Dobbiamo imparare a dimorare accanto alle nostre rovine, a sederci in mezzo ai detriti di casa nostra, fatti di cicatrici e desideri frantumati, senza amarezza, senza rimproverare noi stessi né accusare Dio. Si tratta di imparare ad amare la propria nullità, le proprie ferite, la propria storia, la propria cenere...√â necessario accettare la propria storia, così com'è, con le sue gioie e le sue ferite. In queste pagine la possibilità di entrare maggiormente nel primo punto della favola di Cenerentola...
del 01 dicembre 2003É necessario accettare la propria storia, così com’è, con le sue gioie e le sue ferite. In queste pagine la possibilità di entrare maggiormente nel primo punto della favola di Cenerentola…“Ti basta la mia grazia: la mia potenza si manifesta infatti pienamente nella debolezza” (2Cor 12, 9)  C'era una volta...
La storia di Cenerentola è la storia di una grande solitudine nel cuore di una ragazza per la perdita della mamma. Il papà si risposa portando purtroppo in casa una matrigna cattiva e due sorellastre invidiose e superbe.
La solitudine di questa figlia si fa più acuta, trattata come una serva, costretta ai lavori più umili, esclusa e cacciata fuori, vicino al focolare, accanto alla cenere. Cenerentola, appunto, sarà d’ora in poi il suo nome. Ma un giorno il Principe, che cerca una bella ragazza con cui dialogare per costruire insieme una vera storia d’amore, invita tutte le ragazze del suo regno ad un ballo fantastico. Le due sorellastre sono le prime, tra mille attese ed emozioni. Fanno di tutto per apparire belle, con abiti lussuosi e capelli intrecciati. Desiderano emergere, ai danni di Cenerentola, che non viene invitata. Anzi, resta a casa a pulire. E scoppia in lacrime, un pianto irrefrenabile, perché dimenticata e non invitata da nessuno.
Ma c’è sempre una risposta alle lacrime! E così, le viene in aiuto la fata, la sua madrina che ha seguito questa fragile creatura fin da bambina, dopo la morte della sua bellissima mamma. Le asciuga il pianto, la incoraggia e, per permettere anche a lei di partecipare al ballo, trasforma le sue povere cose. Una zucca diventa una splendida carrozza, i topolini si fanno cavalli, le lucertole del giardino sono trasformate in cocchieri che la guidano....
 
volgersi indietro
Arriva il momento nell’età adulta in cui si avverte il desiderio di raccontare la propria storia di vita per fare un po’ di ordine dentro di sé e capire il presente, per ritrovare emozioni perdute e sapere come e quando si è diventati ciò che si è, per sapere chi ringraziare e chi dimenticare, per capire quanto tempo è passato e quanto ne rimane. In quel momento qualche cosa di più importante e profondo ci coglie alla sprovvista e impreparati, specie laddove l’esigenza di ricordare si volge verso un passato personale doloroso di errori o occasioni perdute, di storie consumate male o non vissute affatto, di amori feriti o di amori che hanno ferito, di desideri non realizzati né realizzabili. Il guardare alla propria vita si rivelerà allora come azione impietosa e severa in cui si invoca la rappacificazione, la compassione e non rimane altro che certificare la propria debolezza e le proprie ferite. Si tratta allora di imparare ad amare la propria storia poiché la nostra storia di vita è il primo e ultimo amore che ci è dato in sorte. Da tale umile accettazione delle proprie miserie ovvero della propria cenere può nascere la conversione e la novità, la ricerca e la gioia interiore, l’evento inaspettato e la propria rinascita.
 
 lasciare posto all’inedito
Affinché si realizzi la propria rinascita è necessario abbandonare idee del tipo “Sono fatto così”, “Che ci vuoi fare, ormai…”. Dobbiamo imparare a liberarci dall’immagine statica che abbiamo di noi stessi, dobbiamo sganciarci dalle pesantezze del nostro passato. L’unica cosa che conta è chi siamo in questo momento: non sono chi ero abituato ad essere, non sono la somma dei miei errori e non sono già ciò che sarò. Devo imparare ad essere felice di quello che ora sono! Il dramma sta nella rassegnazione, nella fissazione sul dato, e nella conseguente incapacità di cogliere le possibilità e l'inedito. Sì, sono molte le persone che vivono la difficoltà di accettare la propria storia, di riconsiderarla in un orizzonte di cambiamento, di dare un nome ai conflitti che la animano e una data al loro insorgere, che si limitano a contemplare narcisisticamente i sintomi di un malessere che non hanno il coraggio di inserire in un progetto di guarigione.
 
