Un secolo di genocidi e massacri sistematici in Africa e non solo. L'editoriale di settembre di Nigrizia richiama l'attenzione sul genocidio in atto oggi nel Darfur, in Sudan, sottolineando come, ancora una volta, la comunità internazionale se ne stia a guardare.
del 01 gennaio 2002
Battaglia di Hamakari, sul Waterberg Plateau, 11 agosto 1904, tra le truppe coloniali tedesche e i guerrieri herero. Pochi conoscono quei fatti. La Germania si annette il territorio nel 1884, denominandolo Africa del Sud-Ovest (attuale Namibia). Gli herero reagiscono subito, opponendosi alla progressiva perdita delle proprie terre. I tedeschi, con l’appoggio britannico, occupano comunque gran parte della regione.
La rivolta degli herero scoppia l’11 gennaio 1904. Uccisi cento coloni e una decina di soldati tedeschi in una serie d’attacchi contro fattorie isolate. Spietata la repressione tedesca. Il generale Lothar von Trotha, inviato dell’imperatore Guglielmo II con l’ordine di 'schiacciare i rivoltosi con ogni mezzo, lecito o illecito', trasforma lo scontro in un vero e proprio genocidio. Nella battaglia di Hamakari migliaia di herero sono falciati dalle mitragliatrici; seguono impiccagioni di massa. I superstiti vengono deportati nel deserto di Omaheke, i cui pozzi sono stati avvelenati.
Agli inizi del 1905, anche i nama si ribellano e subiscono la stessa sorte. Per gli scampati c’è il campo di concentramento. Nell’arco di tre anni, il 60% dei reclusi muore di malattie e stenti o per esecuzioni sommarie. Nel 1910, rimangono soltanto 15mila degli 80mila herero e solo 8mila dei 20mila nama.
Quello degli herero e dei nama non è stato l’unico genocidio commesso dagli europei in Africa nel secolo scorso. Nell’allora Libero Stato del Congo (l’attuale Rd Congo), immenso possedimento privato del Re Leopoldo II del Belgio, l’intera popolazione fu ridotta in schiavitù e costretta con metodi disumani a produrre ricchezze da inviare in Europa. Si calcola che almeno 10 milioni di persone abbiano perso la vita tra il 1885 il 1908. Ai nostri giorni, basti ricordare il genocidio ruandese (1994, tra 500mila e il milione le vittime), i massacri sistematici avvenuti durante la guerra combattuta nell’Rd Congo dal 1996 al 2002 (oltre tre milioni di morti), i ripetuti eccidi in Liberia e Sierra Leone...
Oggi, secondo numerose organizzazioni umanitarie e agenzie Onu, un nuovo genocidio è in atto in Sudan, nella regione del Darfur: 50mila le vittime, un milione i profughi, 160mila i rifugiati in Ciad. Eppure, oggi come ieri, la comunità internazionale sembra limitarsi a guardare o ad approvare risoluzioni Onu destinate a rimanere sulla carta.
Nella Convenzione sulla prevenzione e repressione di crimini di genocidio del 1948 si legge: 'Viene definito genocidio uno qualunque degli atti di seguito elencati, commessi con l’intenzione di distruggere, del tutto o parzialmente, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: il massacro dei membri di un gruppo; l’attentato grave all’integrità fisica o mentale del gruppo; la sottomissione intenzionale di un gruppo a condizioni di esistenza che comportano la sua soppressione fisica, totale o parziale; le misure finalizzate a impedire le nascite all’interno di un gruppo; il trasferimento forzato di bambini da un gruppo verso un altro'.
Sotto pressione dell’allora Urss e con la complicità di molti paesi, dalla lista dei crimini da perseguire la Convenzione escluse l’eliminazione di gruppi politici, la distruzione di un gruppo attraverso l’annientamento culturale o l’assimilazione forzata al gruppo dominante. Queste restrizioni ridimensionavano notevolmente il significato che i penalisti attribuivano al concetto di genocidio, a riprova di quanto rapidamente le grandi potenze – appena concluso il secondo conflitto mondiale – hanno imboccato la strada della realpolitik.
La creazione di un Tribunale internazionale, previsto dalla Convenzione, avrebbe visto la luce soltanto nel 1998. Nel 1993 la Bosnia Erzegovina sarebbe stato il primo paese a fare appello alla comunità internazionale contro la Federazione Jugoslava (Serbia e Montenegro), accusandola di genocidio e richiamandosi alla Convenzione del 1948.
Una volta definito il concetto, la parola 'genocidio' è diventata impronunciabile. Nel 1994, Bill Clinton, pur di evitare l’impegno Usa in Ruanda, chiese al dipartimento di Stato di 'fare acrobazie legali per evitare di parlare di genocidio'. Nel luglio scorso, il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, invitato da vari organismi internazionali a definire 'genocidio' i massacri compiuti in Darfur, ha affermato: 'Perché pronunciare questo nome, quando la comunità internazionale non è pronta a intervenire' come esigerebbe la Convenzione?
Acrobazie, questa volta verbali, anche al recente incontro dell’Unione africana ad Addis Abeba. S’è parlato di 'crimini di guerra', 'odiosi massacri', 'eccidi', 'tragedia umanitaria'… ma non s’è nominato l’innominabile. Se non si tratta di genocidio, si può fare a meno di intervenire.
Lo scorso 22 luglio, il Congresso americano, in una risoluzione votata all’unanimità, ha definito 'genocidio' la tragedia in atto nel Darfur, e ha invitato l’Amministrazione Bush a prendere in esame la possibilità di un intervento multilaterale o anche unilaterale, se le Nazioni Unite non dovessero riuscire a risolvere la situazione. Ma si teme che Russia e Cina – e anche alcune nazioni latino-americane e arabe – si opporranno a una risoluzione Onu troppo 'severa'.
La Convenzione del 1948, che costituisce l’unico strumento di riferimento per la repressione del genocidio e si pone come il solo mezzo disponibile per la sua prevenzione, fino ad oggi ha represso ben poco. E ancor meno prevenuto. Se non sono in ballo i propri interessi, la comunità internazionale non si muove. Sceglie invece di temporeggiare, trincerandosi dietro a ciniche definizioni giuridiche e dicendo: 'Si tratta soltanto di massacri, eccidi, 'politicidi', 'democidi'… ma da qui a genocidio ce ne corre!'. E così, il grido 'mai più' è diventato un mero slogan. Da ripetere stancamente e inutilmente.
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