Giornata della Scuola
del 17 settembre 2009
 
 
1.             L’educazione come «disciplina» e ricerca delle motivazioni
 
          Cristina Campo (Vittoria Guerrini, 1923-1977), poetessa e scrittrice, racconta di un ignoto cinese, intento nella lettura e incurante del dramma che lo sta per colpire, e ne fa una parabola dell’importanza dell’educazione per l’umanità: «Il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina durante la rivolta dei boxer. (…) Il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro (…) Quell’uomo dovette a ciò la salvezza della sua testa». L’ignoto cinese può essere il simbolo di chi, in un tempo di «emergenza educativa» e di disaffezione ai grandi temi dell’educazione della persona, a rischio della sua stessa persona, non intende lasciar morire l’educazione.
          Se riflettiamo sul nostro cammino educativo ci rendiamo conto che la salvezza della nostra persona ha richiesto, negli anni, una autodisciplina interiore, una coltivazione del sapere e una progressiva conoscenza delle nostre inclinazioni interiori. L’autodisciplina, il metodo e il rigore nello studio della propria vita, non è finalizzata ad una buona riuscita scolastica, ma a una crescita integrale della persona. L’uso del termine «disciplina» evoca fantasmi d’altri tempi per i giovani, e può essere vagheggiata da genitori, insegnanti e presidi. Il termine, tuttavia, ci mette sulla strada di una giusta interpretazione, perché deriva da «discere», «imparare». La disciplina è un’arte filosofica e appartiene alla sfera della creatività da una parte e dall’altra del metodo e del rigore. È «arte» del pensiero, della convivenza e della parola. Ma è «disciplina» che impegna al rispetto delle regole, ci aiuta a penetrare con costanza in qualcosa di cui non si comprende il senso all’inizio, è un metodo efficace per esplorare il mondo che trova il suo fondamento in una motivazione interiore che ci spinge verso l’ignoto.
          Desidererei soffermarmi sul legame inscindibile della «disciplina» con quella legge dello spirito che è la «motivazione». Per poter comprendere i giovani che abbiamo di fronte e con cui instauriamo una relazione educativa, cioè un «atto spirituale», è necessario capire le leggi che presiedono all’educazione. L’educatore è sempre in relazione con una persona libera, le cui azioni, in qualsiasi momento, potrebbero non corrispondere né alle premesse, né alle aspettative. è veramente difficile determinare in modo preciso i comportamenti di una persona, anche di quella che si crede di conoscere bene.
          Il punto di partenza di ogni persona è il flusso di coscienza o di vissuti. La vita di una persona è un continuo ed incessante fluire di vissuti. Ma potremmo domandarci: c’è una consapevolezza che ci accompagna in tutto l’arco della nostra vita? Edith Stein (1891-1942), chiama «luce interiore» la coscienza che si ha di se stessi, la consapevolezza che illumina il flusso del vivere in tutto l’arco della nostra vita. In un processo educativo è essenziale fare appello a questa «luce interiore» presente in ogni giovane, per farla diventare «coscienza riflessiva», capacità di fissare l’attenzione sui propri comportamenti, positivi o negativi che siano, per permettere una revisione, un ridimensionamento, una presa d’atto cosciente e consapevole dei propri atteggiamenti e stili di vita. Senza questa operazione la relazione educativa diventa irrilevante. Un buon educatore sa che all’interno dei vari vissuti di un giovane vi è una legge fondamentale che è quella della motivazione.
 
