L'opera di evangelizzazione che siamo chiamati a compiere come credenti non esula dal contesto culturale all'interno del quale l'uomo vive e in cui la sua fede si esprime. Matrimonio e famiglia sono inseriti in un faticoso processo che impegna la Chiesa a un'attenzione vigile sui cambiamenti in atto nella società. Se lo sguardo, solo per fare un esempio, si posa sulle diverse proposte che le¬¨gislazioni di differenti paesi si apprestano a discutere, e in alcuni casi hanno già approvato, appare con evidenza che i progetti avanzati sono il frutto di un duplice movimento non privo di fraintendimenti e contraddizioni.
del 04 gennaio 2008
Una rapida trasformazione
 
«Poiché il disegno di Dio sul matrimonio e sulla fami­glia riguarda l’uomo e la donna nella concretezza della loro esistenza quotidiana in determinate situazioni sociali e culturali, la Chiesa, per compiere il suo servizio, deve ap­plicarsi a conoscere le situazioni entro le quali il matrimo­nio e la famiglia oggi si realizzano. Questa conoscenza è, dunque, un’imprescindibile esigenza dell’opera evange­lizzatrice.» L’espressione di Giovanni Paolo II in Familiaris consortio (n. 4) manifesta la sua coerente verità e profonda attualità. L’opera di evangelizzazione che siamo chiamati a compiere come credenti non esula dal contesto culturale all’interno del quale l’uomo vive e in cui la sua fede si esprime. Matrimonio e famiglia sono inseriti in un fatico­so processo che impegna la Chiesa a un’attenzione vigile sui cambiamenti in atto nella società. Se lo sguardo, solo per fare un esempio, si posa sulle diverse proposte che le­gislazioni di differenti paesi si apprestano a discutere, e in alcuni casi hanno già approvato, appare con evidenza che i progetti avanzati sono il frutto di un duplice movimento non privo di fraintendimenti e contraddizioni. Da una parte, si assiste a un profondo cambiamento culturale che da decenni si sta verificando, soprattutto in Occidente; dall’altra, si nota la volontà di imporre un modello di vita che rinneghi alla base l’identità della famiglia, così come si è sviluppata a partire dalla concezione cristiana.
Questi due aspetti sono certamente correlati l’uno all’altro e richiedono un’analisi specifica, capace di indivi­duare le istanze sottese al cambiamento. La rapida tra­sformazione culturale in atto è frutto di un lungo processo che vede sfociare la «modernità» nella «postmodernità». La prima volge ai termine portando con sé le grandi con­quiste che hanno creato progresso, insieme alle profonde contraddizioni che hanno segnato la sua fine; la seconda si affaccia piuttosto vacillante, carica del peso che le viene posto sulle spalle e incerta su quale strada intraprendere. In questa tensione tra progresso raggiunto e incertezza del futuro si colloca anche l’identità della famiglia. Inseri­ta radicalmente nel tessuto sociale, di cui forma l’istanza fondamentale e costitutiva, essa vive delle trasformazioni culturali i cui segni sono riscontrabili nelle relazioni che intercorrono tra le generazioni dei vari componenti del nucleo familiare. Una forma di pensiero piuttosto diffusa, inoltre, tende a creare una sorta di conflitto tra istanza della fede e condizione per il progresso. È bene chiarire fin da subito che un cambiamento culturale, per essere ef­ficace, non porta di per sé all’assunzione di modelli co­struiti ideologicamente da una intenzionalità che si oppo­ne alla fede. Se così fosse, sarebbe di fatto la fine del progresso culturale come è stato pensato da sempre.
Qualsiasi cultura, infatti, quando corrisponde alle de­terminazioni che la costituiscono come tale, è per defini­zione dinamicamente aperta a evolvere il modello che porta in sé, non certo a distruggerlo. Esiste nelle culture una naturale resistenza per difendere i propri contenuti che hanno permesso di raggiungere l’identità peculiare di ogni popolo e civiltà. Se si vuole, è quanto ha scoperto de Saussure in riferimento al linguaggio personale; esiste un’«inerzia collettiva» che si oppone a modificare il rap­porto tra il segno che si è creato e il suo significato origi­nario che lo ha posto in essere. Una cultura, insomma non tende al suicidio, ma alla generazione.
