Non si contano i morti in questa guerra che i vescovi definiscono un paravento per coprire lo sfruttamento delle risorse naturali. Seicento mila nuovi profughi. Stragi di civili inermi, abbandonati lungo le strade o gettati nelle latrine. Un disastro umanitario. E' necessario ripartire dalla voglia di pace della gente che, nonostante tutto, in gran parte non vuole cedere alla violenza.
del 26 novembre 2008
“Non sappiamo più che santi pregare. Siamo condannati a morte da tutta questa violenza e da tutti questi attacchi che producono code di sfollati”. E' il grido disperato che arriva da oltre quaranta organizzazioni della società civile del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, dove da diverse settimane è ripresa la guerra. I fatti raccontano delle truppe del Generale Laurent Nkunda, leader del CNDP (Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo) che hanno sferrato un attacco contro l'esercito regolare e si sono avvicinate a Goma. Provocando diverse centinaia di migliaia di profughi, seminando distruzione dappertutto. “Nella regione di Rutsurhu – prosegue questo appello – siamo testimoni di una tragedia di portata mai conosciuta dal nostro popolo. Decine e centinaia di civili vengono sommariamente uccisi dai fucili e dai colpi di machete. A Kiwanja giacciono sulle strade decine di corpi e l'odore dei cadaveri impesta l'aria. Ma, se si continua la ricerca, si trovano cadaveri abbandonati nelle case o gettati nelle latrine”
Ad aggiungere dramma a dramma ci pensano le truppe regolari che, quando fuggono, uccidono, derubano tutto e violentano le donne,  lasciando dietro di loro soltanto caos e disordine.
I portavoce della società civile della regione denunciano il reclutamento forzato di bambini. “I gruppi armati, soprattutto le truppe di Nkunda, vanno  di casa in casa e sequestrano adulti e bambini per mandarli a combattere al fronte”. Poi la solita denuncia della violenza sulle donne: “la violenza sessuale è brutalmente aumentata e le forze armate hanno fatto del corpo delle donne un campo di battaglia”.
 
E' di nuovo notte nel Kivu
Ho ancora davanti agli occhi quella notte a Bukavu, nel sud del Kivu. Il giorno prima avevo potuto assistere alle lunghe code di gente che ordinatamente andava a votare. Erano le prime vere elezioni nella storia di questo paese, piantato nel cuore dell'Africa.  Quella notte, dopo che ormai si erano saputi i risultati delle elezioni ed era apparso chiaro che Joseèph Kabila aveva ottenuto la maggioranza, che lo avrebbe portato al ballottaggio con Bemba, la gente era scesa per strada. A festeggiare, a cantare, a danzare.
Normalmente di notte la città è buia. La gente sta chiusa in casa. Ma quella sera aveva deciso di uscire per gridare la propria gioia, per fare festa. Ricordo ancora un gruppo numerosissimo di ragazzi. Si erano avvicinati a me. Mi avevano quasi circondato solo per dirmi di riferire a tutti in Europa che nel Congo era arrivata finalmente la democrazia.
Sulle elezioni la gente di questa regione ad est del paese, al confine con Ruanda, Burundi e Uganda, aveva investito tutta la propria speranza. Snervata da dieci anni di guerra che aveva fatto oltre quattro milioni di vittime, ora poteva finalmente guardare con più speranza al proprio futuro. Qualche giorno prima delle elezioni, avevo incontrato a Goma alcuni esponenti della società civile. A Goma il clima era meno euforico che a Bukavu. Qui il conflitto aveva lasciato segni profondi e divisioni fra la popolazione. Ma c'era la speranza di un cambiamento che spingeva tutti a guardare con fiducia al processo elettorale.
