Essere uomini spirituali all'Università

Omelia di Don Pascual Ch√°vez fatta all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Pontificia Salesiana a Roma. «Ecco il contesto culturale in cui ci troviamo e siamo chiamati a lavorare come Università Pontificia Salesiana per superare questo assoluto del positivismo, al quale vuol ridursi la verità e così avere una ragione d'essere nel servizio alla società. Ma per fare questo c'è bisogno di essere uomini spirituali...».

Essere uomini spirituali all'Università

da Rettor Maggiore

del 14 ottobre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

«Lo Spirito di verità vi guiderà alla verità tutta intera»

 

Inaugurazione anno accademico UPS 2011-2012

(At 2,1-11; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27. 16,12-15)

 

 

Cari membri della Comunità Universitaria UPS:

Rettore, Vicerettori, Decani, Officiali, Professori, Studenti, Personale ausiliario.

 

Come tutti gli anni, vogliamo iniziare quest’anno accademico 2011-2012, con l’Eucaristia invocando su tutti e ciascuno dei membri della comunità universitaria lo Spirito Santo. Sia Egli, “lo Spirito di verità a guidarci alla verità tutta intera”.

 

Ne abbiamo proprio bisogno, innanzitutto per essere fedeli all’obiettivo della Università che, come ha ricordato Benedetto XVI ai giovani docenti universitari a San Lorenzo de El Escorial, il 19 agosto 2011, “è stata ed è tuttora chiamata ad essere sempre la casa dove si cerca la verità propria della persona umana”; ma anche per saper leggere la storia e, nei dinamismi in atto, poter cogliere ciò che è buono, vero, gradito a Dio, soprattutto ora che stiamo vivendo una della crisi più gravi della storia. E mi riferisco non soltanto alla economica e finanziaria, ma anche a quella politica, sociale e, soprattutto, culturale.

 

Stiamo vivendo infatti una tappa della storia segnata, da una parte, dalla profonda crisi economica e finanziaria che ha portato nazioni e persino regioni intere all’orlo del fallimento, con tutte le conseguenze che ciò comporta: la perdita di qualità della vita, la mancanza di opportunità di educazione e di lavoro e l’angoscia per il futuro. Dall’altra parte, questa stessa crisi ha sboccato in un movimento di indignazione che, come macchia di olio, si dilaga e raggiunge più e più paesi, richiamando maggiore protagonismo da parte dei giovani e l’urgenza di un nuovo ordine mondiale.

 

L’insistente invito del Santo Padre a Madrid, ai partecipanti alla Giornata Mondiale della Gioventù, a non avere paura del mondo e del futuro, voleva essere una parola di incoraggiamento davanti a questo panorama talvolta cupo, e anche una chiamata all’impegno per la trasformazione di questa società, di questo modello culturale, che sembra essere arrivato al capolinea.

 

Questo voi lo fate attraverso l’essere università, vale a dire, una comunità “di professori e discepoli che assieme cercano la verità in tutti i saperi” (ibidem). Bisogna però essere convinti che “la vostra missione è importante e vitale”, che non si tratta dunque di comunicare contenuti, di trasmettere saperi o sviluppare abilità, ma di formare l’uomo nuovo, il professionista competente, il cittadino attivo, il credente impegnato.

 

Ciò è possibile a condizione che gli stessi studenti trovino dei maestri autentici, “persone aperte alla verità totale nei differenti rami del sapere, sapendo ascoltare e vivendo al proprio interno tale dialogo interdisciplinare; persone convinte, soprattutto, della capacità umana di avanzare nel cammino verso la verità” (ibidem).

 

Una forma tale da capire la natura della università e lo scopo di essa e le attitudini necessarie nei professori, è un invito permanente alla umiltà, appunto per superare il peccato di hybris, la vanità di chi si pensa detentore della verità. Inoltre, come dice il Santo Padre “è doveroso tenere a mente che il cammino verso la verità piena impegna l’intero essere umano: è un cammino dell’intelligenza e dell’amore, della ragione e della fede”.

 

Cari fratelli e sorelle, questa celebrazione non è dunque – non può essere – una mera formalità, un evento di calendario accademico. Deve invece essere l’impostazione adeguata di questa importante missione che vi viene affidata.

 

Perciò invochiamo da Dio il dono per eccellenza, “lo Spirito di verità che procede dal Padre”: Egli rende testimonianza a Gesù e ci rende testimoni del Cristo. Sia Lui a guidarci durante questo nuovo anno accademico; noi abbiamo bisogno che venga, come nella Pentecoste, a convertirci, a trasformarci da uomini chiusi ed impauriti in discepoli coraggiosi ed eloquenti, a rinnovarci profondamente riempiendo di fuoco il nostro cuore e dandoci passione apostolica.