La stessa cosa si può affermare del vero progresso; esso è tale nella misura in cui è capace di superare le contrad­dizioni che la stessa dinamica da cui trae origine e spinta inevitabilmente crea. Per esprimere al meglio l’idea, ci si può chiedere: quando si ha vero progresso all’interno del cambiamento culturale nei confronti della famiglia? Un pensiero alla base di diverse leggi sostiene l’allargamento del suo concetto, fino a includere quelle forme che di fat­to lo contraddicono. Ebbene, questa situazione si pone al­l’opposto della nozione di cultura e di progresso cultura­le. La contraddizione dell’estensione del concetto di famiglia porta concretamente a distruggerne la forma ori­ginaria; ciò che ne consegue è l’alterazione mentre il pro­gresso, per paradossale che possa sembrare, richiede la conservazione.
La formulazione di Jacques Maritain, uno dei padri della «Carta per i diritti fondamentali della persona», è il­luminante. La cultura viene da lui definita come l’espan­sione della vita propriamente umana che consente di condurre un’esistenza eticamente conforme alle leggi della natura e in grado di permettere uno sviluppo reale delle diverse capacità presenti nell’uomo.1 Il concilio Va­ticano II, da questa stessa prospettiva, ha individuato co­me uno dei tratti fondamentali della cultura il processo di umanizzazione dell’intera vita personale e sociale tale da permettere un autentico progresso, visibile nella con­servazione di quanto e stato raggiunto per il progresso di tutto il genere umano. Un testo di Gaudìum et spes lo esprime in maniera chiara e convincente: «È proprio del­la persona umana il non poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura, coltivando cioè i beni e i valori della natura. Per­ciò, ogni qualvolta si tratta della vita umana, natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse» (Gs 53).
Queste semplici considerazioni preliminari erano ne-cessarie per non confondere i piani della discussione: al­cune correnti culturali odierne tendono a esporre le loro opinioni come se, di fatto, la proposta che avanzano riguardo la famiglia sia un’ineludibile conseguenza del processo culturale in atto. Ne consegue che quanti non volessero adeguarsi a essa sono da identificare come i fau­tori di un movimento di conservazione che si oppone alle leggi del progresso e della civiltà. Un’analisi accurata di questi ragionamenti evidenzia, invece/ in maniera netta come alla loro base vi sia una concezione relativistica e profondamente contraddittoria della natura, della vita e della persona e, di fatto, una visione distruttrice dell’iden­tità personale e sociale. L’incapacità, infatti, a presentare una verità che sia universale impedisce di proporre un modello determinante per il progresso di tutta l’umanità. Non è questa la sede per una spassionata analisi del feno­meno che mostri le ambiguità soggette a questo processo dissolutorio.
Un’attenta lettura dei fatti, già compiuta in diverse se­di, illumina alcune cause che rendono così complesso e in­sidioso il dibattito attuale intorno a questi temi: prima fra tutte un’errata concezione del rapporto dell’uomo con la natura e del conseguente cambiamento dei rapporti inter-personali. La pretesa di dominio dell’uomo sulla natura, senza rispettare le leggi insite nel processo naturale, ha portato a una modifica dei comportamenti i cui effetti, so­prattutto nel campo della sperimentazione, sono di imme­diata verifica. Giovanni Paolo II ha esplicitamente mostra­to queste contraddizioni quando ha scritto in Evangelium Vitae: «Del resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profon­damente deformato e la stessa natura/non più “mater”, sia ridotta a “materiale” aperto a tutte le manipolazioni» (n. 22). Non si possono del resto sottovalutare gli effetti pro­vocati da un equivoco movimento di liberazione della donna. Esso ha determinato, in alcuni casi, una radicale modifica dei ruoli nei rapporti interpersonali e ha fatto scoppiare l’equilibrio nell’identità dei soggetti. La donna ha rafforzato giustamente la sua personalità, indebolendo però in maniera drammatica l’uomo che sembra rinchiuso in un circuito adolescenziale dal quale difficilmente riesce a uscire. Non può neppure essere sottaciuta la causa deri­vante dall’economia di mercato. Sfruttando un accresciu­to benessere, si è via via imposto uno stile di vita che fa del corpo l’unico oggetto di attrazione. Basti pensare al fitness o al consumo di prodotti cosmetici in generale, le cui cifre potrebbero risanare bilanci di intere nazioni. Questo stato delle cose fa emergere in maniera sempre più marca­ta il senso di soddisfatto narcisismo che accomuna svaria­te generazioni.
