Educativa di strada oggi

Credo che l'educativa di strada non dovrebbe essere più un intervento di prevenzione ma di promozione... Promozione non significa andare dai giovani con un modello di come loro dovrebbero essere, ma andare lì e giocarsi in un'orizzontalità di rapporto, perché si vuole intrigarsi con la vita dell'altro...

Educativa di strada oggi

da Quaderni Cannibali

del 23 luglio 2006

Voglio premettere che non sono un esperto del “lavoro di strada”, ma una persona che “annusa” il territorio, che cerca di starci dentro e prova a dare delle sollecitazioni. E quando parlo di sollecitazioni, le faccio anche a me stesso, perché sarebbe assurdo dire delle cose se poi uno non se le gioca nella sua storia e nella sua vita.

 

Credo che la strada rappresenti una delle grandi metafore del nostro tempo, uno dei luoghi principali su cui poter impostare il nostro lavoro sociale.

Parlare di strada vuol dire recuperare i luoghi destrutturati, liberi, informali (che purtroppo sono sempre meno), dove le persone si riconoscono e si incontrano davvero per quello che sono. Senza il lavoro di strada non si può fare l’analisi di un territorio; stare sulla strada, recuperare quella dimensione, quello spazio, vuol dire essere capaci di interpretare in maniera profonda e reale quel territorio e quell’ambiente di vita.

Ultimamente mi sembra che il lavoro sociale stia andando verso un appalto di servizi, più che un tentare di costruire comunità solidali.

 

La mia esperienza è legata all'essere da undici anni prete alle Piagge, un quartiere di periferia popolare. Dal mio punto di vista è importante domandarsi qual è l’obiettivo che abbiamo quando costruiamo progetti di educativa di strada.

Secondo me l’obiettivo fondamentale è quello del lavoro di comunità: costruire comunità solidali, in cui il benessere, la qualità della vita e l'agio, siano costruiti attraverso lo sviluppo di trame di relazioni tra le persone che vivono dentro a un determinato territorio. I nostri interventi, specialmente quelli sociali, rischiano di diventare di “colonizzazione sociale”: gli operatori individuano un disagio o un bisogno, costruiscono un progetto e con le loro competenze intervengono su quel bisogno.

Dobbiamo assolutamente ribaltare questa impostazione: costruire progettualità, per permettere alle persone di fare emergere potenzialità inespresse e di costruire soggettività capaci di costruire l’agio e il benessere in quel territorio.

Credo che l’obiettivo di tutti gli interventi sociali debba essere quello di morire, di non esserci più, perché quella comunità, sollecitata e aiutata nell’autosviluppo, si costruisca da sola le capacità per autoprogettarsi e per accompagnare il proprio disagio.

La rete che si deve creare è una rete con un territorio che comunque ha, più o meno latente, capacità di costruire relazioni.

 

Il lavoro di strada dev’essere capace di intercettare la rete, di ricostruirla, di riconnetterla, dando la possibilità che questa rete possa farsi carico del disagio del proprio territorio. Se non si innesca questo meccanismo, l'intervento può anche creare delle relazioni e dare risposte a certi tipi di disagi, ma alla lunga rischia di non attivare le risorse del territorio, creando una sorta di passività rispetto all’intervento, mentre invece ogni persona che vive in un territorio deve essere capace di poter intercettare il bisogno e attivarsi perché a quel bisogno possa essere data una risposta. Quindi quando si fa un lavoro di strada, bisogna assolutamente considerare il contesto.

 

Le mappature che facciamo, le facciamo noi come persone che intervengono sul territorio o le facciamo insieme a chi quel territorio lo vive e lo abita? Perché non pensare di investire nella possibilità che coloro che vivono un territorio possano mapparsi e mappare il territorio?

Sarebbe importante insegnare alle persone a fare ricerca e a leggere il proprio territorio, perché se non si recupera l'attaccamento e la capacità di sentirsi parte integrante e attiva di un territorio, rischiamo di produrre dei meccanismi di fruizione di un servizio, ma non di socialità e di sviluppo vero.

E' importante anche che chi fa lavoro di strada conosca il territorio negli angoli più nascosti, nei luoghi più informali, possa andare a disturbare le realtà presenti nel territorio, andare a capire quali sono le risorse e costruire reti per andare nella stessa direzione.

 

Se il primo aspetto è il contesto, il secondo è l’approccio. Come ci approcciamo ai ragazzi che incontriamo? Siamo portatori di modelli? Non è forse anche questa una sorta di colonizzazione sociale? Non è forse un tradire il portato profondo dell’educativa di strada, che è incrociare le persone nella loro realtà e soprattutto ascoltare quello che sono?

