REPORTAGE - DARFURSettantamila morti, un milione e mezzo di profughi: nel Darfur, da due anni è in corso un massacro etnico di cui il mondo però sembra essersi dimenticato.
del 01 febbraio 2005
 Sono esattamente due anni che il Darfur vive l’inferno di una guerra apparentemente senza soluzione, che ha già ucciso circa settantamila persone, costringendone oltre un milione e mezzo alla fuga.
Alimentata nel corso degli anni Novanta da continue tensioni e da sporadici scontri tra popolazioni nomadi e stanziali, la guerra, che oggi interessa un vasto territorio del Sudan occidentale, è esplosa in tutta la sua drammatica ferocia nel febbraio del 2003. È stato allora che due gruppi ribelli, il Sudan Liberation Movement (Slm) e il Justice and Equality Movement (Jem), hanno imbracciato le armi contro i cosiddetti janjaweed («diavoli a cavallo»), milizie filogovernative, sostenute da Khartoum, ferocemente impegnate a sterminare i neri africani della regione. Da allora, ogni tentativo di accordo è fallito e la pace sembra al momento irraggiungibile.
La comunità internazionale e i media di tutto il mondo hanno denunciato questo palese atto di pulizia etnica. Eppure la posizione di stallo in cui è precipitata la crisi del Darfur rischia di trasformarsi per le popolazioni locali in un’agonia senza fine. Le Nazioni Unite hanno tentato di imporre sanzioni e ultimatum. Ma il governo di Khartoum – grazie anche all’appoggio dei suoi «nuovi amici», Russia e Cina – ha sempre astutamente aggirato l’ostacolo, consapevole dell’incapacità politica della comunità internazionale di intervenire per porre fine ai massacri. Lo stesso governo statunitense – che pure ha messo in campo tutto il suo peso politico, economico e diplomatico per finalizzare l’accordo di pace tra nord e sud, firmato il 9 gennaio – non sembra avere la forza necessaria per imporre a livello internazionale una soluzione alla crisi del Darfur. Anche se il Congresso e l’allora segretario di Stato Colin Powel si erano affrettati, nei mesi scorsi, nel definire «genocidio» quanto sta accadendo in questa regione.
Sta di fatto che di fronte alla risoluzione che imponeva il disarmo dei miliziani, il governo di Khartoum ha risposto con una grottesca messa in scena filmata dalla Tv di Stato: i janjaweed hanno sfilato davanti alle telecamere consegnando i fucili. Nessuno sa dove siano finite le armi, ma è certo che molti miliziani sono stati arruolati nelle forze di polizia e poi mandati a «garantire la sicurezza» dei villaggi che fino a poco prima avevano contribuito a devastare. Ovvio che, nonostante il governo chieda agli sfollati di tornare alle loro case – sostenendo che ci sono tutte le condizioni di sicurezza – nessuno abbia voglia di farlo per paura di ritrovarsi nuovamente faccia a faccia con i propri carnefici.
Stando ai racconti degli scampati, ammassati nei campi profughi del vicino Ciad, quello del Darfur ha tutte le caratteristiche di un massacro etnico pianificato. L’attacco ai villaggi segue un copione ben preciso e sempre uguale. Prima le raffiche di mitra dagli elicotteri governativi, poi gli Antonov dell’aviazione che bombardano a tappeto e 'preparano' il terreno, infine, le incursioni dei janjaweed a bordo di camion, o in sella a cavalli e dromedari. Armati di kalashnikov e machete, seminano morte e distruzione, accanendosi contro i civili in fuga: incendiano capanne, squartano neonati, violentano donne, rapiscono bambini, rubano raccolti e bestiame.
I due gruppi ribelli che li combattono – Slm e Jem – considerano gli attacchi come un piano organizzato dal governo di Khartoum per «arabizzare» tutto il Sudan. Ma non va dimenticato che il Darfur è anche una terra ricca: gomma arabica, petrolio, minerali, campi fertili... È evidente dunque che si tratta anche di un conflitto per l’accaparramento delle risorse naturali. «Questa non è una guerra di religione», dice Bahar Bassigei, portavoce dell’Slm a N’Djamena, capitale del Ciad. «In Darfur siamo tutti musulmani. Gli arabi del nord hanno semplicemente deciso, appoggiati dal governo, di sterminare tutti noi neri africani».
Si calcola che attualmente siano quasi due milioni gli sfollati, molti senz’acqua, cibo e medicinali: mezzo milione sono ammassati lungo la frontiera ciadiana. Altri 200 mila sono accolti negli undici campi profughi allestiti in Ciad dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur).
