Fede

...un uomo assennato accetta o rifiuta qualsiasi affermazione non perché voglia o non voglia, ma perché gli sembra fondata o infondata. Se si sbaglia nel giudicare della sua fondatezza, ciò non significa che egli sia cattivo, ma solo che è poco perspicace.

Fede

da L'autore

del 02 luglio 2009

In questo capitolo devo parlare di ciò che i cristiani chiamano fede. Grosso modo, questa parola è usata dai cristiani in due sensi o a due livelli. Vediamoli per ordine. Nel primo senso, essa significa semplicemente “credere”: accettare, ritenere vere le dottrine del cristianesimo. Questo è abbastanza semplice. Ma ciò che suscita perplessità – almeno, la suscitava in me -  è che la fede, in questo senso, sia per i cristiani una virtù. Come può essere una virtù, mi chiedevo: cosa c’è di morale o immorale nel credere o non credere a una serie di affermazioni? Ovviamente, dicevo, un uomo assennato accetta o rifiuta qualsiasi affermazione non perché voglia o non voglia, ma perché gli sembra fondata o infondata. Se si sbaglia nel giudicare della sua fondatezza, ciò non significa che egli sia cattivo, ma solo che è poco perspicace. E se ritiene l’affermazione infondata, ma cerca tuttavia di costringersi a crederla, agisce stupidamente e basta.

Ebbene, io la penso ancora così. Ma ciò che allora non capivo – e tanti continuano a non capire – è questo. Io partivo dal presupposto che la mente umana, quando ha accettato una cosa come vera, continuerà automaticamente a ritenerla tale finché non si presenti una ragione seria di riconsiderarla. Di fatto, partivo dal presupposto che la mente umana sia completamente governata dalla ragione. Ma non è così. Per esempio: la mia ragione è convintissima, fondatamente, che l’anestesia non mi soffocherà, e che un chirurgo esperto comincerà a operare solo quando avrò perso conoscenza. Ma ciò non toglie che quando mi stendono sul tavolo operatorio e mi applicano sulla faccia quella orribile maschera, in me si scatena un panico assolutamente infantile. Penso che morirò asfissiato, e ho paura che comincino a tagliarmi mentre sono ancora sveglio. In altre parole, perdo la mia fede nell’anestesia. Non è la ragione a distruggere la mia fede: al contrario, la mia fede si basa sulla ragione. E’ l’immaginazione, sono le emozioni. La battaglia è tra fede e ragione da un lato, ed emozioni e immaginazione dall’altro.

 

Se ci riflettete troverete una quantità di esempi del genere. Un uomo sa per certo che una graziosa ragazza di sua conoscenza è bugiarda e incapace di mantenere un segreto, e che non c’è da fidarsene; ma quando si trova con lei la sua mente cessa di aver fede in quella certezza, ed egli comincia a pensare: “Forse stavolta si comporterà diversamente”; per cui ci ricasca, e racconta alla ragazza qualcosa che non avrebbe dovuto raccontarle. I sensi e le emozioni hanno distrutto in lui la fede nella verità che gli è nota con certezza. Oppure, prendiamo un ragazzo che impara a nuotare. La sua ragione sa perfettamente che un corpo umano privo di sostegno non affonda necessariamente nell’acqua: ha visto decine di persone stare a galla e nuotare. Ma la questione è se sarà capace di continuare a crederlo quando l’istruttore ritirerà la mano e lo lascerà senza sostegno nell’acqua – o se a un tratto cesserà di crederci e avrà paura, andando a fondo.

 

La stessa cosa avviene con il cristianesimo. Io non chiedo a nessuno di accettare il cristianesimo, se i suoi migliori ragionamenti gli dicono che il peso delle prove è contro di esso. Non è a questo punto che interviene la fede. Ma supponiamo che un uomo concluda, a lume di ragione, che le prove sono favorevoli al cristianesimo: ebbene, posso dire a costui che cosa gli accadrà nelle prossime settimane. Verrà un momento in cui, avendo ricevuto cattive notizie, o perché si trova nei guai, o perché vive in mezzo a gente che non crede, le sue emozioni insorgeranno, andando all’assalto della sua fede. Oppure gli capiterà di desiderare una donna, o di voler dire una bugia, o di sentirsi molto soddisfatto di sé, o di intravedere la possibilità di fare un po’ di soldi in modo non del tutto corretto; insomma, ci saranno dei momenti in cui gli farebbe molto comodo che il cristianesimo non fosse vero. E di nuovo desideri e voglie andranno all’assalto. Non parlo di circostanze in cui si affacciano nuove e serie ragioni contrarie al cristianesimo: queste vanno affrontate, ed è un’altra questione. Parlo di momenti in cui la contrarietà nasce da umori e stati d’animo.

