Come sarebbe bello essere sempre felici! Andremmo tutti in giro con un sorriso così grande da far impallidire il sole. Passeggeremmo leggeri e spensierati per la città e le nostre guance non conoscerebbero mai il sapore delle lacrime, nessun pensiero turberebbe la nostra fronte. È questo che vuol dire essere felici, no?
di Anita Marton
Come sarebbe bello essere sempre felici! Andremmo tutti in giro con un sorriso così grande da far impallidire il sole. Passeggeremmo leggeri e spensierati per la città e le nostre guance non conoscerebbero mai il sapore delle lacrime, nessun pensiero turberebbe la nostra fronte. È questo che vuol dire essere felici, no?
Con una scena di felicità e di luce si apre l’Inno omerico a Demetra. Secondo la tradizione, Omero avrebbe scritto altre opere “spurie” (cioè che sicuramente non ha scritto lui, ma facciamo finta di sì), oltre ai suoi best seller, l’Iliade e l’Odissea. Tra queste, ci sono arrivati 33 Inni, che probabilmente sono racconti che anticipavano altre e più articolate narrazioni. Uno dei più lunghi è, appunto, l’Inno alla dea Demetra e a sua figlia Persefone. Omero ci immerge fin da subito nella storia, portandoci in una valle fiorita, piena d’erba verdissima e piante colorate e profumi. Le Ninfe e Persefone stanno giocando, felici, e raccolgono fiori. Nessun pensiero turba il loro animo. Ma a stravolgere le cose non servono per forza i pensieri: per volontà di Zeus, Persefone viene rapita da Ade, risalito dagli inferi sul suo carro dorato. La ragazza urla, disperata: la felicità si è spenta, ci è voluto un istante. Demetra sente il grido della figlia, la paura avvolge anche il suo cuore; si getta sulle spalle un mantello scuro, dello stesso colore del suo turbamento, e inizia a vagare sulla terra, in cerca di qualche anima buona che le dica cosa ne è stato della figlia. Scopre, così, che Persefone sarebbe diventata moglie di Ade e regina degli inferi. “A lei un dolore più atroce e più aspro entrò nel cuore”: queste parole usa Omero. Demetra torna a errare tra le città degli uomini vestita come una vecchia mendicante. Arrivata ad Eleusi, incontra le figlie del signore della città che la accolgono nel loro palazzo. Lì alla dea è affidato il compito di fare da balia all’ultimogenito della famiglia. Demetra si prende cura del bambino, crescendolo come se fosse un dio, nutrendolo con nettare e ambrosia e immergendolo nella fiamma del fuoco. Ma la madre del neonato la vede e si spaventa. È allora che la dea si rivela. Ordina alla gente di Eleusi di costruire per lei un tempio. Lì vi si rifugia, “struggendosi di nostalgia per la figlia”. Ma il suo dolore e la sua tristezza sono tanto grandi da contagiare i campi e i raccolti: quell’anno tutto diventa secco e arido, i buoi trascinano inutilmente l’aratro, i semi vengono gettati a terra senza fruttare. E niente e nessuno, né onori, offerte o doni possono placare quella rabbia e il suo dolore. Demetra desidera una cosa soltanto, per tornare ad essere felice: rivedere la cara figlia. Omero ci racconta che Persefone tornerà dalla madre, ma alla condizione che passi nel regno dei morti un terzo dell’anno, quando le foglie cadono dagli alberi e arriva l’inverno. Demetra però ha ottenuto quello che voleva: rivedere la sua amata Persefone, abbracciarla, consolarla. Allora la dea torna nell’Olimpo, ma prima, come è riuscita a debellare la rabbia e la tristezza dal suo cuore, così ridona alla terra la fertilità: fiori, frutti e foglie tornano a germogliare in ogni dove. Tutto torna felice.
Sì, felice è la parola giusta. Dentro sé, come tutte le parole antiche, porta una radice. La sua è la radice sanscrita bhu- che poi si è trasformata in foe- o in fe-. Da questa, è nato il verbo greco φύω (fyo), che vuol dire “generare”, e successivamente l’aggettivo latino felix; e quindi, per ultima, la parola felice. Tutte questi termini, come tronchi saldi nati dallo stesso seme, portano in sé la linfa del suo significato: fertilità, fecondità. Omero, o chi per esso, iniziano a raccontarci una storia che sembra essere felice fin dalle prime parole, ma quella felicità è solo un velo, basta scostarlo di poco e si rivelano il dolore e la tristezza che sono presenti in ciascuna esistenza. Un paio di fiori e qualche danza spensierata non bastano più. Demetra e Persefone si trovano inermi immerse nel buio, la luce sparisce dai versi di Omero, tutto è carico di angoscia. Ma questa notte che portano dentro al cuore non è innocua: inizia a fare terra bruciata attorno a loro, lo vediamo soprattutto con Demetra. Come un morbo letale, la sua tristezza avanza e sommerge ogni luce, soffoca la fertilità dei campi, degli animali, dei semi che custodiscono la vita, niente è fecondo. Poi, però, le cose cambiano. Il loro ritrovarsi, quello sguardo, la presenza reciproca fanno tornare la luce; le tenebre si sciolgono e lasciano il cuore libero di accogliere nuova gioia. Insieme a loro, la felicità invade il mondo e su tutto si sparge una pioggia di nuova vita. Il sole splende in modo nuovo, questa volta per davvero.
La felicità, se ascoltiamo la storia che questa parola ci porta, non è una maschera fatta da un sorriso. Non è destinata a durare qualche istante, per poi lasciare il palco all’indifferenza e alla noia. Felice è chi ha sperimentato la bellezza di un incontro capace di ridonare fertilità al cuore, di renderlo terreno fecondo su cui coltivare una vita piena. Lo si vede dallo sguardo e dal bene che cresce attorno a lui, chi è felice fin dalle radici.
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