L’afflusso dei profughi del Darfur in territorio ciadiano, dopo l’invasione inarrestabile della primavera scorsa, è rallentato a causa dell’impraticabilità delle strade durante la stagione delle piogge e soprattutto dai pattugliamenti continui dei janjaweed, che impediscono alle popolazioni in fuga di dirigersi verso il confine. Chi è riuscito ad arrivare, dopo settimane di viaggio a piedi o a dorso di mulo, ha cercato di sistemarsi ai margini dei campi, in attesa di essere registrato e di ricevere una tenda e un po’ di aiuti.
«La disperazione», racconta padre Gianfranco Jacuzzi, gesuita del Jesuit Refugee Service, rimasto nove mesi in Ciad, «è vissuta con rassegnazione e senza alcuna ostentazione a causa della loro religione. Per loro tutto è dono di Allah, anche le disgrazie. Sono terrorizzati solo quando vedono passare gli aerei umanitari del Programma alimentare mondiale (Pam) perché temono si tratti di altri raid dell’aviazione sudanese». Se non ci fossero questi rifornimenti, tuttavia, migliaia di persone non avrebbero nulla da mangiare e andrebbero incontro a morte certa.
Padre Gianfranco ha vissuto l’orrore quotidiano dei campi di Farchana, Touloum e Iriba. «Io e il nostro piccolo gruppo ci occupiamo specialmente dei cosiddetti 'vulnerabili', coloro cioè che, per quanto possibile, vivono un dramma ancora peggiore, come gli handicappati fisici e psichici. Cerchiamo di dar loro conforto, aiutandoli a vivere una vita meno dura e sofferta. Per questi sventurati, è impossibile anche raggiungere i punti di distribuzione del cibo. A volte si impedisce loro persino di ottenere ciò a cui hanno diritto. Eppure, nonostante le enormi sofferenze e le grandi difficoltà che condividiamo con queste persone, restare accanto loro mi rende felice, perché posso vivere pienamente i valori in cui credo, e la mia fede si rafforza ogni giorno».
Una volta, racconta, «nel campo di Farchana, sono rimasto molto turbato da un bambino idrocefalo fuggito dal Darfur con la famiglia. La testa era il doppio del suo corpo e mentre noi parlavamo di lui, incominciò a sorridere e a ripetere le nostre parole. Il sorriso l’aveva fatto diventare una persona bellissima. Eravamo in cinque e ci siamo messi tutti a piangere, nel vedere questo bimbo che quasi non sembrava neppure umano, diventare più bello di noi».
Fuori dai campi la situazione non è migliore. Anzi, il complesso rapporto tra profughi e abitanti dei villaggi è via via degenerato. All’inizio, l’integrazione era piuttosto buona; poi, con l’arrivo in massa di decine di migliaia di persone, i già fragili equilibri sono saltati e il rapporto è diventato fortemente conflittuale. Del resto, era in qualche modo inevitabile: quando si passa in pochi mesi da duemila a quindicimila profughi in un territorio già estremamente povero e senza la minima infrastruttura, la situazione diventa insostenibile. Gli abitanti dei villaggi finiscono così col considerare i profughi dei pericolosi contendenti per le poche risorse locali: acqua, legna, erba, terra da coltivare e per i pascoli. Oltretutto, vedono passare davanti ai loro occhi gli aiuti internazionali, necessariamente convogliati nei campi, mentre a loro, che subiscono indirettamente i contraccolpi negativi di questa «invasione» di sfollati, non arriva nulla. Da qui, i numerosi episodi di intolleranza e di violenza ai danni dei rifugiati. Anche se non mancano esempi di solidarietà e di fratellanza, pur in situazioni di estrema miseria e precarietà.
Le tensioni, tuttavia, non mancano neppure all’interno delle diverse comunità di rifugiati, a causa di ataviche rivalità tra le numerose etnie che affollano i campi e che inevitabilmente vengono a contatto tra di loro: Tama, Fur, Masalit, Zaghawa... «Nel campo di Touloum», racconta il gesuita, «abbiamo saputo del caso di una donna tama che è stata massacrata di botte da un gruppo di donne zaghawa solo perché aveva usato la loro latrina».
Il problema della rivalità interetnica è accentuato soprattutto al nord, dove i campi profughi ospitano popolazioni di diverse etnie. Al sud invece, questo problema è fortunatamente scongiurato, dato che i campi di Djabal e Goz Amir, dove operano le ong italiane Coopi e Intersos, ospitano quasi esclusivamente gruppi masalit.
