Una gregarietà infame... E i ragazzini si sentono forti. Un'adolescente è stata violentata in un paese del Biellese da quattro compagni di scuola... Lo schema dell'aggressività del branco adolescenziale...
del 26 aprile 2006
Un'adolescente è stata violentata in un paese del Biellese da quattro compagni di scuola. 'Loro' hanno fra i 15 e i 17 anni e sono ragazzi di famiglie normali. Lei è figlia di povera gente con un sacco di guai, già assistita dai servizi sociali, e il sindaco del paese pensa che per questo sia diventata preda dei quattro: «Credevano che non li avrebbero mai scoperti, perché una così non poteva chiedere aiuto ai genitori».
Nelle poche righe delle cronache dei quotidiani, la storia ripropone - in una versione crudamente ignobile - lo schema dell'aggressività del branco adolescenziale. I canoni sono sempre gli stessi: una banda di ragazzini 'normali', la scelta di una preda debole, il calcolo dell'impunità per la paura della vittima a ribellarsi. E, anche, nel caso vada male, il costante rimpallo di responsabilità, dove l'iniziativa è stata sempre dell'altro, e ognuno ritaglia per sé un ruolo minore.
L'aggressione pochi giorni fa in una scuola di Vicenza a un tredicenne non vestito e 'firmato' come gli altri, le violenze di gruppo a coetanee riportate dai giornali in questi mesi, seguono regolarmente le stesse costanti.
Dove ciò che colpisce è come, a fronte di un male che devasta la vittima, non c'è 'un' colpevole, ma tanti assieme, e così sfuggenti e ambigui nell'istigarsi e proteggersi a vicenda, che quei tanti paiono, alla fine, ombre, o nessuno. Così che la ripugnanza di fronte all'aggressione a un'adolescente scelta perché è la più inerme, su cui si pensa di infierire impunemente, cresce se si pensa che non è il delitto di uno solo. Che nessuno di questi piccoli violentatori ha nemmeno il coraggio di fare da sé il male che ha in mente, e di pagarne personalmente le conseguenze; ma solo di una gregarietà infame è stato capace, in cu i ciascuno si faceva forza dell'altro come, dopo, ciascuno se ne farà alibi. I tormenti d'anima dell'assassino di 'Delitto e castigo' - e il paragone non è eccessivo, giacchè una violenza di gruppo su una ragazzina può essere qualcosa di irrimediabile - sono lontani da questi predatori svagati, così costantemente inconsapevoli del male fatto, così lontani dal dire: «Sono stato io».
Che, con buona pace di ogni terapia psicologica di rieducazione, è il primo passo per ricominciare. La società, gli amici, la televisione, certo, ma, alla fine, 'io', io sono stato, in quella dignità e umiltà senza cui non si diventa mai uomini. A sedici anni? obietterà qualcuno. Sì, a sedici anni - fino a non molti anni fa, e in molte parti del mondo ancora adesso, a sedici anni si andava a lavorare. E pare, il branco impunito e feroce, una regressione oscura a qualche modalità tribale, bande di giovani cacciatori ricreatesi fra le nostre case con le dispense piene. Poi, l'idea è sempre stata del compagno, in una danza vigliacca a farla franca, a venirne fuori puliti.
Ci fosse uno, a Biella o negli altri paesi di queste imboscate di gruppo, che avesse il coraggio di dire: «È stata colpa mia». Quello lì, nonostante tutto ciò che è stato, come fosse tuo figlio ti verrebbe voglia di guardarlo in faccia, e ritrovando in quella faccia i suoi quindici anni potresti dirgli con dolore: «Cosa hai fatto?». Ma anche, un momento dopo, giurargli che non è finito tutto.
Marina Corradi
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