educatori
del 01 gennaio 2002
C’è una frase che don Bosco ripeteva continuamente ai suoi ragazzi: “Desidero vedervi felici nel tempo e nella eternità”. Nella prefazione ad un libretto consegnato ai giovani dell’Oratorio ricordava che c’era gente convinta che per essere cristiani occorresse rinunciare alla felicità.
Circolava, a quei tempi, una interpretazione del cristianesimo in chiave di severità, durezza, paura; una visione questa che gettava un’ombra di sospetto verso ogni forma di piacere, gioia, allegria e festa. Pur figlio del suo tempo don Bosco reagisce decisamente; ai migliori dei suoi ragazzi ripeteva che “la santità” (ossia l’essere pienamente cristiani) consiste nello “stare molto allegri”.
É un’insistenza che attesta una convinzione profonda e masi smentita; possiamo dire che aprire i ragazzi alla felicità era, per don Bosco, la finalità stessa del suo progetto educativo.
Merita allora che dedichiamo alcuni incontri a riflettere su questo tema, in preparazione alla festa di don Bosco.
Avere
Anzitutto bisogna chiarire un equivoco abbastanza diffuso; ed è che la felicità è qualcosa che si ha, così come si ha un pensiero geniale, un’emozione intensa, un guizzo di fantasia. Ma è davvero così?
Vero è che, a volte, noi sperimentiamo la felicità come qualcosa che ci piomba addosso all’improvviso, senza avere fatto nulla per provocarla e senza averla meritata. Felicità come un momento di grazia. Poi, magari, si dilegua senza alcuna motivazione e ritorniamo allo stato d’animo di prima. E questo che ci fa dire che la felicità è qualcosa che si ha e poi non si ha più.
Ma sentiamo il pensiero di un filosofo contemporaneo, Theodor Adorno (1903-1969): “Per la felicità avviene come per la verità: non la si ha, ma ci si è. Felicità non è che l’essere circondati, l’essere dentro. Come un tempo nel grembo della madre”
Essere
La felicità, dunque, non è un possesso, qualcosa che si ha; questo, al massimo, riguarda il piacere. La felicità investe l’essere della persona, è qualcosa che ci avvolge, è come un abbandono ad una forza che ci porta, una realtà che penetra in noi e ci trasfigura; è respiro, atmosfera, luce. Essendo essenziale, non dipende in tutto e per tutto dalle condizioni favorevoli della vita. Diceva il poeta Paul Claudel: “Nessuna sofferenza, nessuna umiliazione, ha il potere di spegnere la gioia essenziale che è in noi”.
Felicità come fecondità
Meglio ancora, la felicità è percezione di una pienezza di vita. Basta ricordare che la parola “felicità” proviene dalla radice indoeuropea “fe” che dà origine ad altre parole: oltre che “felice”, anche “fecondo”, “femmina” “feto”, figlio”; sono tutte parole che dicono relazione alla vita, alla nutrizione, alla crescita, all’abbondanza.
Uno è felice quando avverte la vita come pienezza, quando si sente tutto vivo e vivo per tutto. La percezione che ne ha non è solo di sazietà, ma di esultanza, una sorta di euforia che si manifesta all’esterno con la gioia.
Da notare che la parola “gioia” deriva anche questa da una radice indoeuropea che suona “gau-eyo” (donde la parola gaudio) e che significa “splendore”, “lucentezza”. La gioia è la manifestazione visibile della percezione che uno ha dentro.
Se la felicità attiene alla vita e alla pienezza di vita, comprendiamo come don Bosco l’abbia messa come finalità ultima del suo progetto educativo.
Una prima domanda, allora: quale rapporto abbiamo con la felicità, ovverosia con la vita?
Dicono gli psicologi (cfr Frielingsdorf) che ciascuno di noi ha, nei confronti della vita e perciò della felicità, una posizione chiave, frutto di esperienze chiave vissute nell’infanzia e, spesso, anche nel periodo prenatale. Basti un esempio: se un bambino non è stato desiderato probabilmente i comportamenti dei genitori gli avranno dato la percezione di “tu sei un peso”; altrettanto probabilmente quel bambino sarà cresciuto interiorizzando la percezione “io sono un peso”, la vita è un peso!
Ovviamente come ci sono esperienze chiave negative, ci sono anche esperienze chiave positive. A volte le positive e le negative sono mescolate; e spesso le esperienze negative dominano su quelle positive creando quei disturbi di personalità e quelle difficoltà di adattamento che hanno radici non superficiali ma profonde.
Ed è sempre utile, soprattutto quando le percezioni negative prevalgono su quelle negative, prendere coscienza delle esperienze chiave che le hanno determinate. C’è chi suggerisce un semplice esercizio: ricostruisci il tuo passato e definisci la tua posizione chiave con una parola chiave; e se risultasse negativa, opponi una parola chiave positiva: questa indicherà il percorso della tua auto-educazione.
Quale il mio rapporto con la vita e la felicità?
Quando don Bosco incontrava per la prima volta un ragazzo gli chiedeva: “Sei contento?” Noi diremmo: “sei felice?” Era il punto di partenza per il rapporto educativo. E la maggiore preoccupazione di don Bosco era quando scorgeva ragazzi abitualmente tristi o scontenti; capiva che qualcosa non andava, e qualcosa di molto profond
don Giannantonio Bonato
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