La sfida era comunque grande. Dieci anni di guerra lasciavano ferite difficilmente rimarginabili. Gli avvenimenti accaduti nel confinante Ruanda, con la tragedia del genocidio, avevano portato nel paese migliaia di profughi, La maggior parte  persone che erano scappate solo per fuggire dalla tragedia, altre invece responsabili dei fatti. Avevano raggiunto il vicino Congo per sfuggire alla giustizia. Un problema, quello dei profughi ruandesi, che pesa ancora negli equilibri dell'area e che viene spesso portato come giustificazione e alibi per non smobilitare da parte del generale Nkunda. Poi occorreva disarmare i gruppi armati e indirizzare  le persone che altro non avevano fatto per dieci anni che combattere ad altre attività. Oppure reintegrarle nell'esercito regolare.  Era partito un tentativo di integrazione dei gruppi armati nell'esercito, ma proprio il generale Nkunda aveva rifiutato. Anzi, durante gli ultimi tre anni il generale ribelle era andato rafforzando il suo esercito, sostenuto – ormai è certo - dal governo ruandese. Ci sono in proposito dichiarazioni ufficiali delle Nazioni Unite e, ultimamente, anche documentazioni fotografiche.
Il nuovo governo del paese, nato dalle elezioni, cominciava il suo cammino tra enormi difficoltà. In una situazione estremamente complessa. Occorreva  da una parte un grande investimento di fiducia e di speranza, ma, dall'altra, anche la capacità di riforme globali per ricostruire un tessuto sociale frastagliato e difficile dopo dieci anni di guerra. Anche perchè lo stato doveva di fatto essere ricostruito dalle fondamenta. Militari e poliziotti non pagati, cercavano di sopravvivere vessando la popolazione. Gli insegnanti non pagati ai quali i genitori dei ragazzi dovevano corrispondere un salario minimo per permettere loro di insegnare. Con la conseguenza di costringere i più poveri all'analfabetismo. C'era da ricostruire la credibilità delle istituzioni democratiche, sconosciute alla gran parte ella popolazione. Soprattutto era indispensabile intervenire nel settore delle concessioni per lo sfruttamento delle risorse minerali e boschive che, durante gli anni della guerra erano stato appannaggio di trafficanti senza scrupolo che approfittavano della guerra per poter “pescare nel torbido”. Perchè, come vedremo più avanti, la ragione più profonda di questa guerra sta nelle risorse   economiche di questo paese, e soprattutto della regione del Kivu.
Il Presidente Kabila partiva da un forte consenso che avrebbe potuto permettergli anche di prendere decisioni radicali. Purtroppo la sensazione della gente, soprattutto quella dell'est del paese che aveva votato massicciamente per Kabila, è stata di forte delusione. Il nuovo corso è apparso in continuità con la situazione precedente. Mentre nuovi rappresentanti eletti sembrano in maggori parte più attenti a costruire per se stessi una vita di privilegi che a rispondere alle necessità della popolazione. Di qui un sentimento di frustrazione e di delusione.
 
Lo scandalo geologico
Nel Kivu si racconta una leggenda. Narra di Dio che, dopo aver creato il mondo, decise di dividere equamente le ricchezze nei diversi territori, Prese allora il cesto delle risorse e cominciò a spargerle per il mondo. Arrivato in questa regione, caratterizzata dalla presenza di montagne e colline, pare che Dio abbia inciampato facendo cadere tutte le ricchezze. Il Kivu è stato definito uno “scandalo geologico” perchè in questo territorio esiste un concentrato di ricchezze minerario impensabili altrove. Oro, diamanti cassiterite, cobalto, petrolio, stagno, zinco, uranio e soprattutto  coltan. Una polvere minerale che ha caratteristiche particolari e che serve per l'industria aerospaziale, per la tecnologia informatica e per i telefoni cellulari. In ogni nostro telefonino c'è un pezzo di Kivu. Il coltan è un composto di due minerali piuttosto rari, il nioblio e il tantalio. Normalmente questi  chiamati colombite e tantalite, di qui l'abbreviazione in “coltan”. Ed è proprio questo minerale ad aver scatenato, a partire dalla metà degli anni 90, una corsa planetaria verso il Congo.
Il coltan ha l’aspetto di sabbia nera e rappresenta un elemento fondamentale in video camere, telefonini e in tutti gli apparecchi HI TEC (come la playstation). Serve a ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione , rendendo possibile un notevole risparmio energetico. L’ 80 % del Coltan in circolazione si trova solo in Congo.
Durante gli anni di guerra, in due rapporti esplosivi, le Nazioni Unite hanno denunciato il traffico illegale di questi minerali, citando tra i responsabili ben 34 società occidentali che li importavano illegalmente soprattutto attraverso il Ruanda. Veniva denunciata perfino la compagnia aerea belga, Sabena, accusata di trasportare il coltan dall'aeroporto di Kigali ai destinatari finali in Europa. La conclusione di questi rapporti è sconvolgente: “Le grandi multinazionali minerarie sono state il motore del conflitto e hanno preparato il terreno per le attività criminali ed illegali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo”.
