Il cammino spirituale dice che tutto può essere trasformato. Ma può essere trasformato solo ciò che noi accettiamo e guardiamo. Il pericolo è che qualcuno non sia pronto a guardare la propria verità. Allora non prende la strada della trasformazione, ma la strada della compensazione che lo porta in un vicolo cieco.
del 02 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Io non sono un maestro dei novizi. Posso solo parlare a partire dalla mia esperienza nella “Recollectiohaus”, una casa per sacerdoti e consacrati che sono entrati in crisi. Là faccio dunque esperienza dei deficit della formazione. Vi incontro dei consacrati che non hanno mai incontrato la loro propria verità, che hanno trascurato dei bisogni importanti. Nei primi anni della loro vita consacrata andava tutto abbastanza bene, ma prima o poi essi devono affrontare la loro propria verità, i loro bisogni di amore e di amicizia, la loro sessualità, il loro essere uomini o il loro essere donne. Vorrei scegliere soltanto tre ambiti che mi sembrano oggi importanti per la formazione.
La maturità umana
          Chi desidera diventare sacerdote o religioso o religiosa deve diventare consapevole di se stesso. Deve affrontare un processo di maturità umana. Vorrei mettere l’accento soltanto su alcuni aspetti della maturità umana. Si tratta in primo luogo di una sana autocoscienza del proprio valore. Ho bisogno di intuire le mie capacità, il mio valore. Autocoscienza del proprio valore significa che io intuisco la mia unicità. Mi è lecito essere me stesso. Non mi devo paragonare con altri. Molti credono certamente alla parola che Dio nel battesimo ha pronunciato su di noi: “Tu sei il mio figlio prediletto, Tu sei la mia figlia prediletta, in te mi sono compiaciuto”; ma le immagini negative di sé che nella loro infanzia si sono impresse su di loro, impediscono di sperimentare che il fatto di essere accolti da Dio determina anche la percezione di sé. Troppo in profondità sono entrate in loro delle voci negative, come: “io non sono a posto. Nessuno può sopportarmi. Io sbaglio tutto”. Una sana autocoscienza del mio valore la posso sviluppare solo quando io osservo tutte le immagini negative di me stesso e me ne congedo. Si tratta allora di permettermi di essere così come sono. Ai giovani consacrati consiglio sempre: medita mezz’ora davanti a Cristo: “tutto può succedere. Io non mi condanno per nessun pensiero e nessun sentimento, ma io considero tutto dentro l’amore di Cristo”. Una sana autocoscienza del proprio valore nasce se io sviluppo la percezione della mia unicità. Non devo essere più forte degli altri, non devo essere orgoglioso e sicuro di me stesso. Si tratta piuttosto di scoprire il mistero di me stesso. È una buona meditazione quella di ripetere in tutte le situazioni di una giornata la parola che Gesù secondo Luca dice dopo la risurrezione: “sono proprio io”. Se noi pronunciamo questa parola nei nostri incontri, nei dialoghi, nel lavoro, ci accorgeremo che spesso noi non siamo noi stessi. Ci adeguiamo alle aspettative degli altri. Quando questa parola penetra profondamente dentro di noi, allora noi ci sentiamo liberi. Smettiamo di metterci sotto pressione o di condannarci. Noi siamo ormai noi stessi. Ma quello che noi veramente siamo non possiamo più descriverlo. È in fin dei conti un mistero. In questo noi stessi in fin dei conti noi incontriamo anche Dio.
          Un’altra strada della maturità umana passa attraverso l’osservazione dei bisogni e delle passioni. I primi monaci hanno sviluppato la dottrina dei 9 logismoi. Sono nove passioni o emozioni che sono presenti nella persona. Sono innanzitutto neutri. Ma ci possono anche dominare. Si tratta di conoscersi meglio, non per condannare se stessi, ma per riconoscere come io tratto le mie passioni. Inoltre i monaci dicono: tu non sei responsabile dei pensieri e delle passioni che hai, ma solo di come tu li tratti. I primi logismoi sono i tre impulsi fondamentali: cibo, sessualità, aspirazione al possesso. Tutti e tre gli impulsi vogliono spronarci a vivere. E in fin dei conti vogliono spingerci verso Dio. Ma possono anche diventare delle bramosie. Allora ci dominano. Non si tratta di recidere gli impulsi, perché altrimenti ci mancherebbero delle importanti energie vitali. Si tratta di integrarli nella nostra vita di modo che ci aprano verso Dio. Il cibo culmina nel pasto sacro, nell’Eucaristia. La sessualità in fin dei conti desidera diventare una sola cosa con Dio nell’estasi dell’amore. E l’aspirazione al possesso deve rimandarci alla ricchezza interiore della nostra anima.
