È la gioia il cuore del cristianesimo

Dio erompe nei cuori e nella storia come grazia, novità, esplosione di libertà. Mediante la gioia noi condividiamo l'essere stesso del Padre. La felicità è fondamentale per il cristianesimo. Noi crediamo che Dio ci abbia creato per essere felici e questo non è solo un'emozione: è essere vivi. Questo ci ha detto Timothy Radcliffe...

È la gioia il cuore del cristianesimo

da Teologo Borèl

del 20 settembre 2005

«San Tommaso d’Aquino ha scritto che l’oggetto della fede non sono le parole, è Dio. Possiamo pensare che le nostre parole sono vere, però non sono adeguate, in modo assoluto, alla verità che pure esprimono. Noi cerchiamo la verità, le parole sono solamente delle indicazioni. La verità è sempre al di là delle nostre parole. Per questa ragione è possibile avere, allo stesso tempo, fiducia perché abbiamo ricevuto una rivelazione e umiltà. E di questa, nella Chiesa, quanta ne abbiamo bisogno!».

A parlare in questo modo è padre Timothy Radcliffe, già Maestro Generale dell’Ordine dei Predicatori, successore di San Domenico. Mi ha voluto incontrare ad Oxford, presso il Convento dei «Frati Neri» (così i Domenicani sono conosciuti in Inghilterra) e mi sono trovato di fronte un uomo di rara lucidità e profondità spirituale, conditi insieme ad una grande ironia.

Bernanos ha scritto che «il contrario di un popolo cristiano è un popolo triste». Come mai tendiamo invece a nascondere l’invito alla felicità proprio del messaggio cristiano?

La felicità è fondamentale per il cristianesimo. Noi crediamo che Dio ci abbia creato per essere felici e questo non è solo un’emozione: è essere vivi. Il vangelo di Marco comincia proprio con il Padre che si rallegra nel Figlio all’atto del battesimo, «Questo è il mio Figlio nel quale mi rallegro». Questa è la gioia che è il cuore del Cristianesimo e l’intero pellegrinaggio della vita cristiana consiste nel nostro entrare in essa. Perché a volte non sembriamo felici? In parte è perché alcuni cristiani credono che cercare la felicità sembri egoistico, come se questa fosse impedita agli uomini di fede. Anders ha scritto un libro negli anni Trenta nel quale faceva distinzione tra agape, che è l’amore disinteressato, che non cerca ricompensa, e eros che è amore egoistico e centrato sul sé. Fu un libro che ebbe enorme influenza e portò molte persone a dedurre che l’amore veramente cristiano non cercava alcuna ricompensa né felicità. Ma essere felici non è una ricompensa; è soltanto condividere la vita di Dio.

Eppure a nessuno è risparmiato di fare i conti con il tragico della storia…

È vero: per raggiungere questa felicità, dobbiamo osare di passare attraverso la tristezza. L'opposto della felicità non è il dolore, ma l’insensibilità del cuore, il torpore, il cuore di pietra. Proprio come il ritorno di Gesù al Padre è passato attraverso il Calvario, così il nostro ingresso nella felicità di Dio comprende l’abbraccio del dolore, ma andando oltre. I santi più felici sono anche coloro che non hanno temuto questo. San Francesco era colmo di gioia, ma aveva le stimmate. San Domenico rideva di giorno con i suoi confratelli e piangeva di notte per le pene del mondo. In definitiva, poiché la nostra felicità è condividere l’essere di Dio, allora essa è al di là delle parole. Può essere mostrata, ma non vista. Nietzsche si è chiesto molte volte perché i cristiani appaiono così poco redenti!

Come sottolineare la «differenza» cristiana, l’alterità che nasce dalla Pasqua?

La nostra differenza non sta nel fatto che siamo superiori. Gesù è venuto per chiamarci peccatori, e continua a fare così. È importante quindi che la Chiesa sia vista come una comunità in cui tutti siano accolti e si sentano a casa. Le nostre differenze non sono quantitative. Ne ho già menzionate due, un certo tipo di felicità, e la speranza. Un’altra, è la consapevolezza di essere cittadini del Regno. Nella lettera a Diogneto, nel secondo secolo, è detto dei cristiani che «dimorano nei loro paesi, ma semplicemente come ospiti temporanei. Come cittadini, condividono in tutto le cose con gli altri, e ancora sopportano tutte le cose come se fossero stranieri». Credo che per noi, come cristiani, sia vitale che la nostra comunità definitiva sia l’intera umanità, riunita in unità con Cristo. Al di fuori della felicità dell’intera umanità, io non posso star bene. Dobbiamo coltivare un profondo senso dell’essere fratelli (e sorelle!) dell’umanità.

Com’è possibile comunicare Dio oggi? Con quale linguaggio?

La tentazione è di parlare di Dio, come se Dio fosse una persona molto importante ma invisibile, un infinitamente potente ed invisibile Presidente dell’universo, un mega–Presidente Bush. Come tutti i grandi teologi sanno, questo è un errore. Dio non è parte dell’Universo. Se si dovesse fare una lista degli oggetti inseriti nell’universo, Dio non sarebbe uno di loro: «200 milioni di conigli, 10000 balene etc. e un Dio». Dio è la sorgente di tutti gli esseri e quindi non un «essere». Egli erompe nelle nostre vite come grazia, come novità, come esplosione di libertà. Quindi non parliamo tanto di Dio come si potrebbe parlare di qualcuno che è nella stanza accanto. Noi manifestiamo l’esplosione di grazia, l’accadere della novità. Le parabole di Gesù mostrano questo accadere. Pensi alla parabola del Fariseo che, ritto davanti nel tempio, ringraziava Dio di non essere come gli altri, mentre, in fondo, il pubblicano peccatore implorava perdono. Alla fine, è questi colui che ne esce giustificato. La parabola rivolta il mondo sotto sopra.