Dopo le elezioni e la formazione nel paese di uno stato di diritto, un dei problemi più seri di fronte al quale si è trovato il nuovo governo è stato proprio quello delle concessioni minerarie e dell'utilizzo delle enormi ricchezze che giacciono nel sottosuolo. Parallelamente chi durante la guerra aveva approfittato della situazione per operare estrazioni e traffici illegali ha dovuto fare i conti con questa nuova situazione. Non è un caso, ad esempio, che questa nuova guerra fatta dal Generale Nkunda sia scoppiata all'indomani della firma di un accordo tra La Repubblica Democratica del Congo e la Cina. L'accordo prevede uno scambio tra i due paesi in cui La Cina metterà la costruzione di infrastrutture, mentre il Congo concede lo sfruttamento delle miniere di rame.
Si tenga conto del fatto che a causa della propria debolezza, il governo congolese non è in grado di difendere il suo territorio. Per questo  le multinazionali europee e statunitensi stanno pagando al Congo tra il 5 e il 12% delle ricchezze (dichiarate) che sono oggetto di sfruttamento. I cinesi, al contrario, offrono il 30% di quello che sfruttano. Proprio per questo sono arrivate da molte parti (pare anche dall'Europa) forti pressioni perchè recidesse il contratto con la Cina. Ma in agosto , il governo congolese ha dichiarato che quel contratto sarebbe stato rispettato. Proprio alla fine di agosto le milizie di Nkunda hanno scatenato l’offensiva. Giustamente i vescovi congolesi definiscono questa guerra come un “paravento “per nascondere lo sfruttamento indiscriminato delle risorse.
Un dato è certo: la guerra che si sta combattendo in questa regione non è una guerra etnica. Dice P. Franco Bordignon, da oltre trent''anni in questa regione: “In Congo convivono oltre 400 etnie e non si ricordano nella storia di questo paese lotte tra etnie e tribù al punto di creare genocidi”. Il motivo della contesa è ben altro. Fa comodo solamente a Laurent Nkunda e ai suoi mandanti accampare ragioni di carattere etnico. E, spesso anche inconsapevolmente, fa il suo gioco chi continua a presentarla come tale, prima fra tutta la stampa e l'informazione in genere.
 
La presenza di “fuggiaschi” ruandesi
In Africa i confini tra gli stati sono sempre stati molto labili. I motivi sono tanti. Non ultimo la divisione fatta dalle potenze coloniali nella conferenza di Berlino (1884 – 1885). Che si trattasse non del riconoscimento di nazioni preesistenti, ma piuttosto di una spartizione di carattere coloniale, lo dice il nome stesso in inglese: “scramble for Africa”.  Un'espressione intraducibile che significa testualmente “sgomitare per l'Africa”. Le potenze coloniali si divisero “sgomitando” i territori africani. A partire dalle loro posizioni di potere e non dalla composizione storica e culturale della popolazione. Costringendo in questo modo a convivere in uno stesso stato gruppi tradizionalmente lontani e nemici tra di loro e dividendo con le frontiere statali gruppi etnici da sempre uniti. Secondo gli studiosi questa è una delle principali cause della conflittualità nel continente africano. Nel Kivu da sempre hanno abitato diversi gruppi etnici e da sempre questi gruppi hanno accolto volentieri persone e gruppi di altre provenienze: Non sono mai esistiti problemi di convivenza tra i gruppi etnici di questa zona e persone o gruppi – di qualsiasi etnia fossero – provenienti dal Ruanda e dal Burundi.