          I tre logismoi della sfera emozionale sono: tristezza, ira e accidia. La tristezza è la commiserazione di se stessi. Io compatisco me stesso, nuoto nella commiserazione di me stesso. A motivo della tristezza ci sono spesso desideri infantili o grandi fantasie. La guarigione della tristezza sta nel lutto. Devo portare il lutto per il fatto di essere mediocre, di non essere perfetto, di non essere il più grande santo. Nel lutto vengo a contatto con le mie vere forze. L’ira e l’aggressività vogliono regolamentare la relazione tra la vicinanza e la distanza. Ho bisogno dell’aggressività per mettere un confine tra me e gli altri. In una comunità posso vivere bene solo se sono capace di entrambi questi atteggiamenti: accettare la vicinanza e mettere dei confini. L’accidia è l’incapacità di vivere il momento presente: non ho voglia di lavorare, né di pregare e nemmeno di fare nulla. Non posso sopportare me stesso. L’accidia viene guarita dall’esercizio di rimanere in se stessi, di sopportare questo stato in se stessi.
          I tre bisogni della sfera religiosa sono:la sete di gloria, l’invidia e l’orgoglio (in greco: hybris). Quando ho sete di gloria, sono continuamente rivolto all’opinione che gli altri hanno su di me. Io ho bisogno di riconoscimento e di lode. Mi definisco a partire dalla lode che mi fanno gli altri. Quando provo invidia, mi paragono agli altri. Svaluto gli altri per rivalutarmi. Oppure al contrario io annullo me stesso, perché gli altri sono migliori di me. Io non sono presente a me stesso, ma vivo a partire dal confronto con gli altri. L’orgoglio è il rifiuto di accettarmi con le mie zone d’ombra e i miei punti ciechi. Ho una così alta immagine ideale di me stesso che sono cieco di fronte alla mia realtà. C. G. Jung parla qui di inflazione. Io mi gonfio con le grandi immagini ideali. È pericolosa l’identificazione con le immagini archetipe, per es. con l’immagine del soccorritore e del salvatore. Se mi identifico con il soccorritore, divento cieco di fronte ai miei bisogni. Mentre mostro vicinanza all’altro, dietro alla vicinanza io esprimo e maschero il mio bisogno. Ciò è spesso il motivo degli abusi sessuali dei sacerdoti.
          Si tratta di guardare questi nove logismoi e di usarli in modo tale da sfruttare la forza presente in questi pensieri e sentimenti per il mio cammino spirituale e umano.
Il cammino spirituale
          Alla formazione dei consacrati appartiene oggi l’introduzione al cammino mistico. Oggi in molte persone c’è un grande desiderio di mistica. Noi dobbiamo dare una risposta al loro desiderio attraverso la nostra esperienza spirituale. Il cammino mistico è il cammino verso l’interno. I mistici sono convinti che c’è in noi uno spazio di silenzio in cui abita Dio. Là dove Dio abita in noi, dove c’è in noi il regno di Dio, là noi siamo liberi dalle opinioni e dai giudizi delle persone, liberi dalle loro aspettative e pretese. Là noi siamo proprio salvi. Là nessuno ci può ferire, là noi veniamo a contatto con l’immagine originaria che Dio si è fatto di noi. Là noi siamo puri e limpidi. Il nostro vero “sé” non è ancora macchiato da colpa e peccato. E là dove il mistero di Dio abita in noi, noi siamo a casa con noi stessi. Chi è a casa con se stesso può anche diventare casa per gli altri.
