Se il cinema costituisce, attraverso la verosimiglianza delle proprie rappresentazioni, uno specchio dei tempi, una galleria di quadri della società in divenire, è parimenti vero che l'immagine-famiglia nel cinema si presenta come un organismo tanto vitale quanto cangiante e mutevole a seconda della mano che la ritrae e la anima...
del 26 settembre 2005
Se il cinema costituisce, attraverso la verosimiglianza delle proprie rappresentazioni, uno specchio dei tempi, una galleria di quadri della società in divenire, è parimenti vero che l’immagine-famiglia nel cinema si presenta come un organismo tanto vitale quanto cangiante e mutevole a seconda della mano che la ritrae e la anima.
Nel corso degli ultimi decenni le idealizzazioni familiari rassicuranti di Sette spose per sette fratelli e di Tutti insieme appassionatamente si sono avvicendate con le angosce sociali di Rocco e i suoi fratelli e con le inquietudini di coppia de La notte e di Scene da un matrimonio. Più recentemente, molti autori hanno posto la famiglia al centro della propria indagine in maniera più analitica e svincolata da ideologie personali, dal Redford di Gente comune allo Scola de La famiglia. Ma è proprio  negli anni Novanta che registriamo, rispetto al passato, un ulteriore movimento nella descrizione dell’oggetto famiglia; si moltiplicano i riferimenti religiosi e politici, si pone attenzione maggiore ai ruoli «marginali» un tempo nel nucleo familiare, il crudo realismo di una volta si stempera sovente nella caricatura o nell’affresco del tessuto sociale.
Lo sguardo di tanto cinema si sofferma sulle minoranze silenziose, come l’algerino Said che abita l’hinterland milanese nell’Articolo 2 di Maurizio Zaccaro. La cinepresa qui evita la descrizione folcloristica e il pietismo di periferia per limitarsi ad una rappresentazione dell’umanità sensibile di persone, di impacci burocratici, di moti impercettibili dell’animo, della inconciliabilità di culture e religioni differenti. La marginalità di Said si dissolve quando egli stesso assurge a protagonista della sua storia e del destino di altre vite a lui legate – le due mogli e i sei figli – in modo insolito e drammatico. La diversità del musulmano Said è tale soltanto nel momento in cui si innesta in un tessuto sociale diverso, né più giusto né più degno: come avviene per Saverio, il giovane psicotico di Senza pelle. Il nucleo composto da Gina e Riccardo e descritto con semplicità da Alessandro D’Alatri, è una normale famiglia di impiegati come tante, la cui affettuosa normalità è bruscamente interrotta dall’irruzione di Saverio e del suo innamoramento malato.
È allora, quando Gina e Riccardo in un susseguirsi di traversie e sospetti, accolgono momentaneamente Saverio, che la famiglia vede modificarsi la sua struttura originaria, si apre ad una anomala quanto impossibile convivenza psico-affettiva, in cui amore, pietà e follia sono elementi indisgiungibili. Così la «normalità», per essere riprodotta necessita di un sacrificio, a carico anche stavolta del più debole. Stavolta, ma non sempre. Prendiamo il terzetto de Il banchetto di nozze firmato da Ang Lee: lei, lui, l’altro. L’epilogo vede un «ménage a trois» con tanto di neonato giunto a sorpresa dall’unico amplesso tra i due malcapitati sposi, ma con la permanenza dello sposo e del suo compagno; una coppia gay dai sentimenti inconfessabili se non a prezzo di un sacrificio ritenuto inaccettabile. La tradizione familiare cinese cozza in questo caso contro il pragmatismo americano del «matrimonio di prova», che qui sottende però una sbrigativa sistemazione per i tre giovani tenuti insieme da un paradosso: una volta conosciuto il risvolto omosessuale della vicenda, l’unica soluzione è la convivenza a tre. Un lieto fine? Difficile dirlo, a meno di non spazzare via stereotipi e pregiudizi, sovrabbondanti in modo ancor più caricaturale nel film The snapper. A fare scandalo, in questa circostanza senza altre complicazioni, è sempre una gravidanza inattesa. A differenza del film di Ang Lee, nel cui finale i padri sono due, qui non ve ne è nessuno; perché la ventenne Sharon è rimasta incinta nell’improbabile quanto ebbro incontro con l’anziano vicino di casa, padre della sua migliore amica. Un tale spunto narrativo agevola il regista Stephen Frears, nel riadattare il romanzo omonimo di Roddy Doyle, a delineare con sagace umorismo lo spaccato della famiglia di Sharon; il padre imbianchino Dessie, la madre casalinga Kay, i cinque ragazzi e un cane. Sharon è determinata nel voler tenere e allevare il bambino da sola; invece commuovono e talora irritano le premure dei parenti a scegliere per la ragazza, a presentarle scenari indesiderati, a barcamenarsi tra le arguzie dei maldicenti. Le periferie di Dublino, la quotidianità di pub e supermercati sono setacciate dal regista con rigore, con puntuale attenzione a cogliere spunti umoristici e caricaturali, mettendo infine alla berlina tanti luoghi comuni del perbenismo borghese e il vano inseguimento di una dignità di superficie.