In una società plurale come la nostra, come parlare del Dio di Gesù Cristo? Dove sta la singolarità e la specificità ?

Non comincerei cercando la singolarità, come se il cristianesimo fosse un detersivo che deve mostrarsi migliore e diverso dagli altri. Dio è il senso che tutti gli esseri umani cercano, e già in questa ricerca annaspante di significato, possiamo vedere tracce di Dio. Noi nominiamo il Dio che è già presente nella vita delle persone sebbene esse non lo conoscano. Dio ci è già andato prima. Le persone sanno già tanto di Dio, noi tentiamo solo di offrire loro un linguaggio con cui nominare ed identificare colui che è intimo a loro. Con la convinzione però che è impossibile trovare tutta la verità di Dio nelle nostre formule. Non è un caso che nello stemma papale, il cardinal Ratzinger abbia scelto come simbolo, tra i tanti, anche una conchiglia, per voler ricordare l’episodio accaduto a Sant’Agostino che un giorno si ritrovò a passeggiare sulla spiaggia dove un bambino stava scavando un buco. Sant'Agostino si sedette su un tronco a veder che cosa faceva il bambino e vide che questo bambino, con una conchiglia, correva verso il mare, la riempiva di acqua e la metteva nella buca. Faceva questo per molte volte e allora Agostino, dall'alto della sua sapienza, intenerito per l'ignoranza del bambino chiese: «Ma che cosa fai?» «Non vedi, voglio mettere tutta l'acqua del mare in questa buca». E allora Agostino nella sua paternalità: «Ma no, non vedi che l'acqua del mare è più grande, non ci può stare in questa buca?». E il bambino, fissando lo sguardo di Agostino, gli disse: «E tu, Agostino, come pretendi di mettere nella tua piccola testa tutto il mistero di Dio?». È impossibile trovare tutto il mare in una sola conchiglia e, allo stesso tempo, è impossibile trovare tutta la verità su Dio nelle nostre formule.

La Chiesa, a volte, pare perdonare di pi√π fuori dal proprio recinto che dentro.

Credo che abbia ragione. Noi dobbiamo accettare e rallegrarci dei cristiani, chiunque essi siano e da dovunque essi partano. Molte persone lottano per vivere secondo gli insegnamenti della Chiesa, ma si trovano in quelle che chiamiamo «situazioni irregolari»: divorziati e risposati, uomini e donne che convivono con partners, omosessuali o altro. Devono tutti sapere che Dio li ama così come sono, tanto quanto ama qualsiasi altro. C’è una storia che parla di qualcuno che, in Irlanda, desiderava andare a Dublino e così chiedeva indicazioni per arrivarci. E l’altra persona rispondeva: «Se avessi voluto andare a Dublino, non sarei partito da qua». Ma noi dobbiamo partire da dove le persone si trovano, con la complessità delle loro vite.

In un suo intervento, lei ha detto che la noia è la maggior causa dell’abbandono della Chiesa da parte dei giovani. A volte molte celebrazioni liturgiche paiono segnate dalla noia …

Abbiamo bisogno di riscoprire una bellezza molto più profonda nella nostra liturgia. Abbiamo bisogno di musica che non sia banale. Sono stato dappertutto in Italia ed ho ascoltato gli stessi canti noiosi! Dobbiamo incaricare i migliori compositori affinché ci diano musica che riveli il trascendente. Recentemente sono stato nelle Filippine, ad un incontro dei Domenicani, fratelli e sorelle, di tutta l’Asia. Insieme abbiamo visto un video di un cantante Sufi. Era grasso e brutto, ma non appena ha cominciato a cantare, si è visto che si sforzava per esprimere l’infinito, era sul confine di ciò che le parole potrebbero dire. La bellezza non è un optional in più, la glassa sulla torta liturgica. Essa è il cuore del nostro adorare. La bellezza ha la sua autorità. È perfetta coincidenza di materiale e spirituale, puro senso/significato. Spesso i giovani resistono ai nostri insegnamenti. Temono i dogmi. Ma la Bellezza ci riconduce a Dio in modi che sono sia accattivanti che liberanti.

Come è possibile accordare la bellezza con la fatica e il limite?

Recentemente ho letto un articolo molto interessante su Auschwitz e su alcuni artisti polacchi che, anche durante la loro vita nel campo, hanno cercato di comporre alcune opere. Pure al centro di Auschwitz l’idea della bellezza non era sepolta. Per quegli artisti, per sopravvivere è stato molto importante mai perdere l’amore per la bellezza anche nelle situazioni più terribili. Ho visto la stessa cosa durante le mie visite in Africa, in Burundi, nei molti paesi lacerati da guerre e conflitti. Per questo, ho sempre insistito che curassimo la bellezza perché là dove la si cerca e la si vive, la speranza non muore. La musica, ancora una volta, è uno straordinario esempio di tutto questo. È totalmente materiale e totalmente spirituale allo stesso tempo: è significato puro. Nelle situazioni più difficili di sofferenza alcune volte l’unica cosa che possiamo fare è cantare. Al momento di affrontare la sua morte, mio padre ha domandato di ascoltare il Requiem di Mozart e le Sette ultime parole di Haydn. Tra noi domenicani, quando un frate sta morendo, è attorniato, da tutta la comunità che canta il «Regina coeli». L’ho fatto tante volte anch’io. Il canto non accetta il silenzio della morte. Grida la bellezza che non si consuma.

Daniele Rocchetti

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