          Il cammino mistico verso l’interno non passa però accanto alla realtà della mia anima e del mio corpo. Il cammino verso lo spazio interiore del silenzio passa attraverso la meditazione e il silenzio. Ma passa anche attraverso le emozioni e le passioni. Posso per esempio combattere contro la mia paura. Allora risveglio in me una così grande forza contraria che la paura mi preoccupa continuamente. Ma posso anche prendere la paura come guida verso la profondità dell’anima. La paura di fare una figuraccia davanti alle persone mi mostra che io in fin dei conti mi definisco a partire dalle persone. Dietro ci sta il bisogno di desiderare di essere riconosciuto da tutte le persone e di essere amato da tutti. Nel momento in cui la paura mi risveglia questo bisogno, essa mi conduce più profondamente nella profondità dell’anima e mi invita a definirmi a partire da Dio. La paura diventa così un’accompagnatrice verso Dio e perciò viene trasformata: non sono più nelle sue grinfie, ma essa mi conduce nello spazio interiore del silenzio, dove lei non ha più accesso. Perciò viene trasformata.
          Questo cammino di trasformazione vale per tutti i logismoi. La mia rabbia, la mia inquietudine, la mia gelosia, la mia invidia, la mia sete di gloria, tutte queste emozioni possono condurmi verso l’interno. Io le guardo, sono dentro di me; ma se io prendo confidenza con queste emozioni, nello stesso tempo mi accorgo che esse non sono tutto. Sotto le emozioni c’è in me lo spazio del silenzio. Tutte le emozioni vogliono in fin dei conti condurmi nello spazio interiore del silenzio, nella profondità dell’anima. La mistica non trascura le emozioni, ma attraverso di esse entra dentro le profondità dell’anima. Là io trovo calma e pace. Là io sono a casa con Dio. Il cammino mistico è sempre anche un cammino di guarigione. E allora là nel mio più profondo io sono già proprio guarito. Noi consacrati dobbiamo oggi percorrere questo cammino mistico, per diventare una buona volta maturi dal punto di vista umano e diventare nello stesso tempo liberi e aperti. E d’altra parte per accompagnare le molte persone che sono in ricerca spirituale. Se noi non siamo capaci di dar loro delle risposte, essi cercheranno il loro cammino nell’esoterismo o nelle religioni orientali.
I voti di obbedienza, povertà e castità
          I tre voti di ubbidienza, povertà e castità sono cammini di maturazione umana e cammini di trasformazione dei nostri bisogni umani fondamentali in bisogni spirituali. C’è una serie di approcci antropologici per comprendere i consigli evangelici come una possibilità di diventare delle persone. Lo psicanalista Schultz-Hencke vede nei consigli evangelici delle attuazioni di base della persona, in cui essa si serve in un modo del tutto concreto dei suoi istinti. I consigli evangelici cercano di educare gli istinti fondamentali della persona e di sublimarli.
          Bernd Fraling, teologo morale di Würzburg, ha sviluppato un altro approccio. Egli fa pure riferimento a un saggio del teologo di Paderborn, Eugen Drewermann. Fraling vede nei consigli evangelici una risposta proveniente dalla fede alle paure fondamentali della persona. Normalmente la persona risponde alla paura di fronte a un destino sconosciuto fissandosi con sforzo su se stessa. L’ubbidienza è una possibilità, partendo dalla fede nel Dio che vuole che io sia vivo, di diventare libero dal falso rimanere bloccato su di me. Alla paura di morire di fame la persona risponde cercando delle sicurezze nel campo materiale. Nel voto di povertà la persona spezza queste sicurezze con la fiducia in Dio. Perciò il suo modo di rapportarsi alle cose materiali cambia, assume la giusta misura. Alla paura di fronte alla volubilità della vita la persona risponde con il legarsi e il fondare una famiglia in cui si senta protetto e sostenuto. Tuttavia una relazione umana troppo facilmente può rovinarsi se la persona vi si aggrappa. La castità vuole mostrarci che, a partire dalla fiducia nella protezione di Dio, anche le relazioni umane possono già riuscire. E così essa è una risposta di fede alla paura di fronte alla volubilità dell’esistenza.