Una brillantezza meno raffinata ma egualmente efficace permea le famiglie raccontate da  Robert De Niro in Bronx; quella del piccolo protagonista Calogero è una famiglia perbene, umile, onesta e sufficientemente salda nei principi morali. L’altra è la «Famiglia» adottiva del piccolo Calogero, i malavitosi siculo-americani del quartiere del bar all’angolo; pochi scrupoli e molto fascino di potenza agli occhi ingenui di un ragazzino di modesta estrazione. Due famiglie che Calogero nel crescere tenta invano di conciliare negli insegnamenti inevitabilmente opposti. Un solo dato accomuna entrambe: la schiettezza della comunicazione, il non mascheramento degli intenti, che rivela una volta ancora il volto ingenuo e anacronistico dell’America.
Bronx muove i suoi passi dai primi anni Sessanta, dando ai protagonisti, epigoni patetici del mitico Al Capone, un sapore di giocosità nostalgica e autoironica, e le stesse famiglie che abitano le strade ruggenti del Bronx sono venate da una satira sincera, come fossero calate in un clima di consapevole inattendibilità. Al contrario di quanto esprimono con il loro drammatico itinerario attraverso il tempo Jahzen, Fugui e i loro due figli, protagonisti di Vivere! di Zhang Yimou. La Lunga Marcia, il regime Maoista, la Rivoluzione Culturale sono alcuni fra i principali eventi storici che la famiglia descritta da Yimou fronteggia, assistendo alle persecuzioni dei vicini e resistendo all’incalzante dogmatismo ideologico. La Storia non ammette repliche e non risparmia i vinti, ma questa famigliola cinese rappresenta la volontà di non cedere alle facili omologazioni, di affermare il diritto di esistere nonostante tutto. Il regista, com’è nel suo stile, lascia spazio adeguato all’emergere dei sentimenti personali, alla forza centripeta esercitata da Jahezn e Fugui; uniti con determinazione, a dispetto delle contraddizioni di una società in perenne, inquieto mutamento.
Anche i coniugi del film di James Ivory Mr. and Mrs. Bridge sono uniti; ma la macchina da presa di Ivory è impietosamente innovativa nel focalizzare conflitti vecchi e nuovi di questa anziana coppia, nella quale talvolta sembrano prevalenti le dissonanze rispetto ai motivi di comunione.
Il cinema sino a qualche anno fa non amava le storie della terza età; In viaggio verso Bountiful, Le Balene d’agosto, Sul lago dorato hanno rappresentato un modo differente di parlare dell’anziano, mostrandone gli aspetti sia teneri che sgradevoli caratterialmente.
In Mr. and Mrs. Bridge questa disamina particolareggiata si ripropone irta di insofferenze, preoccupazioni senili, bisticci irrilevanti e, soprattutto, angosce di solitudine.
Un versante meno intimo, minimalista e minuzioso, ma non poco sentito e socialmente denso, si avverte in Piovono pietre del britannico Kenneth Loach. L’occhio del regista si posa una volta di più su un’Inghilterra urbana fredda e provinciale, sulla plumbea realtà dei disoccupati e dell’arte di arrangiarsi. Tommy Bob e la famiglia di questi sono l’emblema di una classe proletaria in debito d’ossigeno, alla continua ricerca di espedienti e calata in una insicurezza senza speranza.
Il risvolto comico, presente nella contraddizione tra indigenza cronica e fedeltà alla tradizione della propria religione, non nasconde ma anzi evidenzia il malessere sociale diffuso che si riflette nelle dinamiche familiari, per i quali è addirittura ammissibile che l’acquisto di un abitino da prima comunione metta a repentaglio la vita di un intero nucleo parentale.
