Possiamo dire in che cosa consiste l'emergenza educativa in cui ci troviamo. Essa è data da due fattori. Da una parte la generazione dei figli chiede ‚Äì e non può non farlo ‚Äì di entrare dentro a un universo vero, buono, bello; dall'altra parte la generazione dei padri è divenuta straniera all'universo di senso: non sa più che cosa dire.
del 26 agosto 2008
 
         “La tradizione che si trasmette alle generazioni è una dimensione essenziale del presente, dal cui riconoscimento o negazione dipende la costituzione del proprio io”.
       Durante la cena pasquale ebraica, ad un certo punto il figlio doveva rivolgersi al padre dicendo: “Perché diversa è questa notte da tutte le notti? Infatti tutte le notti noi mangiamo lievitato e azzimo; questa notte tutto quanto azzimo”. Il padre rispondeva: “Schiavi fummo in Egitto del Faraone, e il Signore Dio nostro ci fece uscire di là con mano forte e con braccio disteso” 1).
Questo testo assai antico ci aiuta a capire profondamente che senso ha parlare oggi di “emergenza educativa”. Esso ci mostra come si può stringere un legame buono fra le generazioni: la generazione dei padri e la generazione dei figli.
Ecco la prima constatazione: il legame è istituito dalla narrazione del fatto che ha fondato l’identità e quindi la libertà del popolo a cui il bambino appartiene. È stata la liberazione dalla schiavitù egiziana a dare origine ad Israele; è stato l’evento fondatore della sua identità.
La narrazione viene ripetuta ogni anno – ogni anno la Pasqua deve essere celebrata – perché si custodisca la memoria dell’evento fondatore “di generazione in generazione”. La memoria deve essere custodita, perché quando si perde la memoria si perde la consapevolezza della propria identità; si è sradicati, spaesati, esiliati da se stessi. Dunque la narrazione che il padre fa al figlio impedisce a questi di ignorare la sua origine, di ignorare la sua dignità di uomo libero, e gli consente di sentire la propria libertà come un bene condiviso con gli altri.
In questo modo, mediante quella narrazione, il rapporto fra le generazioni non era solo biologico ma diventava pienamente umano. La generazione dei figli, già legata biologicamente a quella dei padri, entrava nello stesso universo dei padri: la stessa religione, la stessa legislazione, gli stessi valori. Si costituiva un popolo non solo in senso etnico, ma anche culturale. Israele è l’Israele di Dio e Dio è il “Santo di Israele”.
Ma c’è un altro aspetto ancora più importante, anzi è il più importante di tutti. La risposta del padre al figlio si conclude nel modo seguente: “In ogni generazione e generazione ognuno è obbligato a vedere se stesso come essendo proprio lui uscito dall’Egitto” 2).
La narrazione del padre racconta l’evento fondatore non semplicemente come un fatto che definitivamente appartiene al passato, ma come un avvenimento che continua anche ora ad esercitare il suo influsso. Anche ora, ogni generazione di figli ha bisogno di sapere la sua origine, di accedere alla dignità di uomini liberi, di condividerla dentro una comunità di persone. La tradizione che si trasmette di generazione in generazione è una dimensione essenziale del presente, dal cui riconoscimento o negazione dipende la costituzione del proprio io. È la generazione dei padri a testimoniare questa presenza e introdurre così il figlio nella vita.
Si potrebbero dire molte altre cose, ma è meglio soffermarsi sul rito ebraico e su come esso rappresenti il paradigma educativo di ogni vero rapporto educativo. Quando nelle vostre famiglie il rapporto padre-figli “funziona”, anche in esse accade tutto ciò che accadeva la sera di Pasqua in ogni famiglia ebraica.
Partiamo da un episodio realmente accaduto in una famiglia. Essa fu travolta da un gravissimo lutto. La bambina di pochi mesi fu colpita da un tumore che la portò alla morte. Il fratellino di qualche anno di vita, dopo alcuni giorni dal funerale, chiese a sua madre: “Mamma, ma quando torna a casa Lucia?”.
La risposta a questa domanda, una delle più radicali che l’uomo possa compiere, ha dato inizio in senso forte alla grande narrazione della vita che i genitori fecero al loro bambino.
