Un artista fuori dagli schemi, non apprezzato dai contemporanei, tranne che da pochi, un’anima mai in pace con accanto un pugno di amici e una vita travagliata nella ricerca incompresa e disperata di cosa sia l’amore.
Egon Schiele, Autoritratto con alchechengi, 1912, Vienna, Leopold Museum.
Egon Schiele, Donna seduta, 1917, Praga, Nàrodnì Galerie.
Egon (1890-1918): irriverente, scandaloso, osceno, pazzo, provocatorio, non ortodosso, senza ritegno, troppo esplicito, volgare, esagerato, distorto come le sue linee spezzate, audace, fastidioso, spigoloso, eccentrico, ossessionato dalla sessualità, angosciato, malinconico, inquieto. Un artista fuori dagli schemi, entrato nel 1906 all’Accademia delle Belle Arti a Vienna per uscirne poco dopo, perché soffocato nel suo estro da criteri artistici troppo stringenti. Non apprezzato dai contemporanei, tranne che da pochi tra cui l’amico Klimt. Un’anima mai in pace con accanto un pugno di amici e una vita travagliata nella ricerca incompresa e disperata di cosa sia l’amore.
Egon Schiele parla con la carne delle sue opere. I corpi nelle sue tele sono incontenibili, trasudano una forza impossibile da controllare, che talora spaventa. Autoritratto e Donna seduta fanno eccezione nella vasta gamma di nudi che sono oggetto delle sue opere, sembrano “composti” in confronto alla sregolatezza messa a tema in altri dipinti, espliciti e da alcuni colleghi del suo tempo definiti “pornografici”.
Sono dure le linee che definiscono anche questi due corpi di uomo e donna, l’uno impettito e l’altra ripiegata, entrambi assorti. Nello scandalo di corpi che, per chi conosce Egon, potrebbero da un momento all’altro liberarsi dai vestiti e vagare sulla tela liberi e scoperti, ad inchiodarci a questo timore sono i loro occhi che sembrano leggerci dentro, interpellarci e chiederci “cosa ti aspetti da me?” o “cosa vuoi da me?”. Occhi di chi cerca di vagliare la statura di chi osserva, occhi che cercano o di cogliere il pregiudizio insito in noi, forse per metterlo presto in imbarazzo, o di incontrare un barlume di quell’umanità capace di sorridere all’altro nella sua libertà, senza richiederne prerequisiti. Sono occhi che sfidando le buone maniere, che vogliono mettere alla prova quanto quel Dio in cui probabilmente non credono ma in cui sperano (per loro è possibile questo) sa farsi presente in noi che li osserviamo o quanto noi che osserviamo sappiamo nei nostri di occhi far incontrare quelli di quel Dio.
“Che vuoi da me?” ci chiede Egon e “Cosa vuoi da me?” ci chiede l’anonima ragazza. Appelli di ieri e di oggi per noi che sappiamo riconoscere gli incontri meramente convenienti e interessati e che distinguiamo da quelli vitali, che cerchiamo e che hanno il sapore della verità e della solidità; per noi che spesso ripieghiamo sul più comodo, più funzionale, più veloce, perdendoci il gusto, l’attesa, lo stare, il piangere e il ridere insieme di lacrime e risa estranei ad ogni emoticon; per noi che talvolta sospettosi guardiamo al collega vicino, smarrendo la realtà dell’essere fratelli.
Egon, tutto teso nel suo autoritratto, rilasserà i suoi nervi quando qualcuno gli tenderà una mano non per la fama ora raggiunta, ma per il piacere di stare con lui.
La ragazza seduta, alzerà la testa e si desterà dalla sua noia quando qualcuno le dirà che non vuole niente da lei, se non conoscere il suo nome.
Presto arriveremo tutti in quella Betlemme, dove tutti i nostri Egon e Ragazze sedute sgraneranno gli occhi commossi, si poseranno una mano al petto e cercheranno di toccare quel cuore che vivo ha dato barlume di cosa sia l’Amore, qualcosa di indifeso e di irrinunciabile. A noi l’augurio, con la stessa nostra mano sul cuore, di stare nella carne dei nostri amici, compagni, bambini, ragazzi, anziani, genitori, colleghi, perché il travaglio di ognuno diventi opera d’arte da cui sempre ricominciare.
Io esisto per me e per coloro ai quali l’inestinguibile sete di libertà che ho in me dona tutto, ed esisto anche per tutti, perché amo – anch’io amo – tutti. (Egon Schiele)
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