Questa semplice e rapida semplificazione serve solo a sottolineare che certi cambiamenti non sono altro che for­me di condizionamento ideologico e come tali non posso­no essere considerate prettamente «culturali». Esse tendo­no infatti a creare situazioni effimere che cambiano con il passare veloce di una sola generazione. Questo spiega an­che la loro rapida dissoluzione; ben presto sopraggiungo­no espressioni, mode o tendenze altrettanto passeggere, creando un ulteriore circuito di debolezza che illuderà nuovamente, ritardando il processo di crescita e di matu­razione. Si tratta, insomma, di percorrere un sentiero che si sforzi di valutare le tensioni e gli aspetti anche positivi del cambiamento culturale in atto. Solo così possiamo verifica-re in che modo le spinte propulsive presenti in esso per­mettano di trovare forme che, senza alterare la famiglia ne promuovano invece il suo genuino progresso. In una paro­la, non crediamo che quando si parla di famiglia si debba aggiungere l’aggettivo «tradizionale», come sempre più spesso si sente dire. La famiglia si qualifica così, sic et simpliciter. A questa condizione di sviluppo e non di altera­zione si potrà prevedere un reale progresso culturale che coinvolge la società e la cultura.
 
 L’orizzonte del mistero
 
Una connotazione fondamentale che emerge dal pre­sente momento storico è certamente la dimensione del «mistero». L’uomo si scopre sempre più affascinato da questa categoria; la vive in prima persona, ne percepisce il valore profondo e, soprattutto, ne scopre la sua necessità per comprendere in modo coerente la sua esistenza.
La riscoperta del mistero non è aliena dalla consapevo­lezza che il panorama attuale sia caratterizzato da una certa «debolezza della ragione». Questa, se da una parte, rende manifesto il limite imposto a se stessa e alle sue pre­rogative, dall’altra, rischia di imprimere una forma di pes­simismo alla ricerca permanente della verità che le com-pete. Superare la debolezza della ragione è possibile solo a patto che essa recuperi la sua relazione con il mistero.
L’uomo risulta essere un mistero a se stesso; le grandi questioni circa la sua origine e la sua fine, la presenza del male e la vita oltre la morte restano irrisolte. A nulla serve rincorrere la via del divertimento per illudersi di avere trovato la soluzione. Un pensatore come Pascal rimprove­rava con vigore già secoli fa il fallimento di questa strada: «La sola cosa che ci consola nelle nostre miserie è il diver­timento e, tuttavia, è la più grande delle nostre miserie: perché è proprio quello che ci impedisce principalmente di pensare a noi e che ci riporta inavvertitamente alla morte. Senza il divertimento noi saremmo immersi nella noia e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più sicu­ro per venirne fuori, ma il divertimento ci piace e ci fa ar­rivare inavvertitamente alla morte».2
La strada dell’enigmaticità dell’esistenza trova risposta solamente alla luce del mistero più grande, quello di Cri­sto. Il Vaticano II, sotto questo profilo ha scritto una pagi­na stupenda quando attesta nella Gaudium et spesi «In re­altà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signo­re. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mi­stero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazio­ne». (Gs 22).