Essi non partivano dal niente: dentro al niente si può cadere, ma dal niente non si può partire. Sono due sposi: il matrimonio è condivisione amorosa dello stesso destino. Sono due sposi radicati e fondati dentro l’avvenimento cristiano. Essi hanno risposto narrando quell’incontro che avevano fatto con Cristo risorto dai morti. Un incontro che in quel momento, mediante la testimonianza dei suoi genitori, accadeva anche per il bambino, rispondendo al bisogno di una presenza: la presenza della persona amata. La Tradizione cristiana mediante la testimonianza dei padri diveniva risposta adeguata al bisogno del cuore dei figli: questa è l’educazione.
Possiamo ora tentare come una definizione. L’educazione è la tradizione che diventa presenza dentro alla testimonianza che i padri ne fanno ai figli. Queste tre categorie, tradizione-presenza-testimonianza, costituiscono l’atto educativo, in cui la presenza-testimonianza è la narrazione della vita fatta di generazione in generazione.
A questo punto della nostra riflessione siamo in grado di capire che cosa significa emergenza educativa e perché noi ci troviamo dentro ad una vera e propria “emergenza educativa”.
Proviamo a fare una serie di ipotesi, sempre considerando il rapporto fra le generazioni.
Se colui che deve trasmettere una visione della vita ed introdurre dunque il nuovo arrivato nell’universo di senso – diciamo: la generazione dei padri – si sradica dalla tradizione, non può non succedere che una delle seguenti due conseguenze. O si instaura un rapporto di permissivismo, caratterizzato da una sorta di scetticismo e di indifferentismo: non esiste una verità circa il bene della persona (scetticismo), e quindi tutto alla fine è permesso (indifferentismo), purché non ci si faccia del male. O si instaura un rapporto di egemonia e di autoritarismo: non si fa più nessuna proposta, si impone. Sia l’uno che l’altro esito sono accompagnati da una mancanza di vera condivisione del destino dell’altro.
Che cosa significa “Se la generazione dei padri si sradica dalla tradizione”? Quando e come accade questo sradicamento? Richiamiamo alla memoria ancora una volta il rito ebraico e la domanda del bambino rimasto privo della sorellina.
Alla richiesta del figlio il padre non riuscirebbe a rispondere se avesse perso la memoria dell’evento fondatore oppure se non lo avesse ritenuto vero, cioè realmente accaduto. Smemoratezza e/o incredulità sradicano la generazione dei padri dalla tradizione. Non a caso il Signore attraverso i suoi profeti metteva in guardia Israele soprattutto contro due rischi: la perdita di memoria (“ricordati, Israele…”, “non dimenticare, Israele…”) e la sfiducia o incredulità (“se non crederete, non avrete stabilità”).
Alla richiesta del bambino la madre non avrebbe saputo rispondere se non in maniera inadeguata (“Non può ritornare, perché è morta”), se non avesse in quel momento fatto memoria dell’evento fondatore di senso, la risurrezione di Gesù, e non lo avesse ritenuto un fatto vero.
In un caso e nell’altro la generazione dei padri o diventa una generazione di testimoni (“è accaduto un fatto, e questo fatto ti riguarda ora, poiché esso è il fatto che illumina la tua ragione, dona consistenza al tuo io, rende la tua libertà capace di grande rischi”) o diventa la generazione che apre la porta di casa della generazione dei figli all’ospite più inquietante, il nichilismo.
Possiamo finalmente dire in che cosa consiste l’emergenza educativa in cui ci troviamo. Essa è data da due fattori. Da una parte la generazione dei figli chiede – e non può non farlo – di entrare dentro a un universo vero, buono, bello; dall’altra parte la generazione dei padri è divenuta straniera all’universo di senso: non sa più che cosa dire. L’emergenza educativa è l’interruzione della narrazione che una generazione fa all’altra: è l’afasia della generazione dei padri e l’incapacità della generazione dei figli di articolare perfino la domanda che urge dentro al loro cuore. I padri non rendono presente nessuna tradizione, perché ne hanno perso la memoria, e diventano testimoni del nulla e trasmettitori di regole. I figli si trovano a vagabondare in un deserto privo di strade, non sapendo più da dove vengono e dove sono diretti.
 
 
SCUOLA E EMERGENZA EDUCATIVA
 
Per uscire dall’emergenza educativa in cui ci troviamo, la scuola ha un compito fondamentale: non se ne esce se non interviene, nel modo suo proprio, anche la scuola. La condizione dunque di questa istituzione deve essere una delle preoccupazioni fondamentali di chiunque abbia a cuore il destino della persona umana. Per almeno due ordini di ragioni.
È la scuola che in larga misura introduce in maniera sistematica la persone nell’universo del senso: in cui esse imparano la difficile arte di usar la loro ragione, e costruiscono l’ethos della loro vita.