2.             L’educazione ai valori
 
          L’educatore attento al mondo spirituale più autentico dei giovani non deve mai perdere di vista la formazione ai valori. Un valore è ciò che dà forza all’esistenza ed è ciò che la orienta. Ogni persona si rende conto che è fondamentale il valore dell’amicizia, dell’amore, della giustizia, del bene come valore in sé. Nella nostra vita diamo preferenza ad un valore o all’altro e dipende dal carattere di ogni persona la possibilità di aprirsi ai valori, oppure di chiudervisi. Ovviamente il valore che si deve realizzare è sempre connesso alla volontà della persona. Così il sentire i valori dipende dalle qualità e dal carattere di una persona. Infatti è possibile riconoscere il valore di un’opera d’arte, valore universalmente ed oggettivamente riconosciuto, eppure può non essere la mia preferita, perché tra me ed essa non c’è un accordo ultimo e segreto. Il legame tra la persona ed alcuni valori sono assolutamente personali.
          La riflessione che oggi proponiamo mette al centro del nostro interesse il valore dell’arte. Il valore suscita naturalmente un desiderio, una volontà di possesso. Esiste, ad esempio, un tipo di amore per l’opera d’arte che comporta una volontà di possesso: pensiamo al collezionista, che non mostra a nessuno i suoi tesori, perché vuole vederli da solo, possedendoli nell’ammirarli. Una forma corretta di rapporto con il valore presuppone il superamento della volontà di possesso, di uso e di dominio. Questo superamento avviene quando regalo qualcosa di valore, e non per ottenere un guadagno, ma solo per la gioia di donarlo, per il solo fatto che la cosa preziosa entri nello spazio di un’altra persona e gli dia gioia. «Dis-interesse» significa capacità di avvertire il valore non in riferimento a sé, ma agli altri.
          L’educazione autentica si realizza nel «voler bene», cioè nel desiderio che all’altra persona vadano bene le cose perché gli vogliamo bene, senza riguardo al proprio «io». La dignità di un educatore dipende dal fatto che abbia un «cuore» appassionato ai valori e che sia capace di porre la realizzazione dei valori in cui crede al di sopra di tutto. La gioia autentica di un educatore è che un giovane riesca a realizzarli a sua volta nella sua vita.
          Mi sembra importante sottolineare che la formazione dei giovani ai valori deve fare i conti con i valori che un educatore possiede, con l’idea che ha della persona e del suo destino. Il processo educativo fa interagire i valori dell’educatore con quello del giovane di cui ci si prende cura e questo presuppone un ascolto dell’altro, un insegnare i valori attraverso l’impegno concreto, mediante l’esperienza viva della responsabilità e della testimonianza. I giovani percepiscono l’importanza di un valore per la vita se trovano dei testimoni capaci di viverlo nella loro vita.
          Romano Guardini (1885-1968), parlando della credibilità dell’educatore, scriveva: «vi dissi della responsabilità che ci assumiamo dedicandoci alla educazione di altre persone. Possiamo accostarle in maniera credibile e dignitosa, solo se siamo sinceramente convinti: io devo educare me stesso» (R. Guardini, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, Brescia 1987, p. 223).
 