Riteniamo sia possibile costruire un pensiero che im­metta più direttamente la categoria del mistero all’interno del matrimonio. Questa dimensione favorirebbe la pre­sentazione del mistero dell’incontro dell’uomo e della donna come una chiamata a unire la propria vita in vista della realizzazione della propria identità.
La conosciuta pagina della Genesi, il primo libro della Bibbia, viene in aiuto per esplicitare il senso di questa pro­spettiva. L’autore sacro narra della tristezza di Adamo, dopo la sua creazione, per lo stato di solitudine in cui ver­sava. A nulla servì la sua superiorità sugli animali; il fatto che Dio li conducesse a lui, per sottometterli alla sua forza e ricevere da lui il nome, non toglieva ad Adamo il desi­derio di avere qualcuno con cui dialogare. Dio allora fece scendere su di lui il sonno e dal suo costato creò Èva, la madre di tutti i viventi. Al suo risveglio, Adamo scoprì qualcosa che prima gli era impossibile; finalmente davan­ti a sé aveva la donna, carne della sua carne e osso delle sue ossa (Gen 2,23). Di fronte a Èva, Adamo capisce chi è; Èva diventa la risposta al suo desiderio di non voler resta­re solo. Dio non ha creato l’uomo per la solitudine, ma per la relazione perché nella scoperta dell’altro rinvenisse il senso più profondo di sé. Il cerchio di solitudine si spezza, Adamo inizia a parlare e nel comprendere se stesso in re­lazione con Èva sa che non potrà mai dominarla, perché anch’essa è creatura uscita direttamente dalle mani di Dio. Plasticamente, il testo sacro dice che Adamo non da il nome a Èva; questo è riservato a Dio, come per Adamo. Questi potrà solo chiamarla «donna», madre di tutti i vi­venti. L’uguaglianza tra i due si fonda nell’atto creativo di Dio che in ambedue pone l’immagine e la somiglianza con sé. Èva e Adamo diventano l’uno per l’altro «dono» di Dio; per questo i due comprendono che la loro esistenza sarà composta in «una sola carne». È richiesto loro di la­sciare il padre e la madre per creare una nuova unità che appare ai loro occhi come forma di vita creata esclusiva­mente per loro. Non c’è ripetizione alcuna in ciò che dovranno essere; il progetto di Dio su ognuno di loro si tra­sforma in un progetto di salvezza che li porta a un futuro carico di senso.
I tratti fondamentali della famiglia cristiana sono qui composti in una sintesi mirabile. La dimensione del «do­no», come forma primaria dell’amore, emerge in maniera così forte da trovare nella definizione del Nuovo Testa­mento la sua sintesi più espressiva (cfr. Gv 3,16). Senza questa componente della gratuità è impossibile penetrare la logica dell’amore. Il rapporto sarebbe rinchiuso nel­l’ambito della conquista dell’uno sull’altro, con alla base una sottile forma di ricatto costruito su una sorta di im­pervio dominio destinato a distruggere la sincerità del rapporto. In relazione a quanto stiamo sostenendo è inte­ressante osservare un movimento che si sta affermando all’interno del pensiero filosofico. Si sente l’esigenza, in­fatti, di riproporre concettualmente il tema del dono come categoria fondante la manifestazione dell’essere, che crea reazioni significative nel soggetto che riceve. In questo senso, Benedetto XVI nella sua enciclica Deus Caritas est scrive pensieri facilmente condivisibili da tutti: «La sco­perta dell’amore diventa ora scoperta dell’altro, superan­do il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felici­tà, cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (n. 6).
