Due saggi di Canfora e Liverani portano l’attenzione sulle vicende di perdita, ricostruzione e di nuovo perdita dell'edificio: costituiscono il “luogo” della presa di coscienza del popolo giudaico
Il tempio di Gerusalemme è uno dei protagonisti della Bibbia. Il primo tempio, quello di Salomone, il secondo, quello ricostruito dopo il ritorno da Babilonia e distrutto da Tito nel 70 d.C., e il “tempio” durante l’esilio, quando non c’era più. Accompagna tutta la storia della salvezza, Antico e Nuovo Testamento. Molte delle cose più importanti il tempio le ha dette durante e dopo le sue distruzioni e profanazioni. I libri di Luciano Canfora, Il tesoro degli ebrei: Roma e Gerusalemme( Laterza, pagine 304, euro 22,00), e quello di Mario Liverani, Oriente e Occidente (Laterza, 2021), sebbene molto diversi tra loro, hanno nel tempio di Gerusalemme un importante punto di contatto.
Il centro del saggio di Canfora è una puntuale indagine storico-filologica attorno all’occupazione romana del tempio di Gerusalemme, avvenuta per mano di Gneo Pompeo nel 63 a.C. Noto è il racconto di Tacito: «Tra i Romani, Gneo Pompeo fu il primo a sconfiggere i Giudei e a entrare nel loro tempio col diritto del vincitore: da ciò si seppe che dentro non vi era nessuna immagine di divinità: la sede era vuota e vuoti i loro misteri» (Historiae, V, 9). Dunque “la sede era vacante”. Stesso concetto ribadito da Dione Cassio, nella sua Storia Romana (XXXVII): «Gli ebrei non avevano nessuna statua nel tempio in Gerusalemme; e poiché sono i più superstiziosi tra gli uomini ritengono che il Dio debba essere indicibile e non rappresentabile. Il tempio innalzato in onore di un tale Dio era grandissimo e veramente splendido». Questo vuoto, che Tacito e Dione non capiscono e riferiscono con un certo malcelato sarcasmo, continua a essere il vuoto più pieno della storia delle religioni.
Gli ebrei hanno saputo custodire per circa mille anni un tempio vuoto, e con esso un’immagine di Dio senza immagini, un Dio più alto di ogni costruzione umana. Da Canfora apprendiamo che l’antisemitismo a Roma era precedente ai cristiani: «Quella gente [gli ebrei] aborrisce lo splendore del nostro impero, la gravitas del nostro nome, le usanze e le leggi dei nostri avi» (Cicerone, Pro Flacco). La loro religione senza statue era sinonimo di senza Dio. Per Filostrato: «Gli ebrei non si sono ribellati soltanto ai romani ma all’intero genere umano». Nel 139 a.C. furono cacciati da Roma con l’accusa, assurda, che fossero adoratori del dio Giove Sabazio (o Bacco-Dioniso). E lo stesso Tacito riporta la diceria che nel segreto del loro tempio gli ebrei adorassero una testa d’asino.
Il centro narrativo di Canfora si trova nella interpretazione che lo storico Giuseppe Flavio, ebreo di lingua greca, dà della conquista di Gerusalemme da parte di Pompeo e del suo “miracoloso” non-saccheggio del tesoro. Sia nella Guerra Giudaicache nelle Antichità Giudaiche, Giuseppe riporta la tesi che Pompeo dopo aver ucciso 12mila (o 20mila) ebrei asserragliati dentro e attorno al tempio (inclusi molti sacerdoti), arrivò nel Santissimo e lì vide il tesoro, cioè molti oggetti sacri e una quantità di monete d’oro pari a duemila talenti (un talento era pari a circa 30 litri). Ma, aggiunge «non toccò il tesoro e nessun oggetto sacro». Canfora non crede a questa tesi, che attribuisce alla propaganda ideologica di Giuseppe, che da ebreo voleva accreditarsi presso Roma e la gens Flavia.
Canfora invece fa propria la versione di Dione Cassio che parla di razzia del tesoro da parte di Pompeo: «Tutto il denaro fu saccheggiato». Il saccheggio comprendeva anche la famosa “vigna d’oro” che si trovava all’ingresso del tempio, che Pompeo portò con sé e fece sistemare a Roma nel tempio di Giove Capitolino; Giuseppe Flavio, però, dirà coerentemente con la sua teoria che la vigna aurea era stata un dono di Aristobulo (sovrano sommo sacerdote in Gerusalemme all’arrivo di Pompeo) prima che iniziasse la guerra.
Un contributo prezioso del saggio di Canfora è l’analisi di un documento non abbastanza considerato dagli storici, l’apocrifo dell’antico testamento I salmi di Salomone, la fonte storica «più vicina ai fatti» del 63 a.C. Di questi diciotto inni (tra l’altro molto belli), tre possono essere collegati alla guerra giudaica (2, 8, 17), e quindi offrire importanti elementi a conferma della tesi di Canfora (e contro quella di Giuseppe). Infatti quei salmi denunciano con forza le atrocità e le deportazioni: «Ha devastato l’empio la nostra terra privandola di coloro che l’abitavano, hanno fatto sparire giovane e anziano e i loro figli insieme: con collera e ira li ha deportati fino all’occidente e ha deportato i potenti del paese, in segno di scherno e non ha avuto pietà» (Salmo 17, 11-12). Canfora, con una traduzione diversa rispetto a quella Utet (a cura di Paolo Sacchi), aggiunge: «nella smania di ghermire financo il tesoro», includendo così anche il tesoro accanto ai deportati di Pompeo in occidente.