Credo che l’educativa di strada non dovrebbe essere più un intervento di prevenzione ma di promozione. Se prevenzione ci fa venire in mente un disagio, l'approccio sarà di intervenire su quel ragazzo che sta sul muretto, alla panchina, nel parco, (luoghi considerati a rischio) perché non passi all’uso di sostanze.

Promozione non significa andare dai giovani con un modello di come loro dovrebbero essere, ma andare lì e giocarsi in un'orizzontalità di rapporto, perché si vuole intrigarsi con la vita dell’altro, capire le dinamiche di relazione che ci sono in quella realtà. In questo caso la questione dei linguaggi è molto importante: capire come parlano, perché dicono certe cose, perché tutti fumano gli spinelli...

 

Se si parla di prevenzione, l’impressione è che si incontri prima il problema e dopo la persona e questa non è educazione di strada, perché essa invece dovrebbe portare ad un’educazione tra pari, dove l’unica realtà che può fare da maestra è la strada stessa e le persone che incontri sono portatrici di capacità e valori da esprimere.

Se ci permettiamo di proporre ai giovani un modello che abbiamo in testa, senza preoccuparci di ascoltare e tirar fuori il loro, allora il nostro lavoro di strada rischia di tradire la sua stessa vocazione. Facendo un esempio, se l'operatore di strada non ha nella sua testa l’idea di riduzione del danno o se considera lo spinello e la marijuana alla stregua delle altre droghe, trovando un ragazzo o un gruppo di ragazzi che fumano spinelli come si comporterà?

Cercherà di passare a loro il suo modello di prevenzione? Si attiverà per fare in modo che questi ragazzi smettano di fumare gli spinelli? E' giusto che sia così? È questo che deve fare il lavoro di strada? Nel mio territorio, per esempio, incontriamo ragazzi che già a 16 anni bevono a livello di guardia: che cosa si fa? Quali sono i modelli di riferimento a cui ci rifacciamo e quando impattiamo queste persone come educatori di strada, qual è il tipo di approccio che dobbiamo avere?

 

A mio avviso è importante tenere presente il contesto, non lavorare a compartimenti stagno, capire che un territorio è intergenerazionale (fatto di adulti, ragazzi, anziani) e se si lavora sull’agio di un territorio non c'è un solo settore di intervento, ma bisogna lavorare a 360°.

Nel lavoro con gli adulti è funzionale progettare insieme e affidare loro la responsabilità delle microprogettualità che insieme decidiamo di portare avanti. Bisogna dar credito al mondo degli adulti per frenare questa cultura della delega.

 

Serve a poco fare incontri sulle problematiche giovanili e sul rapporto genitori-figli; l’unico modo per attivare gli adulti è coinvolgerli in una progettazione sul campo, dentro quel territorio dove sono soggetti attivi e tirarli dentro in percorsi di gestione di uno spazio, di un ambiente, di un progetto.

 

Noi non possiamo buttare addosso alla gente la nostra idea di mondo: dobbiamo essere capaci di leggere le tante e complesse dinamiche di relazione che in un ambiente si creano e ridare credito e fiducia alle persone che ci sembra non abbiano ormai più niente da dire e da dare perché non è affatto così.

Dobbiamo uscire dagli stereotipi che ci portiamo sempre dietro e sui giovani e sul mondo degli adulti, perché quando entriamo in contatto con la realtà essa è sempre diversa.

Anche i nodi critici mi sembrano importanti: spero che voi continuiate a trovare difficoltà sulla valutazione del vostro lavoro; il sistema di schede di rilevazione è parziale e poco utile.


 

Cosa invece molto importante, è la produzione di materiale. Naturalmente dei materiali in cui gli operatori raccontano quello che hanno fatto e in cui magari ci sono un sacco di tabelle servono a poco.

Se il lavoro di strada porta invece a costruire materiale con le persone con cui si sono attivati dei percorsi (cd musicali, video costruiti insieme, ecc.), allora questa produzione di materiali può essere fruibile maggiormente dal territorio, avere maggiore visibilità, essere letti, visti e ascoltati dalla gente, perché si possa costruire il benessere.

 

Concludo dicendo che per fare l’operatore di strada ci vogliono due grandi capacità: l’arte della relazione e della creatività.

Infine vorrei offrire agli operatori di strada questa espressione di Camus che mi ha sempre impressionato: “Non camminarmi davanti perché potrei non saperti seguire, non camminarmi dietro perché potrei non saperti guidare, camminami accanto e forse diventeremo amici”. Credo che questo possa essere un obiettivo e un punto di riferimento.

 

 

Fonte: Atti del Convegno “Facciamoci Strada” organizzato dal Centro di Solidarietà di Prato

 

don Alessandro Santoro

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