Il tratto della vita familiare come «vocazione», inoltre, permette di inserire il mistero della reciprocità in un pia­no di salvezza che giorno dopo giorno richiede di essere conosciuto e attuato per permettere un’attiva partecipa­zione alla sua realizzazione. La vocazione non è un tratto secondario nella costruzione della famiglia; al contrario, essa caratterizza a pieno il cammino che si deve intra­prendere per individuare la propria missione. Il rischio di rimanere legati a un «ruolo» che la funzione impone non è peregrino in una società come la nostra. Terminato il tempo del ruolo, i soggetti sembrano cambiare volto e vanno alla ricerca di altre condizioni che li facciano senti­re soddisfatti per un altro breve spazio di tempo. La sco­perta della vita familiare come vocazione, al contrario, consente il passaggio dalla passività del ruolo alla dina­mica attiva della «missione». Nella reciprocità del riman­do, vocazione e missione indicano l’origine e il fine entro cui l’esistenza prende forma e contenuto. Il mistero della propria chiamata a divenire sposi e genitori, trova rispo­sta convincente se si trasforma in una missione con lo sco­po di realizzare un piano di salvezza.
A partire da questa dimensione, è possibile scoprire un ulteriore insegnamento che proviene dalla lettura della lettera agli Efesini. Il famoso testo di Paolo riguardante la vita familiare termina con l’espressione: «Questo mistero è grande» (E/ 5,32). La grandezza del mistero non umilia la ragione, ma le permette di percorrere sentieri che con­ducono a una visione più globale dell’esistenza. Sappia­mo che per l’apostolo il mistero può essere compreso in quanto rivelato da Dio e fatto conoscere per mezzo del Fi­glio (cfr. Rm 16,25-26). Ciò che prima rimaneva nascosto, ora si manifesta in tutta la sua profondità. Il latino ha vo­luto tradurre il termine greco di mysterion con sacramen-tum. Già il valore semantico orienta in modo limpido la nostra riflessione. La famiglia è certamente un «mistero» di amore, ma essa si pone come «sacramento» che per­mette di cogliere un amore più grande e profondo. È tipi­co del segno sacramentale rimandare oltre la visibilità della forma per cogliere il significato in essa contenuto. Il patto d’amore che i due giovani si scambiano, unitamente al segno dell’anello nuziale, sono espressione di una do­nazione l’uno all’altro che riguarda tutta la vita; esso prende come modello l’amore trinitario che unisce Cristo con la sua Chiesa. La Trinità non è in questo caso solo un’icona da contemplare, ma paradigma su cui coniugare l’intera esistenza sponsale. Qui prende forma non solo la misura dell’amore che viene versato nell’altro, ma la sua stessa fecondità. La circolante tipica nel mistero della Tri­nità, per cui il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo donano se stessi uno all’altro, attesta che tutto viene donato «fino al­la fine». Questa espressione di amore pieno e duraturo che consiste solamente nel dono di sé diventa fecondo e si pone come paradigma su cui coniugare una vera forma di amore personale, libero e autonomo.
È significativa, in questo contesto, la riflessione di san Bonaventura il quale, parlando della sp ir azione dello Spirito Santo al Padre e al Figlio, attesta che l’amore del Padre verso il Figlio è totale come pure quello del Figlio verso il Padre, ma «insieme» non hanno ancora dato inte­ramente se stessi. Nell’atto in cui questo avviene lo Spiri­to è testimonianza personale che tutto è stato dato come offerta di amore reciproco e unitario.