Questo incantesimo si rompe nel 1994, quando, in seguito ai fatti del Ruanda che portarono alla tragedia del genocidio, centinaia di migliaia di profughi presero la via del Congo per fuggire da quella tragedia. Tra loro c'erano anche alcuni dei responsabili del genocidio che lasciarono il paese per fuggire alla giustizia. Ma si trattava di una minoranza. La maggioranza dei fuggiaschi era composta da persone impaurite che cercavano dove andare per scappare alla morte. Le cronache del tempo raccontano di circa due milioni di fuggiaschi. Alcuni –  la maggior parte – sono ritornatati nel Ruanda, di altri si sono letteralmente perdute le tracce, mentre alcuni, fra i quali qualche migliaia di persone che il governo ruandese accusa di essere responsabili del genocidio, sono rimasti in Congo. La presenza di queste persone è uno dei motivi accampati per la guerra. Il Ruianda accusa il governo del Congo di proteggerli e chiede che vengano catturati e consegnati alla giustizia del paese. In ogni caso, il loro numero è molto esiguo. Mentre invece continuano a stare nel paese persone fuggite dalla tragedia, molte delle quali, ai tempi del genocidio erano bambini. Voci ricorrenti nella regione raccontano anche che quella della presenza di gruppi di ruandesi nel territorio del Kivu sia una strategia messa in atto dal governo di Paul Kagame per mantenere la regione nel disordine Le stesse voci giungono a dire che il governo di Kigali invierebbe sistematicamente  persone nel Kivu, appoggiandole ed equipaggiandole perchè lavorino nell'estrazione dei minerali del sottosuolo, per poi trasferirli in Ruanda, Di fatto nell'Urega soprattutto, una regione del Kivu del Sud, esistono gruppi organizzati che abitano le foreste, con villaggi equipaggiati di tutto. Essi incutono timore alla popolazione, taglieggiano gli abitanti dei villaggi vicini, violentano le donne. Racconti insistenti parlano di aerei che arrivano su piste ricavate all'interno della foresta che portano armi e viveri e ripartono carichi di minerali estratti nella regione.
Al di là di queste voci la presenza di persone che sono fuggite dal Ruanda – alcune delle quali responsabili del genocidio - rappresenta un problema per il Congo. Ma sarebbe nello stesso tempo sbagliato ritenere che tutti i ruandesi che si sono rifugiasti nel Kivu dopo i fatti del Ruanda siano responsabili di genocidio. Uno dei cardini di una società di diritto è la singolarità della colpa. Non è ammissibile incolpare un intero gruppo di persone. Né si può permettere che il generale Nkunda utilizzi questa presenza come alibi per le sue azioni criminali.
 
La pace difficile
Per tentare di individuare possibili vie per la pace in questo paese, è necessario partire da alcuni punti fermi. Ben sapendo che le vie della pace, anche se difficile, vanno cercate a partire dal diritto internazionale, ma anche che il diritto da solo non è in grado di ricostruire il tessuto sociale che permetta alla pace di essere stabile e duratura. A nostro avviso esistono alcuni punti fermi dai quali occorre partire:
 
1.         Le elezioni svoltisi nel 2006. Tutta la comunità internazionale ha riconosciuto la legittimità di queste elezioni che per la prima volta nella sua storia hanno dato un governo al paese. La Repubblica democratica del Congo, pur con tutti i problemi lasciati sul campo da oltre 15 anni di guerra e da trenta di dittatura, è uno stato di diritto. Il Presidente Joseph Kabila ha il compito di governarlo. Egli è l'interlocutore legittimo per rappresentare il paese sulòla scena internazonale. In una nota diramata dalla rete pace per i Congo si mette giustamente in evidenza che occorre prendere atto di questo fatto per poter trovare vie di pace. Dice la nota: “La popolazione dell'est della RDC è vittima di una politica occidentale che tende a mettere sullo stesso livello di uguaglianza dirigenti del Paese e ribelli, esercito nazionale e gruppi armati. Nel passato, all'epoca del dialogo inter congolese, se ne cercava la giustificazione nella mancanza di legittimità popolare del potere costituito. Ma ora le cose sono cambiate. Ora la RDC ha non solo una Costituzione approvata da un referendum popolare, ma anche delle istituzioni sorte da elezioni libere, trasparenti e democratiche, come riconosciuto dalla stessa comunità internazionale. In base a quale diritto i dirigenti di un Paese sovrano possono essere trattati alla stessa stregua di un capo di milizia o di un fuori legge? Perseguendo questa politica, si è protetto Nkunda contro un governo che ha ricevuto la legittimità popolare”;
2.         Gliaccordi firmati tra le parti. Ci riferiamo in particolare all'accordo di Nairobi del 9 novembre 2007 riguardante soprattutto la soluzione del problema della presenza degli ex Far/Interamwe (miliziani fuggiti dal Ruanda dopo il genocidio). Questo accordo è stato firmato dai ministri degli Esteri del Ruanda e della Repubblica democratica del Congo. Nel gennaio di quest'anno proprio a Goma è stato firmato un accordo tra le parti che porta il nome di “Amani” (in swaili, pace). Esso prevede la smobilitazione di tutti i gruppi armati. L'accordo è stato firmato anche dal CNDP di Laurent Nkunda. Occorre che Le Nazioni Unite, presenti nella Repubblica Democratica del Congo con un contingente di oltre 16.000 uomini che operano in base al Capitolo 7 della carta delle Nazioni Unite (Monuc), siano messe in grado di fare rispettare questi accordi, dai quali, con la ripresa dei combattimenti, Laurent Nkunda è di fatto uscito.