In sintesi, l’operazione di Giuseppe fu leggere l’atteggiamento di Pompeo in funzione di quello di Tito che, nel suo racconto, fece di tutto per non distruggere il tempio, tanto che a suo dire l’iniziativa fu dei soldati contro l’ordine imperiale. Quindi: «Pompeo nel tempio prefigura Tito nel tempio». Canfora contesta anche la pietas di Tito (gli ebrei uccisi in quel 69-70 furono secondo Giuseppe un milione), e porta a testimonianza anche la raffigurazione nell’Arco di Tito del suo ritorno trionfale con il candelabro a sette braccia del tempio ben in vista. Giuseppe non esce bene dal saggio di Canfora, uno storico che mette il suo talento a servizio della propria reputazione a Roma, alla quale piega i fatti, dei quali era pur stato testimone diretto.
Il saggio di Mario Liverani tratta del più ampio tema della narrativa sull’Oriente visto da Occidente, confutando, anche lui, tesi troppo semplici per essere vere. Molto interessante è la ripresa che Liverani fa della teoria, introdotta da Karl Jaspers, della età assiale, quel periodo che per il filosofo tedesco va dall’800 al 200 a.C, in cui l’umanità, in posti diversi della terra, raggiunse una nuova fase del suo sviluppo etico, grazie all’arrivo di grandi individui: in Cina Confucio e Lao Tse, in India Buddha, in Persia Zarathustra, in Israele i profeti, in Grecia dai presocratici a Platone. Liverani individua questo periodo straordinario in un arco più corto, attorno al VI secolo a.C., il cui centro, nella civiltà biblica, è occupato dell’esilio babilonese, che inizia dopo la distruzione del tempio di Salomone (587).
Per Liverani le principali eredità dell’età assiale sono la religione etica, la nascita della responsabilità dell’individuo e la visione razionale del mondo. Prima esisteva la responsabilità collettiva o corporativa, orizzontale e verticale (intergenerazionale); questa seconda è più nota: le colpe dei padri ricadevano sui figli. Il VI secolo vede l’inizio di qualcosa di nuovo, di essenziale per lo sviluppo delle civiltà. La razionalità inizia a prendere il posto della magia, i profeti degli aruspici. La responsabilità etica diventa personale e insieme nasce la coscienza dell’individuo che si esprime nelle preghiere intime dell’anima dette in prima persona singolare, come emerge dai salmi e nei profeti. È il frutto di una visione della religione non più incentrata sulla figura del re-sacerdotesciamano e più sulla Legge e i Profeti. Sempre in questo periodo si afferma il monoteismo, una grande innovazione teologica, punto di arrivo di un lungo processo, partito col politeismo e passato per il monolatrismo (Israele adora il suo unico Dio, ma le altre nazioni adorano i loro dei). Liverani mostra che in questo lungo processo (che accompagna tutta la monarchia in Israele) la distruzione di Gerusalemme e del tempio è l’asse dell’età assiale. Nei suoi deportati Israele capì che YHWH non era legato al tempio, che il loro Dio poteva essere vero anche se sconfitto.
Ma l’esilio fu essenziale per apprendere alcune dimensioni religiose dai babilonesi. Qui Liverani mostra che sui testi biblici forte fu l’influsso dell’incontro con i babilonesi. L’idea di un Dio biblico monoteista totalmente diverso dagli idoli degli altri va rivista profondamente. Molto bello un testo babilonese su Marduk: «Uras è Marduk della piantagione, Lugallidda è Marduk dell’abisso, Ninurta è Marduk del piccone, Nabu è Marduk della contabilità, Sin è Marduk che illumina la notte, Samas è Marduk della giustizia, Adad è Marduk della pioggia, … è Marduk di ogni cosa». I vari dèi del pantheon babilonese iniziano a essere percepiti come volti dell’unico Dio.
Durante l’esilio, i profeti d’Israele – Ezechiele, il secondo Isaia, e in un certo senso Geremia – rivelarono al popolo un Dio nuovo, una nuova alleanza, una circoncisione del cuore. Senza più un luogo sacro (tempio), gli ebrei impararono shabbat, il “tempio del tempo”: il tempo sacro. Canfora termina il suo libro con lo shabbat. Flavio Giuseppe racconta che Pompeo e i romani riuscirono a sconfiggere (gli imbattibili) ebrei proprio a causa dello shabbat: «Gli ebrei il sabato si astengono dall’agire, ma solo si limitano a difendersi; e perciò Pompeo potè far colmare il solcato protettivo intorno alla fortezza-tempio agendo ogni sabato».
Lo shabbat, la grande innovazione di Israele, il loro grande tesoro geloso che li ha salvati molte volte, quella volta divenne la ferità-feritoia attraverso cui passò la sconfitta. Probabilmente i romani erano abbastanza potenti per entrare anche senza usare i sabati, ma quel dettaglio di Giuseppe resta una lezione paradossale della storia e della vita. Le nostre vulnerabilità si nascondono dentro i nostri doni più grandi, che restano doni grandi anche se (o forse perché) vulnerabili.
di Luigino Bruni
Testo tratto da avvenire.it
Immagine tratta da commons.wikimedia.org
Versione app: 3.26.4 (097816f)