Ezechia, re buono e... quasi sempre fedele. La vicenda di Ezechia assomiglia alla storia di ogni vocazione “umana, troppo umana” e assai poco divina. Una storia abbastanza luminosa, ma non priva di ombre e di qualche contraddizione. Prima fra tutte, quella di non riuscire a fidarsi completamente di Dio, e di voler ricercare stampelle di umane rassicurazioni, precari appigli di sicurezze mondane.
del 30 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Ezechia è stato un re buono e fedele nella storia d’Israele, al punto da meritarsi un elogio anche nel libro del Siracide, “perché aveva fatto quanto è gradito al Signore” (Sir 48,22). Purtuttavia anche la sua vicenda esistenziale non è priva di ombre e di qualche contraddizione. Come d’altronde si addice alla storia di un uomo. Proprio per questo lo sentiamo ancor più vicino a noi e vogliamo ripercorrere brevemente la sua personale avventura.
Ezechia e Isaia
          Come in precedenza c’era la coppia Davide-Natan, così ora ecco un’altra sinergia tra re e profeta, tra uomo di azione e uomo di Dio. Anche se qui le proporzioni sono rovesciate: è molto più marcato il ruolo del profeta, e diminuisce quello del re, che rimane comunque colui che guida il popolo e in cui il popolo stesso si riconosce.
          Ma ancor più importante è il significato di questa accoppiata: Isaia appare qui come l’uomo spirituale, il padre dello spirito, colui al quale il re ricorre per capire la volontà di Dio, per essere sicuro circa la direzione da dare alla propria vita. Insomma un vero e proprio padre spirituale ante litteram. Anche colui che Dio ha scelto come re non può farne a meno.
Da sempre l’uomo ha avuto bisogno di un uomo di Dio per camminare sulla retta via. Né può fare eccezione l’uomo o il giovane di oggi.
Prima preghiera
          Dinanzi alle minacce di Sennacherib contro Gerusalemme Ezechia non perde la pace, sale al tempio e rivolge a Dio una preghiera. Il re di Assiria aveva ironizzato sul Dio d’Israele (“non t’illuda il tuo Dio in cui confidi. Gli dèi delle nazioni che i miei padri hanno devastato, hanno forse salvato quelli di Gozan, di Carran, di Resef…?”). Ezechia per tutta risposta osserva che “quelli non erano dèi, ma solo opera di mani d’uomo”, e chiede dunque al Signore di intervenire perché tutti sappiano “che tu  solo, o Signore, sei Dio” (2 Re 19, 19). Il buon re sembra preoccupato molto più che Dio sia riconosciuto come tale da tutti, che non della salvezza sua e del suo popolo. C’è una grande verità in questo modo di pregare: il bene più grande e più bello è che Dio esista, e che sia come quello rivelato dalle Scritture e poi da Gesù stesso. Per questo nel Padre nostro preghiamo che sia santificato il suo nome, venga il suo regno, sia fatta la sua volontà… Chiedere questo è chiedere il nostro unico vero bene. Non ci mancherà mai nulla se Dio c’è! 
Seconda preghiera 
          Altro riquadro: il re Ezechia si ammala mortalmente e di nuovo torna a pregare il suo Signore. Ma stavolta l’atteggiamento cambia: il re “fece un gran pianto”, rivolgendosi a Dio con tono singolarmente rivendicativo: “Signore, ricordati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro e ho compiuto ciò che è bene a tuoi occhi”. In qualche modo il buon Ezechia “pretende” da Dio la guarigione, ne ha diritto “per buona condotta”. Ma la cosa ancor più singolare è che il Signore lo ascolta e lo accontenta. Con tanto di aggiunta di segno straordinario (il sole, addirittura, che torna indietro di 10 gradi) per confermare l’accordata grazia. Non è un po’ troppo?!
          Eppure anche qui c’è una sapienza nascosta. Per quanto cerchiamo di imparare a pregare come si deve, la nostra orazione sarà sempre imperfetta, più attenta alle nostre necessità che a Dio, più fatta di parole che chiedono, che di cuore che ascolta, a volte persino più presuntuosa-pretenziosa che grata, e spesso più interessata alla pagnotta che affamata dello Spirito… Lo sappiamo. Ma la cosa sensazionale e davvero tipica della preghiera cristiana è che in essa si compie sempre una sorta di kenosi di Dio, il quale per ascoltarci si abbassa fino al nostro livello, non ci dà udienza aspettando che noi arriviamo alla sua altezza, ma è lui che si piega fino a noi, entrando come in sintonia con la povertà del nostro essere, adattandosi alla miseria delle nostre richieste, paure, contraddizioni.
          Nell’orazione non siamo noi che andiamo a Dio, ma Dio che viene verso di noi, e ci incontra e accoglie laddove noi siamo. Grandezza della preghiera!
Vizi privati, pubbliche virtù (ovvero, buoni a metà) 
          Il profeta Isaia aveva esortato continuamente il re a fidarsi di Dio e solo di lui, senza stringere alleanze interessate e ambigue. Ezechia ascolta e segue le raccomandazioni del profeta, almeno apparentemente, ma dentro di lui sembra non del tutto convinto, e si cautela, non si sa mai!, mostrando a un certo punto una simpatia mirata e pericolosa per il principe caldeo, in funzione di una possibile alleanza con lui. Che è cosa sgradita a Dio. Un po’, per intenderci, come il peccato del censimento ordinato da Davide. E così come allora, il profeta interviene per rimproverare il re, colpevole di aver mancato di fiducia verso il Signore Dio d’Israele.
          Ezechia è onesto, riconosce a questo punto la propria colpa e accetta la punizione. E salva di nuovo il comportamento esteriore, quanto mai corretto. Ma l’autore sacro ci svela il retroscena, o il motivo piuttosto egoistico che spinge Ezechia ad accettare tutto docilmente: il terribile castigo della deportazione accadrà dopo la morte del re, che dunque si consola: “almeno vi saranno pace e stabilità nei miei giorni”. Come dire: io l’ho scampata bella, meno male! Toccherà a chi verrà dopo di me vedersela con la punizione dell’esilio.
Un atteggiamento interiore quanto meno ingeneroso.
          Che in realtà non è così infrequente nel nostro cuore, ma senza che noi ce ne rendiamo conto. Ovvero, a volte ci vergogniamo così tanto di certi nostri pensieri e sensazioni che provvediamo subito a neutralizzarli, illudendoci di negarli solo perché la condotta esibita è corretta. È la logica, farisaica, dei vizi privati e delle pubbliche virtù.
E noi siamo buoni solo a metà, esattamente come Ezechia.
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