 

Abbiamo bisogno del Consolatore promesso, affinché ci faccia ricordare le parole di Gesù, ci conduca alla verità tutta intera e ci renda testimoni del Signore risorto. Abbiamo bisogno di imparare a camminare secondo i desideri dello Spirito e non quelli della carne.

 

In questo momento il Papa Benedetto XVI ci sta offrendo la testimonianza di che cosa significhi essere un uomo guidato dallo Spirito, appunto per la sua capacità di andare avanti con coraggio e convinzione, senza lasciarsi intimidire e mettere a tacere, senza scendere a patti o compromessi pur di godere della stima e dell’apprezzamento del mondo, consapevole della sua missione di confermare i fratelli nella fede. Nel suo ultimo viaggio in Germania, il Santo Padre ha voluto appunto far vedere che solo “dove c’è Dio, c’è futuro”. E senza dubbio il nostro mondo d’oggi ha proprio bisogno di Dio per aprire spiragli di speranza e di futuro.

 

É precisamente questa perdita del senso profondo dell’esistenza all’origine della crisi, una crisi che è anzitutto di ordine antropologico. Ciò che viene chiamato in causa non è solo il sistema bancario, ma il modo di concepire l’uomo in una visione utilitarista come produttore e consumatore e l’insieme della vita sociale all’insegna del liberalismo e del benessere sociale.

 

In uno dei suoi articoli, in occasione della consegna del premio “Benedetto XVI”, Olegario Gonzalez de Cardedal, scriveva: “Ancora si sente la domanda proferita da Hölderlin nella sua elegia «Pane e vino», quando si trovava già all’orlo della sua ragione esaltata e della sua pazzia finale: «A che servono poeti in tempi di penuria?». Questa domanda ricadde poi sui nuovi destinatari, come i filosofi e i teologi. Gli uni e gli altri, rispondono a qualcosa di cui l’uomo ha bisogno? […] La domanda sembra supporre che non rispondono a bisogni fondamentali della vita umana né ci apportano nulla per la consecuzione di qualcosa essenziale.

 

Questa è la domanda a una cultura che ha dato il primato alla efficacia nell’ordine materiale sul senso nell’ordine spirituale e ai mezzi immediati sui traguardi ultimi. Non è appunto questa cecità sull’essenziale e santo ciò che costituisce, in mezzo a tanta ricchezza, la penuria di cui parla Hölderlin? Non è questa assenza del pensare e del sentire fondamentali che hanno provocato la morte a Dio? […] In questa città della ragione fondamentale, come criterio supremo ed escludente, i teologi non hanno posto, perché Dio non lo ha. E Dio non lo ha perché non lo hanno il pensare e l’uomo”.

 

Ecco il contesto culturale in cui ci troviamo e siamo chiamati a lavorare come Università Pontificia Salesiana per superare questo assoluto del positivismo, al quale vuol ridursi la verità e così avere una ragione d’essere nel servizio alla società. Ma per fare questo c’è bisogno di essere uomini spirituali.

 

La Parola di Dio, appena proclamata, ci offre gli elementi per diventare, come gli apostoli, anche noi uomini e donne arricchiti dello Spirito, che sanno vivere secondo lo Spirito e camminare nello Spirito.

 

Il racconto degli Atti degli Apostoli narra che erano trascorsi cinquanta giorni dalla Pasqua e centoventi seguaci di Gesù - i Dodici con il gruppo dei discepoli insieme a Maria e alle altre donne - stavano radunati, come ormai abitualmente facevano, nel cenacolo. Dalla Pasqua in poi, infatti, non avevano smesso di ritrovarsi assieme per pregare, ascoltare le Scritture e vivere in fraternità. Questa tradizione apostolica non si è mai più interrotta, da allora ad oggi, e continua ad essere la forma di attendere lo Spirito.

 

Quel giorno di Pentecoste fu però decisivo per i discepoli a motivo degli eventi che accaddero. Narrano gli Atti degli Apostoli che, nel pomeriggio, «venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che se abbatte gagliardo» sulla casa dove si trovavano i discepoli; fu una sorta di terremoto che si udì in tutta Gerusalemme, tanto da richiamare molta gente per vedere cosa stesse accadendo. Apparve subito che non si trattava di un normale terremoto. C’era stata una grande scossa, ma nulla era crollato. All’interno del cenacolo, infatti, i discepoli sperimentarono un vero e proprio terremoto, che pur essendo fondamentalmente interiore, coinvolse visibilmente tutti loro e lo stesso ambiente. Fu per tutti loro – dagli apostoli, ai discepoli, alle donne – un’esperienza che cambiò profondamente la loro vita. Forse ricordarono quello che Gesù aveva detto loro nel giorno dell’Ascensione: «Voi restate in città, finché non siate rivestiti dall’alto» (Lc 24,49); e compressero le altre parole che Gesù aveva detto loro: «È meglio per voi che io me ne vada; poiché se non me ne vado, il Consolatore non verrà a voi» (Gv 16,7).

