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Dolore muto dopo l'abisso

Sospensione, iato del tempo, solitudine... Tre intellettuali si confrontano con il «vuoto necessario» del Sabato santo: Salvatore Mannuzzu, Roberto Vecchioni, Enzo Bianchi.


Dolore muto dopo l'abisso

da Teologo Borèl

del 27 marzo 2005

Mannuzzu

Fotografando la luce del grigio

 

Que miei amici hanno perduto un figlio di 35 anni. Ora la loro vita – che come ogni vita immagino fatta di mille cose diverse, nelle quali talvolta è faticoso riconoscersi – continua sotto la grande ombra di quel ricordo. E nulla come il loro lutto sommesso ora mi sembra tinto dei colori grigi e insieme luminosi del sabato santo.

La morte del figlio non era imprevista. Una malattia lo minava fin dalla nascita: e gli assegnava un tempo breve. Malgrado ciò, lui era riuscito a farsi una vita che era davvero vita: bella da vivere. Aveva compiuto degli studi, s’era trovato un lavoro; aveva, tra l’altro, la passione della fotografia. So ben poco di questo ragazzo, Stefano Pilo: ma dicono di lui le tante fotografie che ha lasciato. Non sono opera d’un dilettante: hanno una non comune dignità formale, forse non dimentica della lezione di Henry Cartier-Bresson.

Ma impressiona, ancor più della naturale capacità di comporre l’immagine, la maturità dello sguardo: il retroterra morale, umano, che si intuisce di là dell’obiettivo; e insieme appunto il gusto della vita, il desiderio di coglierne gli istanti, le sorprese, le varietà e la verità, nella povera e casalinga spiaggia di Platamona come a Parigi, a Praga, a Istanbul, a New York...

Penso ai miei due amici, il padre e la madre, alle prese con lo strazio e la gioia indelebile di queste fotografie. Ecco, io vorrei che a loro venisse regalata, oltre la memoria, anche un po’ di speranza: un po’ della speranza del sabato santo. Il chicco di grano è sepolto e lo racchiude la terra profonda. Per sempre, pare: nessun segno avverte d’un possibile germoglio. È silenzio, sospensione, pausa: pausa infinita. Sì, la bufera della croce è conclusa, sedata: ma all’orizzonte non si vede un barlume di buon tempo.

Eppure... Come vorrei che i miei due amici riuscissero a sperare in un nuovo evento, dopo quello della morte. Che essi fossero capaci di aspettare: sapendo che nulla di quanto Stefano guardava e amava – nulla di quella vita, nulla della sua vita, nemmeno un attimo, nulla di lui – andrà perduto.

Salvatore Mannuzzu

 

 

Vecchioni

Come la musica si nutre di pause

 

Oggi è il giorno del silenzio, il giorno che ci riporta alle origini. Come il bianco ha in sé tutti i colori, infatti, così il silenzio contiene – in potenza – tutti i suoni, in una condizione di infinito, di eternità, di tempo fermo e sospeso.

Non per niente, nei Vangeli, il silenzio è la condizione degli apostoli, che di solito non parlano e spesso, quando lo fanno, trovano subito occasione per pentirsene. E anche le lettere di san Paolo, a pensarci bene, sono rivolte a destinatari silenziosi, che non facciamo fatica a immaginare in ascolto.

Perché il silenzio è anzitutto uno strumento di intelligenza, oltre che un mistero intimamente legata alla manifestazione della bellezza. Tutta la grande arte è silenziosa: un quadro di Van Gogh, per esempio, è fatto di silenzio e statue di silenzio sono le Madonne rinascimentali.

Ma perfino all’interno della musica il silenzio ha una funzione indispensabile: le pause di una partitura, certi momenti in cui, durante l’opera, cantanti e orchestra tacciono insieme...

Mi ha sempre colpito un racconto tradizionale dei Dogon dell’Africa, secondo il quale il mondo sarebbe stato creato in tre giorni: nel primo si manifestò la musica, sotto forma di un’ondata di luce sonora; il secondo giorno venne la parola; nel terzo, infine, quando Dio si era già stancato, furono creati gli oggetti, che parlano un silenzio molto diverso da quello degli uomini.

Ma la suggestione più forte, per me, è rappresentata dall’onda originaria che illumina e risuona. È quanto di più prossimo al silenzio, e nello stesso tempo già diverso dal silenzio, si possa immaginare. Un suono sottile come il respiro, come il linguaggio senza parole che gli innamorati condividono in segreto.

Roberto Vecchioni

 

 

Bianchi

Silenzio, è il giorno della fede «nuda»

 

Un’antica omelia patristica proclama per il Sabato santo: «Oggi sulla terra c’è grande silenzio: profondo silenzio e profonda solitudine». Il Sabato santo è il giorno dopo l’abisso della passione di Cristo e della passione del cristiano, un giorno segnato da un dolore muto: le lacrime sono cessate, i lamenti non si alzano più, si resta in silenzio perché il dolore per la morte del Messia – «il nostro respiro», come lo chiamavano le Lamentazioni di Geremia – non ha più espressioni per mostrarsi e la gioia resta ancora inaccessibile. Giorno di silenzio, addirittura aliturgico nelle chiese, giorno che può solo essere assunto nel segno del silenzio e della solitudine, oppure essere rigettato come impossibile a viversi.

La mia generazione ricorda che, prima della riforma liturgica della Settimana santa voluta da Pio XII, questo giorno non era vissuto né capito: il suo tempo era negato e già al sabato mattina si celebrava la Pasqua di Cristo, con un passaggio immediato dalla morte alla risurrezione. Invece il Sabato santo va assunto e vissuto pienamente. È uno «iato» necessario che gli stessi discepoli di Gesù hanno sperimentato come smarrimento, non senso, silenzio del loro Maestro e Profeta e del loro Dio. Sabato santo è il giorno della fede nuda, il giorno in cui la fede, spoglia, va letta all’ombra della croce tenendo, sull’esempio delle donne discepole secondo il Vangelo di Luca, lo sguardo fisso alla tomba, alla pietra che chiude nella terra il Messia crocifisso nell’ignominia come maledetto da Dio e dagli uomini. Non è un caso che il Sabato santo sia ridiventato pienamente «il secondo giorno» della passione-morte-risurrezione proprio al cuore del secolo scorso, stagione in cui l’esperienza dell’uomo è stata più che mai questo dimorare negli abissi infernali della non fede, della potenza della morte e del male assoluto.

Il Sabato santo è il giorno della nuda fede, in cui i cristiani si sentono oranti nella consapevolezza che quel corpo umano di Gesù, nato da donna e dall’energia dello Spirito santo, è tornato alla terra, inghiottito nella terra e nella storia come un seme che marcisce e muore, mostrando che l’amore di cui era narrazione era giunto al limite estremo (Giovanni 13,1). Ma quel luogo di terra, «fuori dalla città santa, fuori dal campo» (Ebrei 13,13) era anche un giardino… Presto proprio lì sarebbe sbocciata la vita nuova.

Enzo Bianchi

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