Fatima, c'è un 'quarto segreto' da rivelare di Vittorio MESSORI

Una parte dei messaggi sarebbe stata nascosta per ragioni diplomatiche Nel suo nuovo libro Antonio Socci rettifica le accuse di dietrologia che lui stesso aveva mosso in passato: solo parziali i testi svelati

Fatima, c'è un 'quarto segreto' da rivelare di Vittorio MESSORI

da Attualità

del 21 novembre 2006

Quando suor Lucia, la veggente di Fatima, morì nel monastero di Coimbra, il 13 febbraio 2005, la sua cella fu subito sigillata. La religiosa aveva scritto molto e si sapeva che teneva un diario che aveva mostrato solo al suo confessore. Meglio, dunque, chiudere quella porta ed evitare dispersione di documenti prima di un sopralluogo delle autorità ecclesiali.

La pubblicazione della notizia non piacque ad Antonio Socci, che accusò di «dietrologia», di ricerca di scoop inesistenti, coloro che la pubblicarono, convinto che tutto ciò che c'era da sapere su Fatima fosse ormai di dominio pubblico. Per lui, non c'era più alcun «segreto», dopo la dichiarazione del cardinal Sodano, il 13 maggio del 2000, e dopo la pubblicazione del testo manoscritto, con un commento del prefetto dell'ex Sant'Uffizio, il 26 giugno dello stesso anno. Ma, poi, il giornalista e scrittore toscano ha cambiato parere e pubblica ora un libro, in uscita domani («Il quarto segreto di Fatima», Rizzoli, pp. 252, e 17), che inizia ritrattando, con indubbia onestà, la convinzione che ogni parola pronunciata dalla Apparsa nel 1917 sia stata ormai rivelata dalla Chiesa. Dopo avere respinto la pubblicistica, soprattutto di parte lefebvriana o sedevacantista, che sospettava il Vaticano di non avere svelato i veri contenuti del messaggio, Socci ha deciso di esaminare le ragioni di chi diffidava. E ha finito per convincersi che qualcosa di molto importante ci è stato celato.

 

In sintesi, la sua tesi è che la parte rivelata del segreto (quella del «vescovo vestito di bianco» che cade ucciso «da fucilate e frecce») sia autentica, ma costituisca solo un frammento. Nella sua interezza, il messaggio conterrebbe parole terribili sulla crisi della fede, sul tradimento di parte della gerarchia, sugli eventi catastrofici che attenderebbero la Chiesa e, con essa, l'umanità intera. Giovanni XXIII e Paolo VI — sia per scetticismo, sia per non fornire argomenti ai critici del Concilio — avrebbero impedito la pubblicazione del testo. Giovanni Paolo II e il suo braccio destro teologico, Ratzinger, sarebbero stati bloccati dal rifiuto dei predecessori e dalla indisponibilità di gran parte dell'episcopato alla «consacrazione» della Russia chiesta dalla Vergine. Così, nel 2000 si sarebbe fatto ricorso a un escamotage: rivelare una sola parte del testo, facendo credere per giunta che si riferiva al passato. Gli altri contenuti sarebbero stati svelati «non esplicitamente bensì implicitamente», in omelie, discorsi, documenti di Papa Wojtyla e del prefetto della Fede. Che chi poteva intendere, intendesse.

Che dire di simili ipotesi? Per aiutare a capire, vorremmo dare una testimonianza che va al di là della dimensione personale, ma coinvolge in pieno inchieste come questa di Socci. Succede infatti che, da molti anni, innumerevoli pubblicazioni, in molte lingue, si dedicano all'esegesi delle parole su Fatima pronunciate nel 1984 da Joseph Ratzinger (che, a mia precisa domanda, disse di avere letto il terzo segreto) e da Giovanni Paolo II dieci anni dopo. In entrambi i casi, quelle parole sono state pronunciate nelle interviste raccolte e pubblicate dal cronista che qui scrive. Anche Antonio Socci dà largo spazio all'analisi, spinta sino alle minuzie, di «Rapporto sulla fede» e di «Varcare la soglia della Speranza». Giunge ad esempio sino a trarre conseguenze importanti da un «dunque» che appariva nella sintesi dell'intervista a Ratzinger che anticipai sul mensile «Jesus» e che non apparve nel libro che uscì alcuni mesi dopo. In altre occasioni, disquisisce sulle possibili letture di un aggettivo o sulla intonazione di una frase.