 

Quella comunità aveva bisogno della Pentecoste, ossia di un evento che sconvolgesse profondamente il cuore di ciascuno, appunto come un terremoto. In effetti, una forte energia avvolse i discepoli e una specie di fuoco li divorava dal di dentro; la paura crollò e cedette il passo al coraggio, l’indifferenza lasciò il campo alla compassione, la chiusura fu sciolta dal calore, l’egoismo fu soppiantato dall’amore. Era la prima Pentecoste; la Chiesa iniziava così il suo cammino nella storia.

 

Il terremoto interiore che aveva cambiato il cuore e la vita dei discepoli non poteva non aver riflessi anche al di fuori del cenacolo. La porta di quella casa, tenuta sbarrata per cinquanta giorni “per paura dei giudei”, finalmente si spalanca e i discepoli, non più ripiegati su sé stessi, non più concentrati sulla loro vita, non più intimoriti, iniziano a parlare alla numerosa folla sopraggiunta.

 

La lunga e dettagliata elencazione di popoli fatta dall’autore degli Atti sta a significare la presenza del mondo intero davanti a quella porta: sono ebrei venuti per la festa di Pentecoste da tutti i luoghi della diaspora, dall’Asia, dall’Africa, da Roma; assieme ci sono anche dei proseliti, ossia pagani avvicinatisi alla Legge di Mosè. Ebbene, mentre i discepoli di Gesù parlano, tutti costoro, stupiti, li intendono nella propria lingua. Si potrebbe dire che, dopo la trasformazione dei discepoli, questo è il secondo miracolo della Pentecoste.

 

Da quel giorno lo Spirito del Signore ha iniziato a superare limiti che sembravano invalicabili; sono quei limiti che legano pesantemente ogni uomo e donna al luogo, alla famiglia, al piccolo contesto in cui sono nati e vissuti. E soprattutto termina il dominio incontrastato di Babele sulla vita degli uomini. Il racconto della Torre di Babele ci mostra gli uomini protesi a costruire un’unica città che con la sua torre doveva giungere sino al cielo; è l’opera delle loro mani, è il vanto di tutti i costruttori. Ma mentre l’orgoglio li univa, subito li travolse; non si compressero più l’uno con l’altro e si dispersero su tutta la terra (cfr. Gn 11:1-9). Ciascuno era rivolto ai propri interessi, senza badare al bene comune.

 

La Pentecoste pone termine a questa Babele di uomini in lotta solo per se stessi. Lo Spirito Santo effuso nel cuore dei discepoli dà inizio ad un tempo nuovo, il tempo della comunione e della fraternità. È un tempo che non nasce dagli uomini, sebbene li coinvolga; e neppure sgorga dai loro sforzi, pur richiedendoli. È il tempo che viene dall’alto, da Dio. Dal cielo - narrano gli Atti - scesero come lingue di fuoco che si posarono sul capo di ciascuno dei presenti: era la fiamma dell’amore che brucia ogni asperità e lontananza; era la lingua del Vangelo che varca i confini stabiliti dagli uomini e tocca i loro cuori perché si commuovano.

 

Il miracolo della comunione inizia proprio a Pentecoste, dentro il cenacolo e davanti alla sua porta. È qui - tra il cenacolo e la piazza del mondo - che inizia la Chiesa: i discepoli, pieni di Spirito Santo, vincono la loro paura e iniziano a predicare.

 

Lo Spirito è venuto, e da quel giorno continua a guidare i discepoli per le vie del mondo e rinnova così “la faccia della terra” (Sal 103,30).

 

Ancora oggi tutto ciò è possibile se ascoltiamo l’esortazione, che ci rivolge l’Apostolo Paolo nella Lettera ai Galati, a camminare «secondo lo Spirito per non essere portati a soddisfare i desideri della carne» E aggiunge: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé». Di questi frutti ha bisogno il mondo intero. Questo è il nostro compito personale e istituzionale come Università; questo è anche l’augurio che rivolgo quest’oggi a tutti voi. Maria, esperta in Dio perché accolse il suo Spirito, sia vostra guida e madre.

 

Pascual Ch√°vez V., SDB

UPS, 12 Ottobre 2011

 

don Pascual Chavez

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