3.             L’educazione della coscienza
 
          Di fronte alla molteplicità delle sfide del mondo e della cultura contemporanea emerge l’urgenza dell’educazione della coscienza dei giovani. La coscienza è il centro della persona. La migliore espressione di questa realtà è l’espressione biblica di «cuore», inteso nel senso più completo del termine, come l’organo dell’esperienza dei valori. Muovono dalla coscienza tutte le decisioni relative alla condotta della vita, al lavoro culturale e professionale. La coscienza, come tutte le cose umane, ha bisogno di essere educata. Ogni processo educativo è nel suo nucleo un processo di educazione della coscienza, consistente innanzitutto nel risveglio e nella formazione delle facoltà corporee, spirituali e intellettuali della persona.
          Per chiarire il concetto di coscienza è utile rifarsi alla tradizione del pensiero cristiano che parla di due livelli della coscienza.
Un primo livello riguarda una caratteristica essenziale della persona e cioè la sua interiore specifica apertura alla verità. I classici hanno usato il termine di «sinderesi» (synteresis), ma potremmo anche usare il termine, caro a Platone, di «anamnesi», e sta a significare che ogni persona ha una originaria memoria del bene e del vero, perché ogni uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e contiene in sé questa verità originaria che va risvegliata.
San Paolo nella Lettera ai Romani lo esprime con semplicità e profondità, facendoci capire che è una verità nascosta anche in chi non crede: «Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2, 14-15).
San Basilio dice che è una «scintilla dell’amore divino, che è stata nascosta nel nostro intimo». In un articolo della sua regola monastica esprime il suo pensiero con una semplicità disarmante: «L’amore di Dio non dipende da una disciplina impostaci dall’esterno, ma è costitutivamente inscritto in noi come capacità e necessità della nostra natura razionale». Sant’Agostino riprende lo stesso argomento quando afferma: «Nei nostri giudizi non ci sarebbe possibile dire che una cosa è meglio di un’altra se non fosse impressa in noi una conoscenza fondamentale del bene».
Robert Spaemann dice che «la coscienza è un organo, non un oracolo» (livello ontologico della coscienza) e J. Ratzinger commenta: «è un organo, perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essenza, e non una cosa fatta fuori di noi, Ma, essendo un organo, ha bisogno di crescere, di essere formata, di esercitarsi. (…) L’uomo come tale è un essere che ha un organo di conoscenza interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è, ha tuttavia bisogno dell’aiuto degli altri. La conoscenza richiede formazione ed educazione» (J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009, p. 157). È da questa visione della coscienza che scaturisce l’impegno di ogni educatore di formare la propria coscienza e la responsabilità di educare la coscienza dei giovani. Nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello di aver cura di essa e di formarla. Nessuno può esimersi da questa precisa responsabilità.
Un secondo livello di coscienza (conscientia) è la capacità di riconoscere (recognoscere), rendere testimonianza (testificari) e di giudicare (iudicare). Si tratta di un evento che si compie, di un atto (actus).
          Martin Buber (1878-1965) nel saggio «Sull’educazione del carattere» si rivolge all’educatore e gli ricorda la sua responsabilità di educare i giovani all’unità della persona e all’unitarietà della vita vissuta: «Egli può aiutare a trasformare questo senso di mancanza in chiarezza di coscienza e in forza delle aspirazioni, Egli può risvegliare il coraggio di accollarsi nuovamente sulle spalle la propria vita. Egli può prospettare ai suoi allievi l’immagine del grande carattere, che non si tira indietro rispetto alle risposte da dare alla vita e al mondo, e invece assume responsabilmente tutto ciò che di essenziale incontra. Egli può mostrare questa immagine senza temere che tutti i suoi allievi, che necessitano soprattutto di disciplina e ordine, arrivino ad aspirare ad una indefinita libertà; al contrario egli può così insegnare a riconoscere in disciplina e ordine uno dei compiti del cammino che porta alla propria responsabilità. Egli può mostrare che anche il grande carattere non nasce già compiuto e che la sua essenza unitaria (Wesenseinheit) deve maturare, prima di manifestarsi nella successione delle azioni e degli atteggiamenti» (M. Buber, Discorsi sull’educazione, Roma 2009, p. 102).
          L’arte dell’educazione raggiunge il suo vero fine quando apre il cuore dei giovani al desiderio di recuperare i valori eterni, di riascoltare il linguaggio delle norme eterne, di ritrovare le vie per l’unificazione interiore. «Ma chi riesce a vedere e ascoltare a partire dall’unità – conclude Martin Buber – vedrà e sentirà ciò che si può osservare e vedere in eterno. L’educatore, colui che porta l’uomo alla propria unitarietà interiore, lo aiuta a porsi nuovamente di fronte al volto di Dio» (Ib., p. 104). L’idea di coscienza non può essere separata dall’idea della responsabilità dell’uomo davanti a Dio. La coscienza è l’apertura alla verità di Dio e la conformazione alla sua volontà; da questo primo passo consegue la corretta percezione delle cose come realmente sono. Martin Buber giungeva così al cuore della sua fede ebraica.
          La fede cristiana ci invita a credere che il mistero di Gesù Cristo morto e risorto ci rivela la pienezza della vita umana; che la vita secondo il vangelo ci permette di vivere in profondità il nostro essere uomini. La stretta connessione tra la sequela di Cristo e la realizzazione delle aspirazioni del cuore dell’uomo comportano una sinergia tra formazione umana e formazione cristiana. L’accoglienza libera e responsabile della proposta cristiana, infatti, richiede la cura della vita umana nella globalità dei suoi aspetti e la formazione della coscienza umana nella sua integralità. La coscienza della persona è un insieme strutturato e dinamico di operazioni consapevoli e intenzionali: sperimentare, comprendere, giudicare, scegliere, amare. La formazione della persona nella sua integralità richiede che siano attivate la capacità di trarre frutto dalla propria esperienza di vita, la creatività, l’affettività, l’intersoggettività, la capacità di comprensione, di giudizio, di decisione, di costruzione.
          Nel progetto salesiano di educazione potremmo dire che sono necessarie tre conversioni, per poter educare in forma integrale la coscienza dei giovani:
          Anzitutto una conversione intellettuale. Si tratta dell’apertura alla verità. È l’idea centrale della concezione intellettuale di J. H. Newman: è la presenza percepibile e imperiosa della voce della verità all’interno della persona; è il primato della verità sulla bontà, sul consenso, sulla capacità di accomodazione di gruppo; è il superamento della confusione tra il «vedere» e il «capire», tra i criteri del mondo dell’immediatezza e i criteri del mondo del significato.
          Un secondo itinerario è quello di una conversione morale, in quanto riguarda il nostro orientamento verso il bene: si caratterizza per un agire motivato non più dal solo bene individuale, ma dai valori.
          La conversione religiosa riguarda, invece, il nostro orientamento verso Dio e consiste nell’essere presi da ciò che tocca assolutamente e si realizza nella consegna totale e senza condizioni a Dio.
          La conversione tridimensionale della coscienza umana può rappresentare un punto di riferimento importante per delineare il carattere dell’impegno educativo della pedagogia salesiana verso la formazione integrale dei giovani. Il desiderio che don Bosco portava in cuore nel suo impegno educativo era che ogni giovane potesse sperimentare la decisività e la bellezza del vangelo nella propria vita. Ciò che anima la nostra azione pastorale nella scuola è l’impegno per la formazione della «coscienza credente» nei giovani. Ciò significa l’impegno a promuovere nel giovane esperienze, disposizioni, atteggiamenti, riflessioni, giudizi scelte perché tenga il cuore aperto alla dimensione religiosa della vita.
          La coscienza umana è capace di sperimentare, comprendere, giudicare, scegliere, amare, creare. L’esperienza della fede concorre a dare a questo dinamismo fondamentale una forma specifica; la coscienza credente infatti presenta i caratteri dell’affidamento, dell’innamoramento, della fiducia, della partecipazione, della gratitudine, del dono.
          La nostra scuola si qualifica come cristiana e salesiana e come tale è chiamata a riproporre il valore fondamentale dell’interiorità. L’uomo capace di interiorità non è colui che guarda a sé in modo «intimistico», ma è colui che vive consapevolmente ciò che accade, ascoltando riflettendo, giudicando, scegliendo, agendo, amando. La cura dell’interiorità è strettamente legata a uno sguardo intelligente e responsabile sull’attualità. È la capacità di vivere «all’altezza dei tempi». È un compito affascinante e sempre aperto che ci chiede oggi di affrontare con coraggio, nella luce del vangelo, le problematiche poste dal pluralismo culturale, dalle nuove possibilità elaborate dalla tecnica, dalle scoperte scientifiche, dai nuovi temi etici, dal permanere della povertà e dell’ingiustizia.
 