          Questi approcci sono sicuramente un aiuto per comprendere i consigli evangelici come possibilità per l’autodivenire della persona. A me piace vedere l’esercizio dei tre voti nell’ambito di un altro modello. Per me i tre voti di ubbidienza, povertà e castità sono tre passi del diventare persone e cioè: accogliere, lasciar andare e accettare. Questi tre passi sono indispensabili per ogni autodivenire riuscito. Possono essere usati nella meditazione, nell’osservazione del respiro, nella celebrazione dell’Eucaristia ma anche nel processo di una psicoterapia. Obbedienza, povertà e castità sono un uso di questi passi che dura tutta la vita.
Obbedienza significa accogliere se stessi
          Mi accolgo con la storia della mia vita, con le mie ferite, con i miei punti di forza e le mie debolezze. Mi accolgo con il mio corpo così com’è diventato. E mi accolgo con la mia struttura psichica. Prima che io ascolti altri e sia loro obbediente, devo innanzi tutto ascoltarmi. Ascoltando il proprio corpo, la propria anima e i silenziosi impulsi della mia anima, ascoltando i sogni in cui Dio mi parla, io ascolto Dio. La volontà di Dio non è qualcosa che sia estranea alla mia essenza. Dio piuttosto desidera che io diventi completamente come lui mi ha pensato. Io ascolto la volontà di Dio là dove in me ci sono la vita, la libertà, la pace e l’amore. Nel fondo della mia anima, là dove io raggiungo la mia essenza, la volontà di Dio e la mia volontà sono identiche. Ma quando noi parliamo di nostra volontà, allora è una volontà superficiale, la volontà che si è insediata nella mia emozione e non nel profondo della mia anima.
          Ma accogliere significa anche che io mi accolgo come essere sociale. Io sono già sempre legato a una comunità umana. Nella vita consacrata accogliere significa accettarmi come membro della comunità. Io sto a sentire non soltanto le mie voci interiori, ma anche i miei confratelli e consorelle. In loro Dio mi parla. E io ascolto ciò che il superiore dice. Stare a sentire il superiore può contrastare i miei sentimenti. Non ubbidisco semplicemente al  superiore, ma nella sua voce io ascolto se Dio non mi parli attraverso di lui. Stando a sentire Dio posso innanzi tutto trovare il mio vero essere. Abbastanza spesso diamo ascolto a voci sconosciute e ci lasciamo determinare da loro. Stare in ascolto di Dio ci libera dalla signoria di queste voci. L’ubbidienza nel monastero si distingue proprio dal fatto che io prevedo che Dio possa rivolgermi la sua parola soprattutto nel superiore. Tuttavia non mi è mai lecito confondere la parola del superiore con la parola di Dio. Io devo soltanto prestare orecchio attentamente a ciò che Dio vuole dirmi attraverso il superiore. L’ubbidienza al superiore è soltanto una forma concreta dell’ubbidienza alla comunità e un esercitarmi nell’ubbidienza a Dio.
La povertà consiste nel lasciar andare
          Bisogna lasciar andare una buona volta gli averi materiali, le sicurezze materiali e la disordinata tendenza al possesso. Tuttavia non bisognerebbe sempre parlare di povertà con l’indice puntato in tono moralistico. In primo luogo non è questione se noi viviamo in modo sufficientemente povero o di che cosa noi facciamo per i più poveri; la questione è piuttosto se noi siamo pronti a spartire con loro la nostra vita. Bisognerebbe parlare di povertà sobriamente. Si può misurare quanti mezzi di sostentamento abbiamo e paragonarli con i dati statistici che si riferiscono a diversi gruppi della nostra società. Allora si vede a quale gruppo si appartiene. E abbastanza spesso si scopre che la povertà conventuale gode di maggiori sicurezze rispetto alla povertà di molte famiglie. Il lasciar andare ciò che si possiede rende capaci di vivere la comunità. Se io sono pronto a spartire tutto il denaro e tutti gli oggetti con i miei fratelli nella comunità, ciò è un test molto concreto di quanto io sia pronto a vivere davvero la comunità con gli altri. Ma la povertà non si riferisce solo al lasciar andare ciò che si possiede materialmente, ma anche al lasciar andare quanto si possiede spiritualmente. Noi dobbiamo far parte anche delle nostre esperienze dal punto di vista spirituale. Povertà spirituale si riferisce al non essere avidi di cercare continuamente sempre nuovi metodi e libri spirituali, ma al diventare sempre più semplici nella nostra preghiera. Per i monaci la limitazione a una sola parola (ruminatio, preghiera di Gesù) era una forma concreta di questa povertà spirituale. In fin dei conti, povertà significa lasciar andare se stessi. Altrimenti noi stessi ci siamo d’intralcio, impedendo che Dio possa raggiungerci. Povertà si riferisce a un diventare liberi da se stessi, un dimenticare se stessi, per essere completamente orientati su Dio, per cadere ai suoi piedi e per tacere davanti a lui.
