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Esodo: uscire per ritrovarsi

«Incamminarsi verso il profondo costringe al discernimento previo di ciò che fa muovere e vivere, invita a una purificazione della memoria, a chiedersi cosa portare con sé del proprio passato». «È solo in viaggio che si sperimenta ciò che i Padri del deserto chiamavano l'essere straniero, senza alcuna protezione sociale,in balìa di leggi e costumi altrui, circondati da linguaggi e paesaggi sconosciuti».


Esodo: uscire per ritrovarsi

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Secondo antropologi, sociologi e studiosi delle religioni, il pellegrinaggio è uno dei fenomeni più antichi e diffusi della storia umana. Ora, al pari e ancor più di ogni altro viaggio, il pellegrinaggio non inizia mai con la partenza, bensì molto prima: con il pensarlo e il prepararlo. In altri termini, con il chiedersi perché intraprendere un pellegrinaggio e perché proprio quello. Sarà questa motivazione a determinare la scelta della meta e a fissare il momento della partenza: «Quando l'uomo non sa verso quale approdo naviga - diceva Seneca - nessun vento gli è favorevole», e quindi non può salpare.

Diversi possono essere i motivi che ci spingono al pellegrinaggio: il dolore che la situazione in cui ci si trova suscita in noi, il desiderio di una novità che ridia dinamica alla nostra vita, la voce di qualcosa o qualcuno che ci chiama, la curiosità di scoprire se le nostre radici hanno diramazioni insospettate. O ancora, in una dimensione più interiore: l'insostenibilità di una vita della quale si è smarrito il senso, l'intuizione di essere abitati da dinamiche assopite, il richiamo di una voce amica o la scoperta che una voce fino ad allora indistinta si è fatta chiara, la percezione di attingere linfa vitale da un humus sconosciuto. Ed è in base a queste motivazioni che decidiamo il bagaglio e l'abbigliamento per il viaggio: per sceglierli infatti dobbiamo conoscere noi stessi, le nostre esigenze e le realtà ambientali cui andremo incontro. Scegliere significa escludere, distinguere dall'essenziale ciò che indispensabile non è: operazione non facile, perché in viaggio può rivelarsi pericoloso se non letale dimenticare qualcosa di vitale oppure caricarsi di pesi inutili. Incamminarsi verso il profondo obbliga allora a un discernimento previo di ciò che ci fa muovere e vivere, costringe alla rinuncia a quanto - magari buono in sé - finirebbe per ostacolare il cammino, invita a una purificazione della memoria, a chiedersi cosa portare con sé del proprio passato. P oi, a un certo momento, si parte. A volte si vorrebbe poter cambiare idea all'ultimo momento, rimandare la partenza, addirittura annullarla. Perché «partire è un po' morire». Ma c'è un punto, una soglia che delimita l'irreversibile, c'è un Rubicone varcato: il treno si mette in moto, l'aereo si stacca dalla pista, la nave si allontana dalla banchina, non siamo più in grado di fermare il mondo e scendere. Solo allora capiamo cosa vuol dire che, come ricorda André Gide, «non si possono scoprire nuovi orizzonti se non si accetta di perdere di vista la riva per un periodo molto lungo». Punto di non ritorno, momento di rottura, duro ma indispensabile, senza il quale nessun viaggio prenderebbe mai corpo, nemmeno quello immaginario. E la rottura con le nostre abitudini, con l'ambiente che ci è familiare, con i pensieri ormai addomesticati ci immette in una dimensione altra, con meno sicurezze e più aspettative. Nel viaggio interiore è la morte a noi stessi, all'immagine che di noi stessi ci siamo fatti, alle maschere che abbiamo indossato di fronte agli altri. Anche partendo, non si lascia davvero il proprio luogo se «il cervello si è troppo abituato a considerare stabile ogni spazio circostante», come osserva Giorgio Pressburger.

Forse, per assurdo, il momento del pellegrinaggio in sé è quello del quale si riesce a dire meno, come quando si cerca di cogliere il «presente», schiacciato tra passato e futuro. O meglio, quello che si dice è costantemente intessuto di nostalgia e di attesa, di rimpianto per quanto ci sta alle spalle e di timore per quanto ci attende. Non sono forse questi i sentimenti che hanno abitato il popolo di Israele durante uno dei viaggi più famosi dell'antichità, quell'esodo che è divenuto ben presto paradigma di ogni «uscita» dalla schiavitù verso la libertà, metafora di un ininterrotto viaggio interiore che attraversa l'aridità del deserto in direzione di una terra «promessa»? È in viaggio che si rimpiangono le cipolle e le pentole di carne dell'E gitto: poco importa se allora le mangiavamo da schiavi e ora ci possiamo nutrire di manna e quaglie da uomini liberi. Così, nel nostro viaggio interiore, le soffocanti sicurezze di un tempo diventano miraggi che distolgono lo sguardo da possibilità nuove, da spazi aperti ma esigenti. Ansia dell'ignoto e nostalgia del già noto: è lo struggimento per un'assenza che ferisce il cuore con la sua presenza. In viaggio come pellegrini e forestieri, inoltre, si attraversa non solo lo spazio, ma anche il tempo: si scopre la non contemporaneità delle diverse culture, si tocca con mano che, anche se il calendario indica la stessa data, i tempi restano diversi, a volte inconciliabili: differenze di approccio alla realtà, di costumi, di memoria storica, di tradizione. È in viaggio, prima ancora di fissare anche solo provvisoriamente una nuova dimora, che sperimentiamo quella che i padri del deserto chiamavano la xeniteia, l'essere xenos, «straniero», senza nessuna protezione sociale, in balìa di leggi e costumi propri di altri, circondati da linguaggi e paesaggi sconosciuti. Così anche la strada verso un «santuario», un luogo «santo» nel suo significato originario di «separato», altro, diverso dal nostro quotidiano, è già preparazione a vivere in modo «altro» il tempo e lo spazio. Pensiamo al pellegrinaggio ai luoghi santi per eccellenza, come quello dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, il monte Sinai; oppure il Calvario, da dove Cristo, innalzato da terra, ha attirato tutti a sé; o ancora la tomba di Gesù, luogo che con il suo vuoto ha riempito di gioia il cuore dei discepoli e di fede intere generazioni di credenti...

Nulla di magico, niente che possa catturare o obbligare Dio, nessuna garanzia di possesso privilegiato, ma una capacità di evocare un evento, di richiamare l'uomo, di invitarlo a sollevare lo sguardo verso l'alto, di indicargli, attraverso il luogo dell'evento, colui che l'evento ha operato! Non a caso il pellegrinaggio è divenuto metafora della nostra stessa vita, aperta verso un futuro altro.

Enzo Bianchi

http://www.avvenire.it

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