 

Ebbene, la fede, nel senso in cui uso qui questa parola, è l’arte di tener salde, nonostante i cambiamenti d’umore, le cose che la nostra ragione ha accettato. Gli umori, infatti, cambiano, quale che sia l’opinione accolta dalla ragione. Lo so per esperienza. Ora che sono cristiano, vivo stati d’animo in cui tutta la faccenda appare molto improbabile: ma quando ero ateo mi accadeva a volte di trovare il cristianesimo tremendamente probabile. La ribellione degli umori contro il nostro vero io avviene comunque. Ecco perché la fede è una virtù tanto necessaria: se non si insegna ai propri umori a “stare al loro posto”, non si può essere buoni cristiani e neppure buoni atei, ma solo creature oscillanti di qua e di là, con convinzioni che dipendono in sostanza dal tempo bello o brutto e dalla buona o cattiva digestione. Di conseguenza, occorre esercitare l’abitudine della fede.

 

Il primo passo è riconoscere che i nostri umori cambiano. Il passo successivo è aver cura, una volta accettato il cristianesimo, che alcune delle sue principali dottrine siano presenti alla mente per qualche tempo ogni giorno. Per questo le preghiere quotidiane, le letture religiose e l’andare in chiesa sono elementi indispensabili della vita cristiana. E’ necessario che ciò in cui crediamo ci sia rammentato di continuo. Nessuna credenza sussiste in modo automatico nella mente: bisogna alimentarla. E di fatto, su cento individui che hanno perso la fede nel cristianesimo, mi chiedo quanti l’abbiano abbandonata per seri e ponderati motivi. I più non se ne sono allontanati per inerzia, per semplice noncuranza?

 

Parliamo, adesso, della fede nel secondo senso, più alto: ed è l’argomento più arduo toccato finora. Lo accosterò rifacendomi al discorso sull’umiltà. Come forse ricorderete, ho detto che il primo passo verso l’umiltà è rendersi conto della propria superbia. Adesso voglio aggiungere che il passo seguente è fare un serio tentativo di praticare le virtù cristiane. Una settimana non basta: spesso, nei primi sette giorni, va tutto a gonfie vele. Provate per sei settimane. Trascorso questo periodo vi renderete conto di essere ricaduti al punto di partenza, o anche più giù, ma avrete scoperto alcune verità su voi stessi. Nessuno conosce la propria cattiveria finché non ha provato tenacemente a essere buono. Si dice che i buoni non sanno cosa sia la tentazione; ma è una sciocchezza. Solo chi tenta di resistere alla tentazione sa quanto essa sia forte. La forza di un esercito nemico si scopre combattendolo, non arrendendosi. La forza del vento la avverti avanzandoci contro, non sdraiandoti a terra. Un uomo che cede alla tentazione dopo cinque minuti non sa quale essa sarebbe dopo un’ora. Per questo i cattivi, in un certo senso, sanno ben poco della cattiveria: sono vissuti al riparo, cedendo sempre. La forza degli impulsi maligni dentro di noi si rivela soltanto quando cerchiamo di combatterli: e Cristo, poiché è il solo uomo che non ha mai ceduto alla tentazione, è anche il solo a conoscere appieno che cosa essa significhi – il solo perfettamente realista. Benissimo, dunque. La cosa principale che apprendiamo da un serio tentativo di praticare le virtù cristiane è che non ci riusciamo. Se immaginavamo che Dio ci sottoponga a una specie di esame, e che noi si possa ottenere per nostro merito buoni voti, dobbiamo togliercelo dalla testa. Se pensavamo a qualcosa di simile a un contratto – che noi si possa adempiere la nostra parte contrattuale e rendere Dio nostro debitore, in modo che a Lui tocchi, per giustizia, adempiere la Sua – dobbiamo toglierci dalla testa anche questo.

 

Penso che chiunque crede vagamente in Dio abbia in mente, finché non diventa cristiano, questa idea di esame o di contratto. Il primo risultato dell’essere realmente cristiani è di mandarla  in frantumi. Alcuni, vedendola crollare, concludono che il cristianesimo non funziona, e rinunciano. Pensano, si direbbe, che Dio sia molto ingenuo. In realtà, naturalmente, Egli sa bene che cosa accade. Demolire questa idea è proprio uno degli scopi del cristianesimo. Dio aspetta il momento in cui scoprirai che meritare la promozione in questo esame, o rendere Lui debitore, sono cose fuori questione.

 

Poi viene un’altra scoperta. Ogni nostra facoltà, la capacità di pensare o di muovere le membra attimo per attimo, ci è data da Dio. Se dedicassimo ogni istante della nostra vita interamente al Suo servizio, non potremmo darGli nulla che in un certo senso non sia già Suo. Sicché, quando diciamo che un uomo fa qualcosa per Dio o dà a Dio  qualcosa, le cose in realtà stanno come quando un bambino va dal padre e gli dice: “Papà, dammi cento lire per comprarti un regalo per il tuo compleanno”. Il padre, naturalmente, gliele dà, ed è contento del regalo del figliolo. E’ tutto molto bello e giusto, ma solo un mentecatto può pensare che in questa operazione il padre ci guadagni cento lire. Quando un uomo ha fatto queste due scoperte, Dio può mettersi davvero al lavoro. E’ dopo di ciò che comincia la vita vera. L’uomo ora è sveglio. E ora possiamo parlare della fede nel secondo senso.

 

 

Tratto da: Il cristianesimo così com’è

 

Clive Staples Lewis

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