3.         Le decisioni della Corte Penale internazionale. Il 22 agosto 2006 la Corte Penale internazionale ha spiccato un mandato di cattura contro Bosco Ntaganda, attuale vice del generale Nkunda. E' accusato di aver arruolato bambini e di averli attivamente utilizzati nei combattimenti. In più è accusato di aver partecipato a numerosi massacri e ad altre violazioni gravi dei diritti umani. Se Nkunda non lo consegna alla giustizia internazionale, occorre che la Monuc intervenga per arrestarlo e consegnarlo il più presto possibile alla giustizia.
 
Partendo da questi presupposti, anche con l'aiuto della comunità internazionale, la Repubblica Democratica del Congo potrà riprendere la strada stretta della pace e della riconciliazioni. Chi ha avuto modo di incontrare la gente comune che vive in questa zona del mondo ha potuto constatare che la maggior parte vuole la pace ed è disposta a tutto, anche al perdono, pur di raggiungerla. La ricchezza più grande del paese non consiste infatti nei giacimenti minerari del sottosuolo, ma nella sua gente. Nella sua capacità di organizzazione e di resistenza, nella sua voglia incontenibile di vita. In questo quadro, azzardiamo alcune proposte di lavoro:
 
1.         Azione umanitaria. L'attuale conflitto ha provocato almeno cinquecento mila profughi che vanno ad aggiungersi al milione di persone già censite come sfollati dalle agenzie umanitarie. Purtroppo gli aiuti faticano ad arrivare a destinazione. Il Ministro degli Esteri Frattini, in una sua dichiarazione ammette. “Per quanto riguarda gli aiuti, arrivano negli aeroporti e vengono depredati. In questo l’Europa può impegnarsi per arrivare ad un risultato più efficace”.
2.         Le Nazioni Unite. Qualche giorno fa il Consiglio di sicurezza ha deciso di aumentare di 3000 uomini il contingente delle Nazioni Unite in Congo. Ma questa decisione da sola non basta. Occorre infatti che i contingenti presenti abbiano regole di ingaggio condivise e chiare,. Oggi, prima di intraprendere qualsiasi azione le truppe delle Nazioni Unite hanno bisogno di avere il placet dei governi dei rispettivi paesi. In più spesso si tratta di truppe non qualificate, che non conoscono il territorio, che spesso non parlano una parola di francese, compromettendo così un rapporto costruttivo con la popolazione. Proprio per questo l'omu non gode dell'appoggio della gente. A Bukavu, a Goma e in altre città del Kivu si è arrivati a fare manifestazioni contro la Monuc, accusata di non difendere la popolazione. I vescovi , in un loro documento, denunciano anche il fatto che il contingente delle Nazioni Unite sia composto soltanto da persone provenienti o dall'Asia o dall'America latina, quasi che l'Europa, soprattutto dopo il fallimento della missione in Somalia, non voglia sporcarsi le mani in Africa. La presenza all'interno della Monuc di contingenti anche di provenienza europea rappresenterebbe per l'Europa stessa una maggior assunzione di responsabilità.
3.         La trasparenza del mercato delle risorse. Le statistiche dicono che quasi il 90% del mercato delle materie estratte dal sottosuolo è illegale e clandestino. Occorre che la comunità internazionale trovi un modo di monitorare l percorso di queste risorse, per scoraggiare ogni forma di traffico illegale. Non esistono solo i diamanti insanguinati, ma anche il coltan, la cassiterite, il rame, il legname coperti di sangue. Occorre poi ribadire che il governo congolese è il legittimo titolare delle concessioni per lo sfruttamento delle risorse.
