Uno spaccato della condizione giovanile in Italia. L'analisi, sottolineata anche al convegno ecclesiale di Verona, mostra una generazione sospesa tra individualismo e conformismo. L'impegno educativo di società e chiesa.
del 12 gennaio 2007
Siamo ormai inflazionati da indagini e riflessioni sui giovani, anche a causa di episodi di cronaca che fanno emergere il disagio (vedi anoressia e dipendenze di ogni tipo) e la violenza (vedi bullismo e stupri di gruppo) di una generazione post-ideologica e post-capitalista.
 
Proviamo, comunque, a leggere alcuni dati alla luce dell’impegno preso al 4° convegno ecclesiale di Verona: «Vogliamo vivere gli affetti e la famiglia come segno dell’amore di Dio; il lavoro e la festa come momenti di un’esistenza compiuta; la solidarietà che si china sul povero e sull’ammalato come espressione di fraternità; il rapporto tra le generazioni come dialogo volto a liberare le energie profonde che ciascuno custodisce dentro di sé, orientandole alla verità e al bene; la cittadinanza come esercizio di responsabilità, a servizio della giustizia e dell’amore, per un cammino di vera pace» (Messaggio finale).[1]
 
 
I nuovi conformisti?
 
I ragazzi italiani puntano tutto su famiglia e lavoro, mentre si dichiarano disinteressati e perfino ostili alla politica, che ritengono incapace di dare risposte concrete alle loro necessità e aspirazioni, soddisfatti di loro stessi e di quello che hanno, a partire dalla tecnologia, che consumano in quantità massicce (solo l’1,3% degli adolescenti non ha il cellulare e il 10,5% dice di possederne più di uno).
 
«Siamo di fronte a un marcato senso di appagamento materialistico nelle giovani generazioni – dichiara il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara –, che si pongono come obiettivi principali la famiglia e un buon lavoro, due traguardi a elevato contenuto privatistico. L’esigenza di un mondo migliore e di una società più giusta e più equa, che aveva plasmato le esistenze e le idee delle generazioni precedenti, è molto meno avvertita dall’attuale componente giovanile. In un certo senso, gli adolescenti sono diventati più conformisti e obbedienti alle regole della società borghese, non esercitano più nessuna spinta al cambiamento».
 
Conformisti, appagati, disimpegnati, consumisti. Eppure, non fuori di testa: 52,7% di contrari all’aborto (favorevole il 42,2%); 38,2% che non è d’accordo sul divorzio (favorevole il 59,8%); 46,1% contrario alla fecondazione assistita (i favorevoli sono al 47%). Ci viene incontro, dunque, una generazione di giovani un po’ sfiduciati, privi di un progetto di vita, che preferiscono la socialità ristretta e non l’impegno collettivo, credendo però più nella famiglia e nella pace che nel lavoro e nella carriera.
 
Se, negli anni 80, usciva di casa il 17% dei 15-17enni, oggi soltanto il 3%. Situazione simile anche per altre fasce di età: per i 18-20enni si è passati dal 39% al 25%. Solo dopo i 25 anni si registrano le prime consistenti uscite di casa, spesso in concomitanza con il matrimonio o la convivenza; tuttavia, quasi il 70% dei 25-29enni e oltre un terzo tra i 30-34enni (36%) vive ancora con i genitori. Il tasso di nuzialità dei 20-24enni è più che dimezzato in questi vent’anni, passando dal 20% all’8%; similmente, è sceso dal 36% al 27% per i 25-29enni. Nell’ultimo decennio si è diffusa l’idea che nella vita anche le scelte più importanti non sono “per sempre” (dal 49% al 54%). Anche se ogni scelta è considerata reversibile, ci sono in fondo valori che rimangono abbastanza saldamente ai primi posti: la salute (92%), seguita dalla famiglia (87%) e dalla pace (80%), a pari merito con il valore della libertà. E ancora: l’amore (76%) e l’amicizia (74%). Accanto alla famiglia, considerata stabilmente negli anni quale valore chiave, i dati mostrano una crescita dell’amicizia.
 
 
I nuovi apolitici?
 
Il dato più serio è quello che indica come ormai l’impegno vero e la fiducia dei giovani negli uomini politici si attesta su livelli molto bassi (rispettivamente 4% e 12%). Cresce l’atteggiamento di delega (il 35% pensa che si debba lasciare la politica a chi ha la competenza per occuparsene). Il fatto di sentirsi disgustati verso certi modi di fare politica è un dato che dagli anni 80 è cresciuto in modo esponenziale dal 12% al 23%; anche se, comunque, un trentenne su due dichiara di aver assistito a un dibattito politico, un 15-17enne su tre di aver partecipato a un corteo, quasi un maggiorenne su quattro di aver firmato per un referendum e uno su dieci di aver aderito a un boicottaggio. Interessante il dato in crescita circa la politica, che deve proteggere la libertà di parola dei cittadini (dal 25% al 35%).
 
Declino della fiducia, dunque, nei confronti di molte istituzioni (scuola, polizia, militari di carriera, banche), ma anche verso la televisione. Non ci si stupisca: stiamo assistendo agli effetti psico-sociali di uno scenario decisamente da paese “depresso e deprimente”: un debito pubblico che porta tasse e sacrifici, un eccesso di procedimenti pendenti nei tribunali civili e penali, l’affollamento sempre maggiore delle carceri, la difficoltà di relazionarsi con parecchi servizi di pubblica utilità, da quelli sanitari ai trasporti pubblici e alle scuole. Con una popolazione che continua a invecchiare: l’indice di vecchiaia (rapporto tra la popolazione ultrasessantacinquenne e quella con meno di 15 anni) ha registrato al 1° gennaio 2006 un ulteriore incremento, passando dal 137,8% dell’anno precedente al 140,4%. Ormai, quasi un italiano su cinque raggiunge i 65 anni. In aumento anche la popolazione di quelli che la statistica definisce “i grandi vecchi”, cioè gli ultraottentenni, che hanno superato il 5% del totale.
 
