Digiunando amiamo con anima e corpo

Il tempo di Quaresima dovrebbe essere tempo di astinenza e digiuno, una forma di ascesi che sembra caduta generalmente in disuso, sebbene sia tuttora praticata da non pochi fedeli. Certamente però la rilevanza sociale del digiuno cristiano è del tutto scomparsa. Il rapporto tra l'uomo e il cibo è più complicato...

Digiunando amiamo con anima e corpo

da Teologo Borèl

del 12 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

 

Una riflessione sul significato e l'importanza del segno quaresimale del digiuno  

          Il tempo di Quaresima dovrebbe essere tempo di astinenza e digiuno, una forma di ascesi che sembra caduta generalmente in disuso, sebbene sia tuttora praticata da non pochi fedeli. Certamente però la rilevanza sociale del digiuno cristiano è del tutto scomparsa, vittima dell’atteggiamento saccente e sprezzante delle ideologie correnti, che vedono nel cristianesimo un retaggio obsoleto e pesante di cui liberarsi. Sennonché, come costatiamo ogni giorno, il risultato di questa liberazione è un nuovo genere di schiavitù, questa sì pesante, e di grande rilievo sociale.

          Mai il rapporto tra l’uomo e il cibo è stato più complicato, come si vede dalla diffusione di incredibili e opposte patologie distruttive, che vanno dall’anoressia all’obesità. Siamo stretti in una sorta di tenaglia dalla quale è difficile sottrarsi. Se, da un lato, i nostri media esaltano il cibo ancor più del sesso, d’altra parte chi di noi non si preoccupa, a volte ansiosamente, di cosa e quanto mangia, o non si è ripetutamente sottoposto a diete di dubbia efficacia, per non parlare delle “osservanze” più o meno vegetariane che imperversano in ogni ambiente e a tutte le età e altre bizzarrie di questo genere…

          Sull’origine profonda di questi atteggiamenti, l’antica mentalità pagana ci può insegnare molte cose. Anche prima di conoscere Cristo l’umanità era assai preoccupata ogni volta che “sedeva a tavola”. L’idea di fondo era che con il cibo, nell’uomo entrasse la morte. Gli dei immortali infatti si nutrivano di “ambrosia” (che etimologicamente significa, molto probabilmente: cosa priva di morte), o non si nutrivano affatto.

          Da qui tutte le preoccupazioni socio-religiose sugli alimenti: ad esempio tutta la carne che veniva consumata era stata macellata come sacrificio agli dei, una sorta di “esorcismo” preventivo, e ogni cultura aveva le sue proibizioni alimentari, come del resto possiamo vedere ancora oggi in quasi tutte le religioni non cristiane.

          L’immagine del cibo come simbolo della morte viene utilizzata anche dalla Bibbia per riportare all’attenzione del popolo di Dio la vera causa dei suoi malanni, ciò che davvero produce la morte. È evidente infatti che il peccato di Adamo ed Eva, presentato secondo la mentalità dell’epoca come il mangiare un alimento proibito, non dà la morte in quanto trasgressione alimentare, ma perché è superbia, ribellione a Dio.

          Non è il frutto che avvelena, ma la parola ricevuta dal serpente velenoso. Anche le regole alimentari  dell’Antico Testamento vanno capite in questa prospettiva: il puro e l’impuro delimitano il rapporto di alleanza tra Dio e il suo popolo in una prospettiva di fedeltà: è l’infedeltà che causa la morte, escludendo dal popolo santo.

          Nel Nuovo Testamento l’associazione cibo-morte viene del tutto superata: Gesù dichiara puri tutti gli alimenti (Mc 7, 19; cfr. At 10, 15 e 1Cor 8, 8). Tuttavia non abolisce il digiuno, ma ne cambia radicalmente il significato. Gesù stesso digiuna nel deserto, all’inizio della sua missione. Non digiuna per una purificazione rituale e tantomeno per scrupoli alimentari, digiuna per “stanare” il tentatore, per affrontare a viso aperto le insidie che il demonio tende di nascosto alla sua missione, per vedere le sue “reti”, come dicono i Padri, e superare così “ogni specie di tentazione” (Lc 4, 13).