E se a Loach preme il sottofondo sociale della vicenda, allo Jim Sheridan autore de Nel nome del padre stanno a cuore maggiormente le atrocità politiche e l’ingiustizia di regime. È significativo che nel film di Sheridan il figlio Gerry rappresenti la necessità rivoluzionaria di emancipazione pacifica, e il padre Giuseppe la rassegnata dipendenza dal regime costituito, dal potere di sempre. Lo svagato e incauto Gerry, «pecora nera» della famiglia, finisce così per trascinare involontariamente il parentado nel  pieno ciclone della «questione irlandese» culminata nel violento braccio di ferro tra i terroristi dell’IRA e il governo di Londra. Tanto più drammatica e strumentale diviene la persecuzione della famiglia di Gerry, tanto più si avvicinano i suoi membri, e cresce la solidarietà che è ricerca di perduti affetti e di smarrita giustizia. Come nelle tragedie di grande tradizione, la famiglia si unisce dinanzi alla sofferenza estrema, si ritrova nei momenti cruciali. È l’emozione, il forte sentimento che rende autentica e non banale l’immagine della famiglia. Nel cinema, oggi più di ieri.
 
(da: Immagine famiglia. L’occhio della cinepresa tra le pareti domestiche, CGS 1994)
 
 
FILMOGRAFIA CONSIGLIATA per CICLI di FILM con DIBATTITO
 
A proposito di Henry di Mike Nichols (USA, 1991)
(Un) angelo alla mia tavola di Jane Campion (Nuova Zelanda, 1990)
Articolo due di Maurizio Zaccaro (I, 1994)
Il banchetto di nozze di Ang Lee (Cina, 1993)
Bronx di Roberto De Niro (USA, 1992)
Caro papà di Dino Risi (I/F/Can, 1979)
Casa Howard di James Ivory (GB, 1991)
Che ora è di Ettore Scola (I, 1989)
Colpire al cuore di Gianni Amelio (I, 1982)
Con le migliori intenzioni di Bille August (Sv./Dan., 1992)
Daddy Nostalgie di Bertrand Tavernier (F, 1992)
(La) famiglia di Ettore Scola (I, 1988)
Family life di Kenneth Loach (GB, 1971)
Fanny e Alexander di Ingmar Bergman (Sv./F/Ger., 1983)
Figlio mio infinitamente caro di Valentino Orsini (I, 1985)
Film Blu di Krzysztof Kieslowski (F, 1993)
(Un) fiore nel deserto di Eugene Corr (USA, 1986)
(La) fuga di Emma di Soeren Kragh-Jacobsen (Dan., 1988)
(La) guerra dei Roses di Danny De Vito (USA, 1990)
Ju Dou di Zhang Yimou (Cina, 1990)
Kramer contro Kramer di Robert Benton (USA, 1980)
Il ladro di bambini di Gianni Amelio (I, 1992)
Mariti e mogli di Woody Allen (USA, 1992)
Mignon è partita di Francesca Archibugi (I, 1988)
(Il) mio piccolo genio di Jodie Foster (USA, 1991)
(Il) mio piede sinistro di Jim Sheridan (Irl., 1989)
Mr. and Mrs. Bridge di James Ivory (GB, 1990)
Music Box. Prova d’accusa di Costantin Costa Gravas (USA, 1989)
Nel nome del padre di Jim Sheridan (Irl., 1994)
(L’)olio di Lorenzo di George Miller (USA, 1993)
Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani (I, 1977)
Papà in viaggio d’affari di Emir Kusturica (Yu., 1985)
Piovono pietre di Kenneth Loach (GB, 1993)
Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (Svezia,  1973)
Senza pelle di Alessandro D’Alatri (I, 1994)
Settembre di Woody Allen (USA, 1987)
Sinfonia d’autunno di Ingmar Bergman (RFT, 1978)
(The) Snapper di Stephen Frears (GB, 1993)
Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli (I, 1986)
Stanno tutti bene di Giuseppe Tornatore (I, 1990)
(La) storia di Qiu Ju di Zhang Yimonu (Cina, 1992)
(La) storia di ragazzi e di ragazze di Pupi Avati (I, 1989)
Storie d’amore e infedeltà di Paul Mazursky (USA, 1990)
Urga. Territorio d’amore di Nikita Michalkov (F/URSS, 1991)
Vivere! di Zahgn Yimou (Cina, 1994)
Voci lontane... sempre presenti di Terence Davies (GB, 1988)
 
 
Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile - Roma.
Stefano Todini
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