4.         I mandati della Corte Penale internazionale: essa ha spiccato un mandato di arresto contro Bosco Ntaganda, il vice di Laurente Nkunda . Occorre dare esecuzione a questo mandato, anche attraverso un maggior impegno e coinvolgimento della Monuc. Nello stesso tempo è necessario che la Corte Penale Internazionale abbia modo di poter svolgere liberamente il proprio lavoro di indagine per appurare se esistono casi di altre persone che abbiano commesso crimini contro il diritto e contro l'umanità. Non ultimo anche il Generale Nkunda.
5.         La presenza degli ex Far/Interamwe. Secondo quanto stabilito dagli accordi di Nairobi, occorre trovare una soluzione definitiva a questo problema. Tenendo conto tuttavia di alcune cose. Innanzitutto che occorre distinguere le responsabilità non colpevolizzando l'intera comunità dei profughi ruandesi arrivati dopo il genocidio. Poi ribadendo che le persone di origine ruandesi già presenti nel territorio, devono godere degli stessi diritti della popolazione locale.
6.         Il contesto regionale. La crisi in atto nella Repubblica democratica del Congo non potrà trovare soluzione se non all'interno di un cammino di dialogo e di pacificazione nell'intera regione. E' indubbio che al di là delle diverse interpretazioni e posizioni politiche, i paesi confinanti, soprattutto il Ruanda, sono stati enormemente implicati in questa vicenda che parte nel 1994. Occorre arrivare ad un summit per la pace nell'intera regione. Nessuno degli stati confinanti, tanto meno il Ruanda, possono dirsi fuori. Proprio al Presidente del Ruanda il ministro degli esteri inglesi e il dipartimento di stato degli Usa hanno chiesto di  esercitare la ''sua influenza'' sui ribelli congolesi, guidati dal generale Nkunda, per porre fine alle violenze che devastano la parte est della Repubblica Democratica del Congo.
7.         Il disarmo dei gruppi militari. Secondo gli accordi di Goma, occorre riprendere il disarmo dei gruppi armati presenti nel territorio. Il fatto stesso che alla ripresa del conflitto da parte delle milizie di Nkunda, siano riapparsi i gruppi Mai Mai, manifesta che un vero e proprio disarmo non è mai avvenuto. Va rispreso con coraggio questo disarmo, anche controllando in modo rigoroso il traffico di armi. E' opportuno poi che si dichiari una moratoria nel commercio anche legale di armi per i paesi della Regione.
8.         La riconciliazione e il perdono. Solo attraverso il dialogo si può arrivare alla riconciliazione e riprendere la via della pace anche attraverso il reciproco perdono. Esistono nella società civile congolese gruppi organizzati di persone che con cocciutaggine continuano a credere alla forza della nonviolenza e del dialogo. Questi gruppi vanno riconosciuti e appoggiati, anche attraverso la preparazione e l'invio di corpi civili di pace. La pace può infatti trovarsi non soltanto nel disarmo e nell'assenza di conflitti armati, ma nella ricostruzione di nuovi e profondi rapporti umani.
 
IL 4 novembre scorso, un gruppo di donne del Kivu ha deciso di andare a Kigali e di chiedere udienza al Presidente Kagame. Hanno voluto fare intendere  la loro voce sulla grave crisi che sta attraversando il loro paese. Sono andate a mani vuote, chiedendo solamente che il governo del Ruanda faccia pressione sul Generale Nkunda perchè fermi l'iniziativa armata e si conformi agli accordi del programma “Amani” da lui firmanti nel gennaio scorso. Si tratta, anche al di là del merito delle questioni poste da questo gruppo, di una iniziativa diplomatica della società civile. Essa manifesta quanto la gente di questa regione ami e cerchi la pace. E' infatti sulla gente che occorre investire per riprendere con speranza un cammino di riconciliazione troppe volte interrotto. Tocca ora a chi governa il paese e alla comunità internazionale non deludere ancora una volta la voglia di pace e il residuo di speranza di questa gente.
 
Eugenio Melandri
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