          Inoltre insegna ai suoi discepoli a digiunare: finché lo Sposo è con loro, non si digiuna, verrà il tempo di digiunare, quando lo Sposo sarà loro tolto (cfr. Mt 9, 15). I discepoli di Cristo sanno che l’unica cosa che può separarli dallo Sposo, Cristo stesso, è il peccato. Il digiuno è un’arma indispensabile per tornare al Signore.

          Queste due dimensioni fondamentali del digiuno secondo Gesù sono state pienamente assunte dalla Chiesa, sia nella pratica comunitaria, sia per l’ascesi personale. La Quaresima e la Pasqua rappresentano i momenti più significativi della Chiesa per comprendere il ritmo del digiuno cristiano.

          La Quaresima è tempo di astinenza e digiuno, perché il popolo di Dio pellegrino in questo mondo diventi consapevole della propria lontananza dal Signore, si converta e torni a Lui. A Pasqua, nella cinquantina pasquale e tutte le domeniche invece non si digiuna, perché lo Sposo è con noi, ha vinto definitivamente la morte e ci dona la sua vittoria. Chi ci separerà dall’amore di Cristo?

          Lo scopo fondamentale del digiuno e dell’astinenza è dunque mettere in luce gli atteggiamenti profondi che ci separano dallo Sposo e che ordinariamente ci sfuggono, perché siamo troppo immersi nella superficialità delle preoccupazioni quotidiane oppure perché preferiamo non guardare gli aspetti più oscuri della nostra esistenza, la radice dei nostri peccati.

          L’inno dei Vespri della Quaresima Audi benigne Conditor, attribuito a Gregorio Magno, ha una strofa dedicata al digiuno: Sic corpus extra conteri / dona per abstinentiam, / ieiunet ut mens sobria / a labe prorsum criminum. Ovvero: “Donaci di consumare esteriormente il corpo attraverso l’astinenza, in modo che la mente sobria digiuni completamente dal flagello dei peccati”. Il digiuno del corpo dona la sobrietà alla mente, la lucidità interiore necessaria per vincere il peccato. Infatti la Chiesa raccomanda di accompagnare il digiuno con l’elemosina e la preghiera.

          Umiliando la prepotenza dell’impulso della fame, assumiamo volontariamente il disagio di sopportare un poco di fame e chiediamo la luce al Signore per vedere le trappole che il Maligno tende alla nostra vita, disponendoci ad accogliere umilmente la grazia di Dio. L’astenersi dai cibi, infatti, è l’atto contrario rispetto all’arroganza di Adamo ed Eva che cadono nella trappola del mangiare non per fame, ma per superbia.

          Da quanto detto, si comprende che il digiuno dei discepoli di Cristo non esprime affatto un disprezzo per il corpo e le sue esigenze; ma, al contrario, ne riconosce l’importanza, secondo la logica dell’Incarnazione. È il corpo che viene in soccorso allo spirito, aiutando la mente – come dice l’inno di Quaresima – a recuperare la sobrietà, ovvero la giusta distanza dalle preoccupazioni e dai legami di questo mondo, per tornare al Signore. È dunque una terapia efficace per i mali del nostro tempo, compresi i disagi alimentari. 

          Infatti il digiuno, legato alla virtù dell’umiltà, si pratica in obbedienza alla Chiesa e al padre spirituale, suppone perciò una disciplina, altrimenti non vale nulla. I disagi alimentari invece sono espressione di una assoluta mancanza di disciplina e dipendono da un profondo disprezzo per il proprio corpo. Sono conseguenza del tentativo di modificare la propria immagine in ossequio ai modelli astratti, allucinanti, delle mode anoressiche, lontanissimi dal corpo reale.

          Nel caso dell’obesità, invece, si tratta della rinuncia a ogni attenzione per la salute e per il corpo, cedendo a una sorta di disperazione, proprio perché certi modelli appaiono irraggiungibili. Un amore sconsiderato di sé porta alla distruzione di sé. Il digiuno cristiano al contrario ha la sua ragion d’essere nell’amore a Cristo, allo Sposo, ed è mosso dalla gratitudine per tutti i doni di Dio, corpo compreso, così com’è. Sia mangiando, sia digiunando, possiamo amare con tutto ciò che abbiamo, spirito anima e corpo, il Signore Gesù e ritrovare così noi stessi, immagine Sua, come il prossimo, nostro fratello.

don Antonio Grappone

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