 Conoscersi e accettarsi
É bene che impariamo ad avere confidenza con noi stessi, con ciò che siamo e con ciò che siamo stati, con le ferite e le cicatrici che ancora ci portiamo addosso, confidenza con il nostro essere stati ed essere peccatori. Accettare di dimorare presso la cenere molte volte significa un rovesciamento di prospettive che colpisce le nostre fondamenta e reca uno sgretolamento inarrestabile: come un edificio in cemento armato, al quale possiamo aver lavorato per anni con estrema cura e che, a un certo punto, si è messo a funzionare solo come uno scudo contro il nostro io più profondo e contro gli altri, finendo col rischiare di proteggerci anche contro la grazia di Dio.
 
 amare la propria nullità
Questo crollo è solo l’inizio, ma è già gravido di speranza: bisognerà evitare soprattutto il tentativo di ricostruire facilmente ciò che la grazia ha demolito. Anche questo non è facile: la tentazione di montare qualche impalcatura davanti alla facciata pericolante e di rimettersi all’opera per sistemare velocemente tutto e salvare la faccia è infatti sempre molto grande. Dobbiamo imparare a dimorare accanto alle nostre rovine, a sederci in mezzo ai detriti di casa nostra, fatti di cicatrici e desideri frantumati, senza amarezza, senza rimproverare noi stessi né accusare Dio. Si tratta di imparare ad amare la propria nullità, le proprie ferite, la propria storia, la propria cenere. Si tratta di avere dimestichezza con la propria debolezza che un po’ alla volta si rivelerà non un limite, bensì, inaspettatamente, l’unico luogo possibile per vivere l’esperienza di Dio. Si tratta di rispondere radicalmente alla impietosa domanda che ci inquieta: chi sono io? …e senza mentire né a se stessi né agli altri!
 
 il debole gesù
Una delle più antiche professioni di fede della Chiesa esprime chiaramente questa tensione salutare tra la debolezza e la vittoria fino ad applicarla alla Pasqua di Gesù: “Egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio” (2Cor 13,4). Ecco perché il discepolo che vuole seguire Gesù deve necessariamente accettare a sua volta la propria debolezza. Fino a quando ci opponiamo in mille modi alla nostra debolezza spazzando via tutte le ceneri, la potenza di Dio non può agire in noi.
 
 la tentazione di recitare 1
Molte volte cerchiamo di risolvere i nostri problemi con un misto di buona volontà e di generosità, facciamo del nostro meglio per condurre una vita virtuosa e giusta, ci appoggiamo su buoni propositi e su energie naturali, tentiamo di farcela a partire dalla nostra lealtà e generosità… Tutto questo dura per un po’, finché non finisce “la recita”: allora rischiamo la disfatta e arriviamo al bordo del precipizio! Sarà addirittura necessario che noi un giorno sprofondiamo per fare l’esperienza concreta della nostra debolezza, quella debolezza in cui potrà finalmente dispiegarsi la potenza di Dio. Paradossalmente noi siamo forti solo quando la nostra debolezza diventa evidente e l’accettiamo come tale, solo quando non ci resta altro che accettare di dimorare accanto alla cenere della nostra vita: è il luogo benedetto in cui la grazia di Dio (“la fata” in Cenerentola) può sorprenderci e invaderci. Dice infatti san Paolo: “mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo” (2Cor 7,9). Solo chi si abita verrà abitato!
 
 la tentazione di recitare 2
La maggior parte di noi è inquieta, se non addirittura smarrita, quando appare, in modo più o meno brutale, la propria debolezza. Alcuni arrivano perfino a fuggire (vedi il peccatore incallito, ovvero colui che non vuole assolutamente sentir parlare di rovesciamento cioè di riconoscimento del proprio limite, o il giusto incallito, ovvero colui che cerca di fare sempre meglio per nascondere i propri limiti lasciandosi abitare da un certo autocompiacimento): bisogna avere una certa esperienza dell’amore di Dio per osare permanere nella debolezza e riconciliarsi con il proprio peccato. Alcuni non riusciranno mai a riconoscere e accettare la minima traccia di debolezza in se stessi. La vita di costoro può sembrare molto generosa, ma nel contempo sarà sempre un po’ rigida e forzata: una vita in cui l’amore autentico non può sgorgare; sono persone alla soglia dell’indurimento, che affermano di essere ben lontane dalla cenere quando invece ci vivono insieme. In questi casi la fata… non potrà far nulla.
 
 Beata vulnerabilitàForse, grazie a Dio, molto più spesso non è così: è più frequente che noi conosciamo bene la nostra debolezza, le nostre ferite, le nostre paure, i nostri desideri delusi, la nostra cenere ma senza sapere come gestirla. Essa ferisce inconsciamente l’immagine ideale di noi stessi. Spontaneamente pensiamo che la santità va cercata nella direzione opposta al peccato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debolezza e dal male e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce in noi: la santità non si trova all’opposto bensì al cuore stesso della nostra debolezza, della tentazione, delle nostre ferite, delle nostre paure, dei nostri desideri delusi. La santità non ci aspetta al di là delle nostre debolezze ma al suo interno. Sfuggire alla debolezza significherebbe fuggire alla potenza di Dio che è all’opera solo in essa. Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e nello stesso tempo abbandonati nell’amore di Dio. Solo nella nostra debolezza siamo vulnerabili all’amore di Dio. Dimorare presso la cenere fatta di ferite, errori, peccati, tentazioni: ecco l’unica via per entrare in contatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericordia di Dio. Parafrasando san Paolo possiamo dire: dove abbondano il peccato, la nostra debolezza, le nostre ferite, le nostre paure, i nostri desideri delusi, la nostra cenere… lì sovrabbonda la grazia. Ma facciamo fatica ad accettare questa verità, perché ammettere che sia così significa ammettere che ancora una volta Dio vince. Ma questa è un’altra storia!
 
 
Bibliografia
Duccio Demetrio, Raccontarsi. L'autobiografia come cura di sé Louf André, Sotto la guida dello Spirito Garota Daniele, L'onnipotenza povera di Dio Powel John, Esercizi di felicitàdon Igino Biffi
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