È la scuola che ha la missione, a cui purtroppo può anche venir meno, di immunizzare la persona contro la tirannia del conformismo: di generare cioè persone veramente libere e liberamente vere.
È stato detto che l’emergenza educativa in cui ci troviamo, consiste nel fatto che si è interrotta la “narrazione della vita” che la generazione dei padri deve fare alla generazione dei figli.
E ecco un’ipotesi di lavoro: la scuola ha la capacità di riprendere questa narrazione, di reinserire la persona dentro a questo grande racconto, mediante ciò che essa è e mediante gli insegnamenti (= le materie) che trasmette. Vorrei ora riflettere un po’ su questa ipotesi.
Un grande professore ed educatore (ha educato Tommaso d’Aquino!), S. Alberto Magno, ha espresso mirabilmente questa ipotesi quando ha scritto: “In dulcedine societatis quaerere veritatem”, cioè “Nella dolcezza della vita comune cercare la verità”. Ho detto che la scuola ha la capacità di farci uscire dall’emergenza educativa mediante ciò che è: una comunità (la “dulcedo societatis” di S. Alberto) e mediante ciò di cui dispone: gli insegnamenti o materie (il “quaerere veritatem” di S. Alberto).
Educare attraverso lo studio delle discipline: “Quaerere veritatem”. Inizio da questo punto, perché in un certo senso è quello più tipicamente scolastico.
Il punto di partenza è che dobbiamo avere una visione vera della persona umana. Essa ha una naturale, originaria, capacità di stupirsi di fronte alla realtà e quindi di interrogarsi circa essa. Essa è un “vivente” nel senso più alto del termine. Non solo re-agisce, ma agisce: si muove da se stessa e non é solo mossa. Non diamo troppo scontata questa visione vera della persona umana, immersi come siamo in un pensiero di riduzionismo antropologico.
Nella lezione che il S. Padre avrebbe dovuto tenere alla “La Sapienza”, dice: “Di fronte a una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza umana come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee”.
Educare attraverso lo studio delle varie discipline significa trasmettere “la sapienza umana come tale”, ma in modo che l’alunno sia risvegliato dagli insegnamenti dal “sonno della ragione”, durante il quale egli non può che sognare e non incontrarsi colla realtà. La domanda di Socrate ad Eutifrone circa la tradizione religiosa: “Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?” 3), è il paradigma con cui declinare ogni trasmissione di insegnamento attraverso le varie discipline.
Proviamo a farci una domanda: uno strumento di calcolo, una qualsiasi calcolatrice, ragiona? Penso che tutti siamo d’accordo nel rispondere negativamente. Per lo meno nel rispondere che non ragiona alla maniera umana: sa fare quello per cui è stata programmata.
Questo esempio serve per dire la stessa verità per contrarium. La trasmissione del sapere non ha alcuna analogia con la programmazione nel senso suddetto, poiché ha a che fare con un soggetto libero. Agostino ha scritto profondamente che Dio ha creato l’uomo perché si spezzasse il cerchio dell’eterno ritorno dell’identico: ogni uomo a causa della sua libertà è un inizio assoluto e sempre nuovo. Al bambino ebreo attraverso la narrazione della storia del suo popolo veniva chiesto di rivivere la stessa esperienza dei suoi padri nella notte della liberazione: di porsi all’inizio e di essere causa dell’inizio.
Non si deve pensare che tutto questo è vero solo per le discipline umanistiche, negando o comunque sottovalutando il valore educativo delle discipline scientifiche. A tal proposito si può citare un testo di un insegnante di matematica.
“Le discipline scientifiche hanno valore educativo non tanto per la quantità di informazioni che trasmettono, quanto per il fatto di introdurre i ragazzi al metodo scientifico. Questo è veramente un risultato che può diventare stabile e duraturo per la vita dell’allievo.
Attualmente l’informazione scientifica appare su molte riviste, in televisione, sui giornali. Volendo raggiungere conoscenze specifiche particolari ed accurate su qualche punto particolare, sono disponibili enciclopedie e testi divulgativi; mi sembra quindi che non abbia senso fare scienze a scuola solo per trasmettere informazione scientifica. C’è qualcosa di più!