          Nell’alternanza tra accogliere e lasciar andare, la persona plasma il materiale, che gli è già stato dato in precedenza, dal quale deve formare la sua immagine unica e inconfondibile. Accogliere e lasciar andare rendono il materiale malleabile, ma la forma che da lì dev’essere plasmata non sorge attraverso i propri sforzi, dev’essere accettata, è un regalo per cui l’uomo deve rendersi recettivo. Nella castità si tratta di questo accettare la forma che Dio ha offerto alla persona. Io accetto ciò che Dio desidera realizzare in me se io mi abbandono completamente a lui nella castità. Castità è tutte e due le cose: accettare l’immagine unica e singolare che Dio si è fatto di me, e abbandonarsi completamente a Dio.
          Questa doppia strada di accettazione e di abbandono passa attraverso il fatto che io accetti in me la tensione interiore tra «anima» e «animus». Ogni persona porta in sé l’«anima» e l’«animus», la parte femminile e maschile dell’anima. Anche le persone che si sposano hanno il compito, secondo C.G. Jung, non solo di proiettare la loro anima sulla donna, ma in fin dei conti di realizzarla anche in se stessi. Se io come consacrato mi innamoro di una donna, allora scopro sempre nella donna qualcosa che c’è anche in me, che però io in me ho espresso troppo poco. Secondo C. G. Jung nell’innamoramento c’è sempre anche una parte di proiezione. Io proietto sulla donna ciò che in me è inconscio. Il compito è dunque di ritirare la proiezione e di vivere in me stesso ciò che mi attrae nella donna, di integrarlo nella mia esistenza maschile. È spesso l’«anima» che mi attrae nella donna e che però vorrei vivere anche in me stesso. Solo chi integra in se stesso l’«anima» e l’«animus», diventa una persona completa. La castità allora non ci dimezza, ma è persino una strada verso l’essere una persona completa.
L’accettazione della sessualità
          Un’altra strada passa attraverso l’accettazione della sessualità. Noi non possiamo vivere senza prestare attenzione alla nostra sessualità. Nella sessualità c’è il desiderio di sentire se stessi attraverso il diventare una sola cosa con un altro, di darsi e di dimenticare se stessi nell’estasi dell’amore. Accogliere la sessualità significa lasciarmi ricordare continuamente da lei che io sono bisognoso d’amore e di vicinanza. Non posso tralasciare questo bisogno. La domanda è come io converta questo bisogno umano in un bisogno spirituale. Io devo confessare di avere il desiderio anche di una vicinanza umana. Mentre confesso il bisogno, riconosco però anche che nessuna persona può spegnere completamente il mio bisogno più profondo. In tal modo il bisogno, con cui mi familiarizzo, mi porta in fin dei conti a Dio. Io non tralascio il bisogno, io godo anche della vicinanza umana, ma non mi fisso su di essa. Da lei in ultima analisi mi lascio condurre verso Dio, la cui vicinanza guaritrice ed amorosa mi circonda sempre e dappertutto.
          Un’altra strada per integrare la propria sessualità nella spiritualità consiste nel pensare allo scopo della sessualità. Desidero dormire con una donna e diventare completamente una cosa sola con lei. Se io ammetto questa fantasia, sono allora completamente appagato, il mio desiderio è veramente placato? O la mia sessualità non mi indirizza in ultima analisi verso Dio, con il quale desidero diventare completamente una sola cosa? Hans Jellouscheck parla del potenziale di trascendenza che è presente nella sessualità. E ritiene che anche gli sposi si accorgono che il partner non ha la capacità di riempire questo potenziale di trascendenza; anzi, si accorgono che l’amore sessuale risveglia sempre di nuovo il desiderio verso la trascendenza. Quando in noi si ridesta la sessualità, non dobbiamo reprimerla, ma in ultima analisi permettere che ci ricordi che nell’estasi dell’amore noi dimentichiamo noi stessi e diventiamo una cosa sola con Dio.