Ma anche i riferimenti a Fatima sparsi nel colloquio con Giovanni Paolo II sono scrutati con la lente, per individuarvi eventuali significati sottaciuti, quasi in codice. Come dicevo, una simile esegesi di quei libri è stata (ed è tuttora) praticata da molti, nel mondo intero, talvolta con un accanimento maniacale. Colgo, dunque, l'occasione permettere in guardia da simili analisi, che non sono giustificate dalla genesi di quelle interviste, soprattutto quella con il futuro Benedetto XVI.

«Rapporto sulla fede» nacque da oltre venti ore di registrazione. Mi fu data, poi, ogni libertà redazionale; con il solo, ovvio impegno, di sottoporre al cardinale il manoscritto che avrei ricavato dal lunghissimo colloquio. Il testo fu approvato senza quasi ritocchi, così come erano stati approvati dallo stesso interessato i preannunci su «Jesus». Il prefetto della Fede volle presentare di persona il libro in una tumultuosa conferenza stampa e volle, bontà sua, ringraziarmi pubblicamente per la «fedeltà» con cui avevo riferito il suo pensiero. Una «fedeltà», però, che non mi aveva impedito di impastare con energia il voluminoso materiale, dandogli forma in uno schema, anche con aggiunte e ritocchi tratti da pubblicazioni e documenti precedenti del cardinale. Un editing in profondità, dunque, il cui risultato peraltro soddisfece il mio interlocutore, che in quelle pagine disse sempre, in ogni sede, di riconoscersi.

Qualcosa del genere, anche se in modo più discreto, avvenne per il libro con Giovanni Paolo II. Il quale rispose alle mie 35 domande scrivendo a mano, in polacco. Il manoscritto mi fu consegnato in una traduzione italiana con tali limiti che mi occorse un paio di mesi per dargli una forma passabile, talvolta chiedendo lumi all'autore, avendo come intermediario il portavoce Navarro Valls. Pure qui, dunque, ha avuto il suo posto (e non solo sulla forma letteraria) un editing robusto, anche se il risultato finale — ancora una volta — fu approvato senza riserve, al punto che Papa Wojtyla a lungo regalò copie del libro ai suoi ospiti e lo citò con convinzione in sue pubblicazioni successive.

Che Socci, dunque, e tutti gli altri indagatori dei rapporti tra gerarchia e Fatima ne siano finalmente consapevoli: nelle loro ricostruzioni, molte delle fonti — a cominciare dalle due, giudicate da essi essenziali, di Ratzinger e di Wojtyla — appartengono a un genere letterario dove l'esegesi letteralista non è ammissibile. E dove un sostantivo, un aggettivo, un avverbio risalgono spesso a scelte del redattore e non del protagonista, anche se questo ha poi approvato. Improbabile, dunque, magari ingannevole — seppure in ottima fede — la certosina fatica di Socci? Deliramenta, i suoi, come appaiono anche a lui certi estremismi dei «fatimiti»? No, non ci pare che sia così. Pur con forzature, o ingenuità, derivate dall'affastellamento delle ipotesi più diverse, queste pagine possono rendere pensosi. E vanno comprese — almeno in una prospettiva di fede — le loro intenzioni: il desiderio (si direbbe, talvolta, l'affanno) di sapere quali siano davvero gli avvertimenti che il cielo avrebbe voluto farci giungere. E la preoccupazione di risparmiare alla Chiesa conseguenze devastanti, qualora la «censura» ipotizzata del testo consegnato da suor Lucia fosse impugnata da avversari malevoli.

 

 

Vittorio Messori

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