Enzo Gagliardi lo scenografo: l'idea mia non è solo mia.

I primi rudimenti della tecnica pittorica li ho appresi a 15 anni, rimanendo per ore, in silenzio, a osservare un pittore dipingere nel suo studio. I colori, le tele, i vari strumenti di cui avevo bisogno li acquistavo vendendo i miei primi lavori: oltre a dipinti, sculture, opere grafiche, trompe-l'oeil ecc.

Enzo Gagliardi lo scenografo: l'idea mia non è solo mia.

da Feste dei Giovani

del 19 gennaio 2012

Sono a Cancello Scalo, nel casertano, a casa di Enzo Gagliardi, affermato scenografo che da anni collabora con il complesso internazionale Gen Verde e a stage di scenografia nella cittadella di Loppiano. Sposato con Giusi, è padre di quattro figli: Clemente di otto anni e mezzo, Luigi di sette, Antonio di tre e mezzo e Carmela di uno. Per prima cosa chiedo a Enzo i motivi della sua scelta artistica. «Di famiglia modesta (i miei lavoravano la campagna), fin da ragazzo amavo molto disegnare – mi risponde –: era un modo anche per evadere dal mio piccolo mondo. Studi all’Istituto d’arte. I primi rudimenti della tecnica pittorica li ho appresi a 15 anni, rimanendo per ore, in silenzio, a osservare un pittore dipingere nel suo studio. I colori, le tele, i vari strumenti di cui avevo bisogno li acquistavo vendendo i miei primi lavori: oltre a dipinti, sculture, opere grafiche, trompe-l’oeil ecc. ».

 

Come ti sei orientato alla scenografia?

«Me ne sono innamorato sentendone parlare da un conoscente che aveva lavorato da giovane come scenografo. Di qui la decisione di frequentare l’accademia di Belle arti a Napoli. Già un anno prima di finire gli studi, nel ’92, ho lavorato per un serial televisivo di Rai Uno con Bennato, Arbore e Banfi. Dopo l’accademia, ho cominciato a farmi le ossa come assistente scenografo, lavorando con De Simone, la Fracci, in giro per l’Italia. E naturalmente facendo sogni di gloria».

 

L’aver messo su famiglia ha condizionato la tua carriera?

«Subito dopo il matrimonio, nel 2001, mi sono reso conto che non potevo più avere tutto il tempo per me, decidere io dove andare. Poi è nato Clemente. Aveva un grosso ritardo neuro-motorio e col passare del tempo esigeva un sempre maggiore impegno da parte nostra. Non puoi immaginare a quanti specialisti ci siamo rivolti e quanti viaggi abbiamo fatto, anche all’estero. Per anni ho dovuto lavorare col dolore di dover lasciare molte volte il bambino solo con la mamma per i suoi cicli di cure. Ovviamente questo ha portato un freno alla mia attività, alla vita come me l’ero programmata. In compenso ho imparato a puntare alla qualità dei rapporti e a vivere la professione come un mestiere».

 

Dopo i primi lavori, però, c’è stata una fase più impegnata…

 «Dal ’95 a quando mi sono sposato, ho avuto la fortuna di lavorare ai più importanti musical prodotti in Italia, come Grease, Cantando sotto la pioggia, e tanti altri, con grande successo di pubblico. In seguito ho riscoperto spettacoli per un pubblico meno vasto, ma capaci di emozionare più di tanti altri. Come il film È tempo di cambiare o Duns Scoto di Fernando Muraca, a cui ho accettato di lavorare non per i soldi (ce n’erano pochi) e neppure per la fama, ma per dar voce, attraverso questo mestiere, a quanti non hanno gli strumenti per farlo».

 

Cosa ha significato per te l’incontro col Focolare?

«È avvenuto a 18 anni: l’occasione, il corso di preparazione alla cresima. Ho scoperto presente nella mia vita quel Dio che fino a quel momento credevo lontano. È stato fortissimo scoprire la sua paternità. Erano gli anni Ottanta, cominciavano ad arrivare nella mia città moltissimi maghrebini, così ho accettato di collaborare con il Centro Caritas, dove distribuivamo alimenti, indumenti, organizzavo con loro partite di calcio. Qualcuno di loro che non aveva nemmeno dove lavarsi veniva a casa mia per la doccia. Così capivo che la mia sensibilità per l’arte doveva servire al dialogo e a trasmettere dei valori universali. Ho approfondito questo cammino collaborando negli anni come scenografo a varie grosse manifestazioni dei Focolari, ad esempio i Genfest, Chiara Luce, ecc».