La scienza è un modo di guardare la realtà con la curiosità di conoscerne i fenomeni, sia per godere della loro bellezza che per poterli controllare e per poter fare previsioni utili. Dunque entrare nel campo scientifico a scuola appropriandosi del metodo scientifico, permette di capire un atteggiamento con cui l’uomo si è posto e si pone davanti alla realtà. Iniziare in questo modo nella scuola elementare, vuol dire preparare a comprendere gli approfondimenti successivi della scuola media superiore, che saranno più metodici e ricchi di particolari. L’educazione scientifica riguarda non solo la futura attività professionale, ma la vita intera della persona. Chi conosce il metodo scientifico, riesce a porsi in modo critico e consapevole di fronte all’abuso di linguaggio scientifico che ci circonda, riconosce la divulgazione scientifica autentica distinguendola dalla pretesa di dare solo aspetto scientifico a fatti proposti per interesse economico o ideologico che sia. Per discriminare i messaggi dei mass media e le pressioni ideologiche, occorre sapere con chiarezza quali domande si possono fare alla scienza e quali garanzie possono avere i risultati scientifici. Una buona formazione scientifica deve condurre a saper riconoscere le domande a cui la scienza può rispondere, differenziandole da quelle a cui essa non può rispondere, sottolineando che queste domande non sono senza risposta (come afferma lo scientismo), ma che vanno affrontate in altro modo” 4).
Ma la scuola può farci uscire dall’emergenza educativa anche a causa di ciò che è: “in dulcedine societatis”. È mediante la condivisione di vita fra educatore-insegnante e alunno che si riprende la grande narrazione della vita.
Tempo fa, dopo la tragica uccisione del poliziotto Filippo Raciti, un gruppo di ragazzi di un liceo di Catania scrisse agli insegnanti della loro scuola per chiedere, alla fine, che li aiutassero a trovare le ragioni per cui vale la pena vivere. La risposta fu che loro, gli insegnanti, erano pagati per insegnare non per offrire ragioni per vivere.
Il compito dell’insegnante è con-vivere con il suo alunno: nel senso profondo del termine. Cioè, illuminare il cuore dell’alunno attraverso ciò che insegna, offrendo attraverso questo insegnamento la propria esperienza umana.
Non è possibile una vera proposta educativa che non sia unitaria. Non si conosce la verità ed il senso del frammento fino in fondo se non lo si considera all’interno dell’intero. Si deve vedere l’insegnamento della religione in questa prospettiva.
 
 
COMUNITÀ CRISTIANA E EMERGENZA EDUCATIVA
 
In questa terza parte si risponde alla domanda su come la comunità cristiana, più precisamente la Chiesa locale, si pone nel contesto dell’emergenza educativa.
Questa tematica è vastissima, e si deve ricordare che stiamo parlando di emergenza educativa e lo stiamo facendo in rapporto alla scuola. Dunque potremmo formulare la domanda nel modo seguente: come si pone la comunità cristiana in ordine ad una scuola che voglia farci uscire dall’emergenza educativa in cui ci troviamo?
Dobbiamo in primo luogo partire dall’affermazione che la Chiesa ha “titolo” per entrare in questo contesto, anzi direi che ha un titolo speciale. Lo ha ricordato anche il S. Padre nella già citata lezione.
La Chiesa è il soggetto vivente di una tradizione che costituisce un elemento essenziale, anzi l’elemento essenziale di quella grande “narrazione della vita” che ha forgiato il nostro popolo. La stoltezza di dover risolvere il problema reale della pluralità che caratterizza sempre più anche la nostra società con una sorta di azzeramento di tutte le identità, è dal punto di vista educativo devastante.
La pluralità delle “visioni della vita” è un dato che non può più essere negato. Ignorarlo genera una società di “estranei morali” nella quale la persona umana non può vivere. Risolverlo mediante “regole” neutrali di fronte ad ogni visione (= laicità escludente) è praticamente impossibile, socialmente dannoso: non esiste nessuna regola capace di farmi osservare le regole. È ugualmente contro la dignità dell’uomo risolverlo imponendo un visione della vita contro le altre: le più grandi tragedie del XX secolo – nazionalsocialismo e comunismo – sono nate da questa decisione.
Esiste una sola via: entrare nel dibattito pubblico esibendo le ragioni che dimostrano la verità e la bontà della visione cristiana della vita. Più precisamente, per il nostro tema: l’interpretazione cristiana della vita può e deve essere offerta dentro la scuola – intendo dire quella gestita dallo Stato – come ipotesi educativa sulla quale l’alunno possa compiere la verifica della sua vita. Quanto ho esposto nella seconda parte, può e deve assumere la forma della proposta cristiana. Intelligentibus loquor: nonostante l’età, non ho ancora perso completamente l’uso della ragione e quindi non sto proponendo la matematica, la biologia, la fisica cristiana! È qualcosa di più profondo che sto dicendo.