Anche la Chiesa sudanese cerca di svolgere un’azione umanitaria, ma si ritrova oggi gravemente prostrata da 21 anni di guerra civile tra nord e sud. Durante questo decennale conflitto, appena conclusosi, ha subito ripetute angherie e violenze, ha visto chiese distrutte e saccheggiate, religiosi rapiti, vescovi arrestati, e preti fustigati in nome della sharia, la legge islamica, solo per aver bevuto il vino della messa. Oggi le popolazioni nere del Darfur stanno subendo le stesse persecuzioni a lungo inflitte alle comunità cristiane e animiste del sud del Sudan. «La Chiesa», spiega il vescovo comboniano Antonio Menegazzo, della diocesi di El Obeid, nel Kordofan, «lavora da sempre coi profughi nel nord e nel sud del Paese. Ma è una Chiesa estremamente povera e deve dipendere, purtroppo, sia per gli aiuti umanitari, sia per lo sviluppo e le strutture pastorali, da organizzazioni internazionali, in particolare cattoliche».
Sudanaid, ad esempio, la Caritas nazionale con sede a Khartoum, nel Segretariato generale della Conferenza episcopale, è in contatto con diverse organizzazioni cattoliche e coordina il loro lavoro e gli aiuti che giungono per il Darfur. «Nella diocesi», dice monsignor Menegazzo, «abbiamo tre parrocchie – Nyala, El Kasher e El Daein – e in ognuna operano due sacerdoti. Lavoriamo in due modi: in cooperazione con le altre Chiese, con le quali vengono stabiliti i programmi di intervento (costruzione di capanne, tende, sanità, educazione) oppure assistendo i profughi che hanno preferito rimanere in città e non possono essere aiutati dalle altre organizzazioni».
Monsignor Antonio Menegazzo dice la sua anche in merito all’eventuale intervento dell’Onu, nel caso che la Commissione nominata da Kofi Annan stabilisca formalmente che quanto sta avvenendo in Darfur è un vero e proprio genocidio. «Un intervento dei caschi blu non sarebbe positivo; sia per le reazioni negative che susciterebbe in tutto il Paese, sia per le prevedibili difficoltà che le truppe dell’Onu incontrerebbero nel districarsi in un territorio tanto vasto e inospitale».
«Penso piuttosto», sostiene monsignor Menegazzo, «che le stragi dei janjaweed potrebbero essere fermate dalle forze di peacekeeping dell’Unione africana (Ua). Ma per fare questo dovrebbe essere dato loro il potere di agire e non solo di proteggere gli osservatori dell’Ua».
A El Obeid è attiva anche la comunità di padre Alfonso, missionario sudanese degli Apostoli di Gesù (congregazione fondata nel 1968 in Uganda dal vescovo comboniano monsignor Sisto Mazzoldi), che ha ricevuto e continua a ricevere centinaia di sfollati in cerca d’aiuto. La comunità è legata a Italia solidale di padre Angelo Benolli, il movimento che opera da anni in sintonia con il motto comboniano «Salviamo l’Africa con gli africani».
«Oggi all’interno della Chiesa», dice padre Angelo, «bisogna impostare un nuovo tipo di missione. I preti devono operare insieme ai laici, per creare insieme un’azione pastorale a favore dei più poveri. Devono collaborare per una globalizzazione della solidarietà. Vogliamo anche superare le barriere dell’assistenzialismo, dato che il nostro scopo principale non è la creazione di campi profughi ma la sussistenza di chi aiutiamo, attraverso le cosiddette 'famiglie allargate', costituite da una trentina di gruppi di 60-70 persone che diventano gradualmente autosufficienti. È questo il nostro modo di far missione. È questa la Chiesa viva che vogliamo».
Col sostegno di Italia solidale, padre Alfonso ha dunque creato una comunità di laici e religiosi, praticamente in mezzo al deserto. Con i soldi delle adozioni a distanza, ha comprato muli, galline e mucche. Così gli sfollati del Darfur vanno al mercato dei villaggi a vendere uova, mentre le donne fanno ricami e cercano di vivere del loro lavoro, provando a ricominciare una vita normale.
«Il Sudan», conclude il vescovo di El Obeid, «è uno di quei Paesi del mondo dove sono poche le possibilità di condurre una vita dignitosa. L’unico bastone cui appoggiarsi è l’umanità di chi è abituato a soffrire e non possiede nulla. Da queste parti, per fortuna, il povero aiuta sempre il povero e condivide con lui quello che ha, l’abitazione, il poco cibo e anche la speranza».
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