Non è che i giovani sono lo specchio di noi adulti? Li deludiamo? Molto probabilmente, e tale delusione non trova voce nella protesta, quanto nel ritrarsi nel mondo sicuro degli affetti, la famiglia e gli amici. Noi adulti trasmettiamo loro l’idea che oggi la società è pericolosa, la scuola è estranea, la politica un gioco sporco. Ciononostante i giovani, pur manifestando diverse fragilità, in definitiva rimangono aperti, disponibili e generosi. Aspirano a rapporti autentici e sono in cerca della verità ma, non trovandoli nella realtà, sperano di scoprirli dentro di sé. Possiamo metterci nelle loro scarpe se contesti di questo tipo li predispongono facilmente a ripiegarsi sulle proprie sensazioni e sull’individualismo, finendo per mettere al proprio servizio i legami sociali e il senso dell’interesse generale.
 
Ci troviamo in una situazione paradossale: da un lato, si vogliono rendere i bambini autonomi il più presto possibile e, dall’altro, siamo accondiscendenti verso adolescenti/giovani che stentano ad attuare i più naturali processi psicologici di separazione per camminare con le proprie gambe. Gli adulti, che hanno fatto di tutto perché non mancassero di nulla, hanno finito per indurre i loro figli a credere di dover soddisfare tutti i propri desideri, confondendoli con i bisogni. In questo modo la maggior parte di essi sono diventati succubi delle regole della società di mercato, che mette in moto tutte le astuzie per trasformare i cittadini in consumatori.
 
 
Per una società meno infantile
 
Una società tutto sommato infantile con i giovani finisce addirittura per usarli come modello, mentre avrebbero bisogno e diritto di sentirsi offrire punti di riferimento. E la chiesa? Certo incontra, nei loro confronti, le stesse difficoltà di tutte le altre istituzioni immerse nel brodo di cultura fatto di individualismo, soggettivismo e de-socializzazione. Al convegno di Verona è stata ricorrente l’espressione “analfabetismo affettivo” «per significare lo stato di immaturità personale diffuso in particolare tra adolescenti, ma anche tra giovani o adulti, in difficoltà ad assumersi impegni e responsabilità, in particolare quando devono compiere scelte che richiamano il “per sempre”, peraltro elemento costitutivo dell’amore. La condizione di immaturità affettiva emerge anche nelle stesse comunità cristiane, spesso caratterizzate da relazioni formali e che faticano a pensarsi come luoghi di relazione affettiva e di condivisione delle responsabilità e a volte anche tra quanti aspirano alla vita religiosa e al presbiterato» (Relazione ambito affettività).
 
Dunque, c’è un lavoro comune da assumere. In questa direzione ci sembra vada letto il recente e positivo incontro (20/11/06) tra Benedetto XVI e il presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano. Quest’ultimo ha ribadito di credere nell’importanza della collaborazione fra stato e chiesa «guardando anche a una comune missione educativa». Dal canto suo, il papa ha ricordato il senso di una chiesa al servizio del paese: «Servizio che consiste principalmente nel “dare risposte positive e convincenti alle attese e agli interrogativi della nostra gente” (cf. Discorso ai partecipanti al Convegno nazionale ecclesiale a Verona), offrendo alla loro vita la luce della fede, la forza della speranza e il calore della carità… Questo apporto specifico viene dato principalmente dai fedeli laici, i quali, agendo con piena responsabilità e facendo uso del diritto di partecipazione alla vita pubblica, si impegnano con gli altri membri della società a “costruire un giusto ordine nella società”… Nella loro azione, peraltro, essi poggiano sui “valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano”…, riconoscibili anche attraverso il retto uso della ragione».
 
Anche la comunità ecclesiale, dunque, senza mettersi in cattedra, deve recuperare la coscienza di essere chiamata a formare le nuove generazioni al senso di ragione e di realtà, promuovendo nuovi luoghi di trasmissione della spiritualità e dell’umanizzazione per il bene comune. Se i giovani sono a rischio di abdicare all’esistenza, l’annuncio della risurrezione di Gesù può risultare ancora un servizio alla vita se non si fa ridurre alla sfera del privato. Ma, soprattutto, se diventa fonte di un nuovo processo educativo, nella reciprocità tra adulti e giovani, per operare un risveglio, capace di ricucire i frammenti: fede e ragione (entrambe si sono impoverite), fede e sapienza di vita, fede e arte dell’azione. Una proposta capace di risvegliare il disincanto del mondo: questa la richiesta ultima che ci sembra scaturire dalle inchieste sul mondo giovanile.
 
 
[1] Cf. VII Rapporto su condizione dell’infanzia e dell’adolescenza (Eurispes e Telefono Azzurro: l’indagine è stata realizzata su 2.516 giovani; 1.242 adolescenti appartenenti alla classe di età 12-19 anni e 1.274 bambini della fascia 7-11 anni); VI Rapporto dell’Istituto Iard; Annuario statistico 2006.
Mario Chiaro
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