Se ciò che è stato affermato nella seconda parte è vero, se cioè la scuola può farci uscire dall’emergenza educativa, purché: (a) educhi mediante l’insegnamento delle materie; (b) educhi mediante una vera condivisione della esperienza scolastica fra insegnanti e studenti; (c) sia proposta un’ipotesi unitaria di vita. Allora la presenza della proposta cristiana dentro la scuola, nelle condizioni proprie di una società plurale e a democrazia procedurale, non può essere emarginata o eliminata.
Ma come si realizza questa presenza?
In due modi fondamentali: attraverso l’insegnamento della religione cattolica e mediante i docenti cristianamente formati e orientati.
Esistono due qualità. La prima è la “formazione cristiana”. Non in senso generico, ma specifico. Esiste una dottrina cristiana sull’educazione, perché esiste un’esperienza cristiana dell’educazione. L’assimilazione di quella dottrina è fondamentale. Anche in questo campo si scontrano colla visione cristiana visioni metafisiche ed antropologiche che non rendono difficile l’atto educativo: lo rendono impraticabile perché lo rendono impensabile.
La seconda qualità è l’orientamento cristiano del proprio operare. Non si tratta di un discorso morale sulle virtù e sulla deontologia professionale: questa è morale razionale. L’orientamento cristiano significa che il “maestro” cerca di realizzare le tre condizioni appena richiamate in modo cristianamente orientato. E qui si aprono questioni importanti e molto precise sulle quali riflettere.
 
Si può concludere facendo riferimento a una pagina della letteratura patristica.
“Egli ci accolse fin dal primo giorno: il primo, effettivamente, e devo dirlo, il più prezioso di tutti. Infatti, allora, per la prima volta cominciò per me a risplendere il vero sole. Noi, da principio, alla maniera di bestie selvatiche, pesci, uccelli, che caduti nei lacci, nelle reti, tentano di sgusciarne fuori, fuggire via, desideravamo allontanarci … Egli, pertanto, si adoperò con tutti i mezzi a legarci a sé … Soprattutto egli con grande abilità trattava argomenti che valessero a scuoterci nell’intimo, giacché mostravamo di trascurare quello che, come egli afferma, è il più importante dei nostri beni, la ragione” 5).
Di che si tratta? Un giovane di nome Gregorio al termine dei suoi studi superiori, oggi si direbbe terminata l’Università, vuole fare una descrizione dell’esperienza vissuta negli anni della sua formazione accademica, parlando del rapporto vissuto con il suo maestro, Origene. Siamo negli anni 232/233 – 238 d.C.. E’ possibile oggi che un giovane possa ancora rivivere l’esperienza di Gregorio? Dire con tutta verità che “effettivamente (il giorno) più prezioso di tutti” è stato l’incontro con i propri maestri, cominciando in quell’incontro “a risplendere il vero sole”? e che ciò accade perché si vive come uno “scuotimento nell’intimo”, poiché si “cessa di trascurare quello che è il più importante dei nostri beni, la ragione”? O forse non è neppure più necessario vivere nella vita una tale esperienza dal momento che ciascuno deve semplicemente vivere “come gli pare e piace”?
La risposta a queste domande la può dare non un insegnante, ma un maestro. Quale è la diversità? L’insegnante trasmette regole, il maestro testimonia la verità. Il primo chiede di imparare, il secondo persuade a verificare.
Platone ha scritto: “La conoscenza di queste cose non è affatto comunicabile come le altre conoscenze ma dopo molte discussioni fatte su queste cose, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende da una scintilla che si sprigiona, essa nasce nell’anima e da se stessa si alimenta” 6).
 
Note:
1) Op. cit. da C. Girando, Eucarestia per la Chiesa, Gregorian University Press-Morcelliana, Roma-Brescia 1989, pp. 134-135.
2) Ibid. pag. 111.
3) Eutifrone, 6 C.
4) P. Bruno Longo.
5) Gregorio il Taumaturgo, Discorso a Origene, ed. Città Nuova, Roma 1983, pp. 64-65.
6) Lettera VII, 341 C.
 
Fonte: Relazione presentata al convegno “Tra crisi e ricerca di senso. Le responsabilità dell’associazionismo cattolico e delle comunità cristiane” organizzato dall’Ufficio Nazionale per l’Educazione, la Scuola e l’Università della Conferenza Episcopale Italiana a Bologna dal 13 al 16 febbraio 2008 
mons. Carlo Caffarra
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