4.             Il «mistero» dell’educazione
 
          L’invito che rivolgo a voi, carissimi docenti, è di riscoprire l’educazione come «passione» per il bene dei giovani, per poter «parlare» al cuore e alla mente dei vostri allievi sapendone cogliere le domande fondamentali e sostenendone la ricerca e la decisione.
          L’educazione è un’azione rispettosa del mistero della persona, capace di riconoscere che la storia di ogni uomo e la sua formazione sono più grandi del nostro impegno educativo. Ogni giovane porta in sé un tesoro che richiede rispetto, delicatezza e soprattutto quello stupore che permette di vedere come il nostro impegno sia solo una collaborazione all’azione di una Grazia che ci supera.
          Ha scritto Guardini: «è un mistero, il fatto che ad un certo punto abbiamo cominciato ad essere; come questi uomini: proprio noi. Lì ricevemmo in noi la nostra stessa esistenza; possibilità, e limiti. E ciò che lì venne alla luce, cominciò a destarsi e a crearsi. Questa è la nostra fortuna, e la nostra zavorra. Tutto quanto si chiama “educazione” significa in fondo permanere in questo mistero, offrendo il nostro servizio, il nostro aiuto, e ponendo rimedio dov’è necessario» (Ib., p. 234).
 
don Eugenio Riva
Versione app: 3.26.4 (097816f)