È meglio rischiare che vivere una fede monotona

Il silenzio, la tranquillità non sono certo sinonimo di pace.

È meglio rischiare che vivere una fede monotona

da Teologo Borèl

del 08 maggio 2009

Ero ancora un giovane studente quando mi è stata raccontata questa storiella di un Parroco che aveva deciso di “shoccare” i suoi fedeli con invitarli al funerale del “cristianesimo” ritenuto ormai morto dai mass-media ma anche dai suoi parrocchiani, che si erano imbevuti di laicismo, attingendo alle loro pagine. Aveva fatto le cose bene, affiggendo i manifesti in città, con l’aiuto delle Pompe funebri, dapprima incredule e poi convinte dall’assegno del Parroco a stamparli e a mettere gli addobbi funebri sulla porta della Chiesa.

 

Il funerale della fede

 

All’ora delle solenni esequie, la chiesa era gremita. Qualcuno pensava ad una stranezza del parroco già avanti negli anni; altri temevano un halzeimer o un’altra malattia legata all’età, tipo senilità precoce. Neppure i collaboratori del Consiglio Pastorale sapevano il perché di quella “trovata” del parroco che, fino a pochi giorni prima, sembrava ancora sano di mente. “Fratelli e sorelle”, incominciò la predica del Don, “vi invito ad avvicinarvi, in fila indiana, al catafalco eretto in mezzo alla chiesa”. Incominciarono ad uscire dai primi banchi: la curiosità regnava massima tra i fedeli e gli infedeli, accorsi per capire cosa stava succedendo nella loro parrocchia. “Bene, adesso, sollevate il coperchio della bara, dentro trovate la fotografia del “cristianesimo morto!” Macchè fotografia, dentro c’era uno specchio che rifletteva l’immagine del parrocchiano “morto” alla fede.

 

Il cristianesimo vivo e scomodo

 

Come apologo sa di umorismo nero, di prete “scoraggiato” di fronte ad una comunità tiepida nel vivere la fede, una comunità tranquilla, dove al cristiano era facile rifugiarsi nel proprio intimismo, sicuro nel suo “quieta non movere”, tanto il Paradiso era assicurato a chi non faceva il male. Il Parroco, a dire il vero, stava predicando che era assicurato solo a chi faceva il bene, vivendo le opere di misericordia corporale spirituale e corporale che, a quei tempi, si studiavano a memoria: erano le opere della carità, che rendono la chiesa risplendente agli occhi del mondo. Un cristianesimo pigro invece alimenta la pace dei cimiteri, dove nessuno si lamenta, nessuno protesta. Il cimitero è il regno del silenzio, è il paese dei corpi senza vita. Il silenzio, la tranquillità non sono certo sinonimo di pace. Il cristianesimo deve essere vivo, attivo, scomodo! Non è borghese ma combatte contro chi ha elevato a sistema il proprio tornaconto e fa di se stesso “l’ombelico del mondo”, come recita una delle canzoni del nostro Jovanotti.

 

Il concilio Vaticano II e don Mazzolari

 

Il Concilio Ecumenico Vaticano II fa paura perché non tranquillizza ma crea turbamento, quando dichiara che “la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno” e la riforma della Chiesa si gioca sulla carità: “Possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne ma non avessi la carità, non sono un nulla”. Con semplicità massima, don Primo Mazzolari osservava (scherzosamente ma non troppo!) che dovremmo “amarci meno ma trattarci meglio”. Parlava certo dell’amore di simpatia naturale e non quel del Vangelo che invita ad amare se stessi, gli altri ma anche il nemico. Dove c’è un vero credente, che testimonia la carità, accorrono i giovani ed anche gli adulti. Questo lo dice la storia della Chiesa, la storia del mondo. E il credente è il santo o, almeno,chi tende alla santità, ogni giorno, nella vita quotidiana. Non è forse santo il prete che mangia polvere in oratorio? O passa ore in confessionale? Il laico che dedica il suo tempo alla Caritas o all’insegnamento nella scuola? La mamma nella famiglia? Sono quei veri cristiani che, nell’operosità della fede, nella fermezza della speranza e nella sollecitudine della carità, condividono l’atteggiamento di Erasmo da Rotterdam, il quale, rispondendo a Martin Lutero, scriveva con una buona dose di umorismo: “Sopporto la Chiesa attuale nella speranza di vederla migliorata: nello stesso tempo essa è costretta a sopportare me fino a che diventi migliore”. E il cardinal Newman, - non sono sicuro della citazione - , aggiungeva secoli dopo una preghiera interessante per chi vuol essere cristiano “passabile”: “O Signore, dammi il coraggio di accettare le cose che non posso cambiare, la forza di cambiare le cose sulle quali posso agire, e soprattutto la capacità di saper distinguere le prime dalle seconde”. È meglio rischiare sulle cose da cambiare, come fece quarant’anni fa Giovanni XXIII, che vivere un cristianesimo monotono, costruito sulle rovine della carità.

 

don Vittorio Chiari

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