In questo orizzonte è possibile compiere un passo ulte­riore e capire il seguito dell’insegnamento dell’apostolo: «Donare se stesso per lei» (Ef 5,25) è il principio fonda­mentale che regola la vita della famiglia; qui, infatti, si percepisce il programma di amore che è posto dinanzi al­la coppia come vocazione specifica nella Chiesa. La comu­nità cristiana vede nel loro amore il segno che richiama a un amore più grande, quello di Dio, che lo permette e ren­de possibile perché ne è il fondamento. Dinanzi a questo segno, comunque, anche il non credente è chiamato a in­terrogarsi per comprendere dove trova fondamento que­sta forma di amore che lega indissolubilmente e nella re­ciprocità l’uomo e la donna con un rapporto fatto di relazionalità piena e donazione totale, senza nulla chie­dere in cambio. L’impronta del Dio trino non solo nella singola creatura, ma anche nella relazionalità della cop­pia, consente di verificare l’impegno che i due hanno as­sunto nell’esprimere la loro vita come donazione recipro­ca, piena, totale, fino al dono ultimo di sé. Ciò rende visibile nella fecondità il frutto evidente del loro amore che genera una nuova vita. Nonostante possa sembrare paradossale, soprattutto in un contesto culturale come quello attuale che vive la libertà come una prerogativa che rasenta l’arbitrarietà, è in questa forma della famiglia che si trova il fondamento della vera libertà. Essa, infatti, per­mette a ognuno di sperimentare se stesso libero, ma solo nel momento in cui ama. È intorno al concetto di libertà, quindi, che si condensano le incongruenze più forti; esse toccano non solo l’identità della famiglia, ma la stessa re­altà personale e sociale. Lo attestava sempre con forza Giovanni Paolo II quando scriveva: «Alla radice di questi fenomeni negativi sta spesso una corruzione dell’idea e dell’esperienza della libertà, concepita non come la capa­cità di realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimo­nio e la famiglia, ma come autonoma forma di affermazio­ne, non di rado contro gli altri, per il proprio egoistico interesse» (Familiaris consortio, n. 6). In questo senso, è im­portante che oggi si sviluppi un pensiero in grado di fon­dare e argomentare l’esercizio della libertà all’interno del­la famiglia a partire dall’amore.
Una particolarità del testo paolino permette di mostrare un ulteriore tratto della concezione dell’amore coniugale che è profezia nell’attuale clima socio-culturale.
Mentre al marito viene chiesto di amare la propria mo­glie come se stesso, alla donna l’apostolo chiede di «ri­spettare» il proprio marito, A prima vista, potrebbe sem­brare un’umiliazione della sposa, mentre nulla è più distante dal pensiero di Paolo in una simile interpretazio-ne. «Rispettare» ha una valenza semantica determinante; significa volgere lo sguardo a chi mi sta vicino, non volta­re le spalle e guardare nell’intimo. Alla sposa è chiesto di saper guardare in profondità, perché possa compiere sem­pre ciò che è il bene del proprio sposo. In altre parole, si è dinanzi a un’ulteriore esplicitazione dell’amore; esso non è solo donazione piena, come abbiamo detto ma anche ri­cerca sincera di tutto ciò che permette il bene e la realizza­zione della persona amata. È il richiamo all’attenzione pe­renne che si ha verso la persona amata, perché mai sia sottratta alla sfera di un progresso reale per la sua vita e, quindi, nella realizzazione della stessa vita familiare.
Ne scaturisce un ultimo elemento che ci fa considerare l’amore coniugale come «vita» che non conosce tramonto. La vita è il vangelo che viene testimoniato dalla famiglia. È questo, alla fine, l’annuncio che la Chiesa compie in un contesto spesso segnato da una cultura di morte: «La vita si è fatta visibile e noi ne siamo testimoni» (1 Gv 1,2). Il mistero del Figlio di Dio che nasce da Maria, la sposa di Giuseppe, permette di cogliere il senso profondo della trasmissione della vita che ha il suo principio e la sua ori­gine in Dio stesso. In un momento culturale come quello che stiamo attraversando dove l’uomo si illude di essere padrone della vita, di poterla dare e togliere a suo piaci­mento e vive dunque la tentazione dell’onnipotenza, i cri­stiani testimoniano che la vita ha un carattere inviolabile e sacro, perché dono esclusivo di Dio creatore. La vita non è un esperimento da laboratorio, ma un’esperienza di tra­scendenza dove l’amore permette di percepire il mistero della partecipazione all’atto creativo dell’unico Padre. In questo senso, la fecondità dell’amore cristiano sa assume­re in sé anche la sofferenza per la rinuncia a poter procrea­re, quando questa esperienza è segnata dal limite della natura. Questa fecondità ferita, infatti, può esprimersi in una pluralità di forme che sono reali espressioni di mater­nità e paternità responsabile. L’esperienza del proprio li­mite diventa forza che si manifesta in forme alternative ma non succedanee di donazione rese possibili dalla po­vertà e dalla solitudine che purtroppo l’egoismo del mon­do spesso impone. Questa fecondità prende il volto di una procreazione diversa, ma non per questo meno amorosa, e si trasforma in strumento di gratuità e salvezza per tanti che non avrebbero possibilità alcuna di sperimentare l’amore di una famiglia. Una procreazione contro ogni possibilità inscritta nel proprio corpo difficilmente può essere riconosciuta come amore; essa, al contrario, eviden­zia un egoismo latente che non accetta il proprio limite e impone la propria volontà come criterio di possesso e giu­dizio etico. Rallentare e posticipare i ritmi biologici della maternità, inoltre, per soddisfare prima le proprie aspira­zioni professionali non può essere un criterio valido per imporre al legislatore di farsi promotore e garante di leggi che sostituiscono la natura e le sue esigenze con un asetti­co ambulatorio.
