinesi di prima generazione, un isolamento progressivo rispetto al contesto socio-culturale italiano; alienazione che ha trovato linfa nell’orgogliosa appartenenza alla cultura d’origine e nell’assoluta estraneità al concetto di “tempo libero”.
    Tuttavia, la medesima analisi non può essere accostata ai cinesi di seconda generazione. Con questa denominazione si fa riferimento a quei cinesi nati in Italia: giovani, che si trovano a vivere una situazione completamente diversa da quella dei genitori. Abitanti di una terra di mezzo posta tra tradizioni orientali e valori occidentali, essi si rendono protagonisti di forme nuove d’integrazione, caratteristiche rispetto a quelle delle altre etnie.
Questi giovani frequentano o hanno frequentato la scuola in Italia, sono entrati in contatto con i loro coetanei, superando la barriera linguistica ed aprendosi a stili di vita diversi. Tuttavia, nell’embrionale processo d’integrazione che li vede protagonisti, i ragazzi si trovano a dover fare i conti con tendenze eterogenee che li coinvolgono e complicano il delinearsi di un’individualità ben caratterizzata.
In primo luogo, è determinante nella loro vita l’ingerenza dei genitori, i quali non hanno dimestichezza con le attività italiane per il tempo libero e sono preoccupati di proteggere i figli dal contatto con esperienze fuorvianti rispetto all’educazione tradizionale; a questo si aggiunge  il coinvolgimento diretto dei ragazzi nelle imprese famigliari o nella gestione delle attività domestiche.
Tali premesse contribuiscono a diffondere una sorta di nostalgia per la terra d’origine, di cui raramente viene fatta esperienza diretta e che si pone come alternativa quasi onirica. In questo senso sono orientati molti hobbies: i giovani cinesi trascorrono ore a chattare coi connazionali in patria o con ragazzi che condividono la stessa situazione. Molto diffuse sono poi le telenovelas e i prodotti cinematografici cinesi, mentre la vacanza nelle zone di provenienza è un must per le famiglie che, raggiunta la stabilità economica, vogliono garantire ai figli una continuità col passato.
 
 
Occidente cinese
 
Nonostante questa tensione continua verso le proprie origini, le nuove generazioni maturano progetti di vita alternativi a quelli dei genitori. Pur continuando a mirare alla stabilità economica,  prendono in considerazione settori nuovi e, cosa importante, desiderano studiare.
Questi ragazzi stanno costruendo una prima via di interazione con la realtà che li circonda ed inaugurano forme nuove di socializzazione: a metà strada tra quelle tipicamente cinesi ed italiane. Nuove forme che esprimono una commistione tra diversi modelli di riferimento: a fianco al basket, alla sigaretta o alla birra con gli amici si pongono la cucina e i giochi tradizionali, la musica e gli abiti cinesi. Viene in un certo modo inseguito il cliché del giovane cinese di seconda o terza generazione residente in paesi a più lunga tradizione migratoria –come Stati Uniti o Francia- dove il tasso di scolarizzazione, anche universitaria, è  più alto; gli immigrati sono più numerosi, di modo che viene meno il senso di solitudine che talvolta subentra in Italia, e i giovani selezionano ciò che il paese ospitante a da offrire per assimilarlo all’identità ha cui sentono d’appartenere.
 
 
E’ vero che i cinesi non muoiono?
 
Sono molte le curiosità che sorgono agli italiani riscontrando la bassa frequenza di decessi tra i cinesi. Curiosità che hanno dato adito a varie leggende metropolitane tra cui quella del “cinese immortale”.
Qualcuno ha avanzato l’ipotesi dei cadaveri cremati per recuperarne i documenti, altri sussurrano invece l’eventuale, possibile esistenza di traffici d’organi.
In realtà, l’argomento di per sé delicato si presta a riflessioni molto più semplici e rispondenti al vero. Per prima cosa, la popolazione cinese è piuttosto giovane, dati comunali ci informano che l’età media dei cinesi residenti a Roma alla data del 31/12/05 è di circa 30 anni.  Si aggiunge poi il fatto che gli immigrati di prima generazione fanno generalmente ritorno nel paese natale per trascorrervi gli ultimi anni di vita. Mentre in caso di decessi improvvisi, le famiglie –supportate de associazioni cinesi- si adoperano per il reimpatrio della salma.
Sono questi presupposti a determinare quel numero esiguo di morti e sepolture che desta, talvolta, approssimate considerazioni.
 
 
E noi?
 
     Non possiamo rimanere indifferenti alla delicatezza del momento storico che ci apre al contatto con la diversità, con popoli dalle culture antiche, complesse e radicate.
Riscoprire noi stessi e le radici della nostra identità diventa presupposto imprescindibile per una sereno incontro con l’Altro, in una prospettiva di scambio e reciproco arricchimento… che può passare anche attraverso le piccole cose, magari, per cominciare,  una pallina di gelato fritto durante il week-end!
 
Sitografia: 
 
                   
              
                   
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Maddalena Marconato
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