 

Cos’hai colto da questa collaborazione artistica nell’ambito del movimento?

«Vedi, gli artisti hanno una grande autostima di sé, altrimenti non riescono a produrre; per cui chiedere agli altri un parere è come sminuirsi, ed è contro ogni regola professionale. Lo stesso regista può ispirarti, ma tu rimani il responsabile ultimo delle scelte estetiche. Invece qui si punta a un’arte più condivisa, dove l’idea partita da me, arricchita dal contributo di altri che la fanno propria, si trasforma, assumendo sfumature diverse e finendo per diventare quasi non più mia, anche se alla fine sarò io a fare la sintesi. È certo impegnativo, però sempre una bellissima esperienza».

 

Questo nel movimento. Ma al di fuori?

«Ricordo un episodio successo al Teatro lirico di Trieste. Dirigevo una squadra di tecnici: dovevano disegnarmi una forma ellittica a terra, secondo i miei criteri. Ma uno di loro, anziano e di lunga esperienza, ha proposto un’altra soluzione, che in effetti ha fatto risparmiare del tempo. Se mi fossi impuntato sulla mia idea, com’ero portato a fare da giovane, questo non sarebbe accaduto. Ora, invece, considero il tecnico, il macchinista e le altre professionalità del teatro non più come dei semplici esecutori; ascolto molto gli altri, lascio che si esprimano e spesso ne ricevo un arricchimento. Certo, a volte occorre anche essere decisi: quando l’altro vuol semplificare troppo per fare il lavativo, allora dico: nossignore, si fa così e basta».       

                                            

Immagino che dover fare delle scelte controcorrente nel tuo campo sia frequente.

«Ero alle prime esperienze come assistente scenografo di un grosso spettacolo, mi era stato chiesto di elaborare persino i bozzetti e la progettazione, quando scopro che nella locandina accanto al mio nome c’era quello di uno che non avevo mai visto. Dallo scenografo ho saputo poi che il regista aveva insistito perché apparisse questo suo amico nel cartellone. Siccome era contro i miei princìpi, sono rimasto per il montaggio, ma appena finito ed eravamo pronti per il debutto, sono partito: mi era sembrata una scelta coerente con quello che cercavo di vivere, consapevole che mi stavo pregiudicando future collaborazioni.

 

«Non mancano le situazioni in cui devi scegliere di vivere da cristiano: incontro molte persone per le quali la fedeltà al proprio coniuge è un optional; oppure chi fa uso di droga; capita che qualche attrice o attore ti faccia delle avance particolari. Non ci sto a certe cose, però questo non significa che fuggo da certi ambienti. Non è semplice mantenersi coerenti, perché sei subito visto come un fesso, come uno fuori dal mondo; ci riesci però avendo alle spalle un rapporto profondo con tua moglie e una vita di fede: una scelta, questa, da rinnovare in ogni momento».

 

Qualche volta ti capita di chiedere a Giusi il parere su qualche tuo lavoro?

«Quasi sempre, prima di mostrare il bozzetto al regista. Non le spiego neanche l’opera a cui si riferisce, nulla della trama. Per me conta la sua prima impressione come spettatrice. Se lei approva, allora vado avanti, sennò strappo tutto e ricomincio da capo».                                               

 

Nell’immediato, a cosa stai lavorando?

«Alla direzione artistica di una rassegna che ho ideato insieme a un gruppo di amici, nella città in cui vivo. Ho coinvolto tanti artisti, attori, musicisti, cantanti e danzatori che hanno accettato di esibirsi quasi gratis. Sposando le ragioni di un’arte capace di arrivare alla gente comune. E come la politica, l’economia, può arginare la cultura del consumismo e del disimpegno. Il due luglio debutteremo con I colori dell’anima, mentre il tre settembre continueremo con I monti degli aromi».

 

Parte della tua attività è dedicata all’insegnamento…

«Dopo aver insegnato per un breve periodo nel liceo artistico, da diversi anni sono docente di scenotecnica o scenografia presso alcune accademie di Belle arti. Sono corsi di laurea che formano gli scenografi di domani. È un grosso impegno, in quanto sento la responsabilità di trasmettere non tanto delle nozioni ma di insegnare un mestiere. Con me gli studenti hanno un rapporto di studio intenso, impegnativo, ma nello stesso tempo leale, che formi non solo artisti, ma persone aperte al dialogo. Spesso li spingo a lavorare insieme, con uno stile di dialogo: cosa non da poco perché non sono abituati a questo, secondo la convinzione che l’idea mia rimane mia e la porto avanti da me».

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