Vera sposa e vera madre, Maria da al mondo l’autore stesso della vita; pienamente figlio, Gesù insegna ai suoi che l’unico necessario nella vita è fissare lo sguardo sulla volontà del Padre che è nei cieli (Lc 8,21). Una circolarità impressionante che non conosce contraddizione; mentre Maria e Giuseppe insegnano a Gesù a essere figlio di que­sto mondo, lui insegna loro come essere figli di Dio. Tro­viamo nella casa di Nazareth l’archetipo su cui coniugare la vita di una vera famiglia. Per dirla con le parole di Pao­lo VI: «La casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara a osservare, ad ascoltare, a meditare, a pe­netrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile, e bella. Forse, anche impariamo, quasi senza accor-gercene, a imitare. Qui tutto ha una voce, tutto un signifi­cato... Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazareth ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile».3
Dimora in questa casa di Nazareth, insomma, il «silen­zio» che è forma privilegiata della contemplazione del mi­stero. Esso è il grande segno per il nostro tempo che men­tre moltiplica le parole e il chiasso si sente tuttavia attratto dal silenzio e ne percepisce la necessità e il bisogno.
Lo stupore dinnanzi a esso è fonte e sorgente di forme sempre nuove di conoscenza attraverso cui mediare il contenuto della fede. Nonostante diverse tendenze con­trarie, il mondo attende la testimonianza della famiglia cristiana. In qualche modo, la richiede perché vuole concretizzare il modello di un amore granitico, fondato sulla roccia della fede, che non conosce difficoltà da non essere insormontabili. Al banchetto per le nozze di Cana, Gesù diede inizio al primo dei suoi segni; la reazione dei suoi discepoli fu quella di credere in lui (Gv 2,11). «Credere in» è una costruzione sintattica particolare, con la quale si in­tende mostrare il rapporto dinamico nella crescita di fede mediante un rapporto interpersonale con il Signore. Que­sto atto di abbandono in lui è segnato dalla fiducia e dalla certezza della sua presenza in mezzo a noi. La responsabi­lità della famiglia cristiana/ si caratterizza pertanto per la sua capacità a saper costruire un modello nuovo di vita. «Famiglia diventa ciò che sei» è l’impegno che i cattolici si assumono in questo frangente storico. Il mistero della fa­miglia che ancora oggi affascina e attrae richiede di essere contemplato con meraviglia e stupore. Nuove strade da percorrere richiedono uno sforzo particolare di riflessione e di impegno culturale. I cattolici, mentre si attivano per proporre nuove vie nel futuro, non tralasciano di impe­gnarsi nel presente perché quanto ha segnato progresso e sviluppo nella società possa essere conservato senza alte­razione. L’identità della famiglia cristiana, sarà tanto più efficace quanto più si manterrà viva la memoria di un passato ricco di testimonianza di famiglie sante che hanno ancorato la loro vita nella fede in una Parola che permane viva nel corso dei secoli (cfr. Eb 4,12).
mons. Rino Fisichella
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