          L’interrogativo è come questa trasformazione della sessualità in spiritualità riesca. Secondo me ci sono quattro condizioni. 1. Ho bisogno di relazioni umane e di amicizie sane, in cui poter vivere il mio bisogno di vicinanza umana, senza servirmi dell’altro a mio vantaggio. 2. Ho bisogno di un sano modo di vivere. Già Sigmund Freud ritiene che la sessualità sia una forza che crea un certo modo di vivere. Allo stile di vita appartiene il modo con cui organizzo la mia camera, il fatto di avere una buona gestione del tempo, un buon modo di mangiare, di avere interesse per la musica e per la letteratura. 3. La sessualità dev’essere trasformata in creatività. Ho bisogno di ambiti in cui la sessualità sfoci; per qualcuno è la pastorale lo spazio in cui può essere creativo, per altri è lo scrivere, il dipingere, il lavoro all’ospedale. Decisivo è che in noi qualcosa nasca e scorra. 4. La sessualità deve sfociare in una spiritualità mistica. Si tratta di una spiritualità che è segnata dalla forza dell’eros, in cui noi dirigiamo verso Dio i più profondi desideri del nostro corpo e della nostra anima.
          In conclusione, oggi non ci possiamo attendere che i giovani e le giovani che entrano nelle nostre comunità portino già con sé la necessaria maturità umana. È decisivo che siano pronti a guardare i loro punti di forza e di debolezza e i loro deficit. Il cammino spirituale dice che tutto può essere trasformato. Ma può essere trasformato solo ciò che noi accettiamo e guardiamo. Il pericolo è che qualcuno non sia pronto a guardare la propria verità. Allora non prende la strada della trasformazione, ma la strada della compensazione. Che lo porta in un vicolo cieco. Che cos’è la compensazione? Io mi rifiuto di guardarmi e accettarmi con i miei limiti e le mie debolezze. Ciononostante mi rifugio in una spiritualità, in pii sentimenti. Cerco di risolvere tutto in modo spirituale. I primi monaci ci consigliano la strada del lutto. Devo portare il lutto per il fatto di avere questa mancanza di amore, di essere così delicato, così pieno di bisogni. Il lutto, attraverso il dolore per la mia mediocrità, mi porta nel fondo della mia anima. E là io scopro le mie capacità. E là io scopro Dio, che può riempire totalmente i miei deficit. Ma Dio spianerà i miei deficit solo quando io li ammetto con sincerità. Nell’accompagnamento spirituale continuamente sperimento che dei sacerdoti e dei consacrati parlano della loro religiosità e raccontano le loro profonde esperienze spirituali, ma sono tristi da morire. Rifiutano di riconoscere il loro stato di bisogno e si rifugiano nella spiritualità. Questa però non porta alla trasformazione, ma alla rimozione. E la rimozione si vendica. Prima o poi ciò che è stato rimosso e represso verrà di nuovo a galla e farà sentire la sua voce in una depressione e in una malattia corporale. Per questo motivo il cammino della trasformazione è un cammino che guarisce. Ma è necessaria la disponibilità a guardare con onestà la propria realtà e a fare i conti con essa.
          Tutto può essere cambiato. Noi dovremmo avere questa speranza con tutti coloro che giungono da noi. Ma noi dovremmo verificare attentamente se l’altro si coinvolge veramente e sinceramente in un cammino di trasformazione. Perché è abbastanza spesso un cammino doloroso. È molto più agevole restare fermi con le proprie illusioni che mollarle e porgere a Dio la propria realtà, affinché la sua luce e il suo amore circondino e trasformino tutto in noi. Ildegarda di Bingen dice che diventare una persona dipende da questo: le nostre ferite sono trasformate in perle. Però sono trasformate in perle solo le ferite che noi guardiamo con sincerità e che noi porgiamo a Dio. Se noi permettiamo che Dio trasformi tutta la nostra realtà, allora la nostra vita porterà frutto e diventerà una benedizione per le persone, proprio già con le condizioni umane che noi abbiamo.
Anselm Grün
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