Cosa c'è dietro le violenze e gli scontri razziali nella banlieue di Parigi. Parla il sociologo Alain Touraine. «Stavolta non si tratta di semplici rivendicazioni, ma di una rottura culturale. I francesihanno un'immagine retorica del loro nazionalismo, che è diventato una specie di clericalismo laico e impedisce di capire tutte le diversità».
del 06 novembre 2005
«Non è un problema economico, di lotta di classe. Non è un problema religioso. È un problema di crisi culturale, ovvero di crisi del concetto stesso di Nazione e della capacità di una nazione europea come la Francia di riorganizzare le relazioni tra integrazione nazionale e universalismo da un lato e pluralità culturale dall'altro». Con queste parole il sociologo Alain Touraine, 80 anni, direttore dell'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, commenta le violenze che negli ultimi giorni hanno sconvolto la banlieue parigina. Touraine è stato invitato a partecipare al seminario internazionale «The Politics of Global Governance. Issues and International Parameters», promosso da «Globus et Locus», associazione presieduta da Piero Bassetti che riunisce alcune delle più importanti realtà dell'Italia centro-settentrionale (tra cui la Cattolica), in collaborazione con la Compagnia di San Paolo.
 
Professor Touraine, 70.000 atti di violenza urbana fanno pensare a Saõ Paulo, non alla Francia. Cosa sta succedendo?
«Dopo un processo di integrazione con protagoniste due generazioni di immigrati, con aspetti positivi e negativi, è arrivata una terza generazione che si è trovata coinvolta in un processo di dis-integrazione. Una segregazione crescente dei gruppi etnici. Queste persone, che hanno cittadinanza francese, che sono francesi, vengono rifiutati dalla maggioranza della popolazione francese. Da qui il ritiro nella comunità con tutti i conseguenti controlli culturali che si fanno sempre più rigidi soprattutto sulle ragazze. Assistiamo a un'assenza totale di mobilità sociale ascendente, non c'è per loro possibilità di una crescita economica, e tutto questo ha portato a una rottura. Non siamo di fronte a semplici rivendicazioni, ma a una vera e propria rottura culturale. Non religiosa, almeno per ora. Direi che il fattore religioso può spiegare solo scelte individuali, come chi si arruola tra i terroristi. È piuttosto una reazione alla consapevolezza di essere rifiutati e disprezzati. Non credo che si trasformerà in guerra civile, anche se non escluderei un intervento dell'esercito».
 
Però anche tra gli immigrati c'è chi rifiuta l'integrazione...
«Da qualche tempo lavoro con dei gruppi di ragazze musulmane. Sono tutte francesi, sono nate in Francia, hanno la cittadinanza francese, parlano francese e in generale solo francese. Il 30% sono musulmane attive. Sono a favore della scuola francese. Il movimento a favore del velo è stato molto ambiguo, perché si difendeva il velo, ma anche la possibilità per i giovani musulmani di accedere alla scuola, che è l'unica possibilità di ascesa sociale».
 
Dunque il vero problema sarebbe l'atteggiamento dei francesi?
«Credo profondamente che il problema centrale sia l'immagine che i francesi hanno di se stessi. I francesi sono orgogliosi del loro nazionalismo universalista, che a un certo livello ha aspetti positivi, perché contrasta il comunitarismo. Però, una cosa è difendere la cittadinanza contro il comunitarismo, ma bisogna anche capire meglio la diversità culturale, capire che il mondo islamico non è pre-moderno, ma che agisce all'interno del mondo moderno. Parlano sempre di Repubblica, ma il 'repubblicanismo' da movimento di liberazione contro la Chiesa si è trasformato in una forma di clericalismo nazionale. La società francese paga questa immagine retorica ed erronea che sarà difficile cambiare. È molto difficile per un Paese inventare nuovi modelli di integrazione sociale in una fase di assenza di crescita economica e di sfiducia nel futuro».
 
Questo spiega anche il rifiuto dell'Europa?
«Il concetto di Europa, accettato a livello economico, non è vissuto come una Patria. C'è un atteggiamento difensivo. L'identità europea è un tema che ai francesi non interessa per nulla. L'esito del referendum è stato una sorpresa per tutti. Capisco bene le ragioni del 'no'. Ma dietro al no c'è un enorme movimento che va dalla vecchia sinistra trotzkista a Le Pen. Perfino leader che non hanno nulla a che vedere con la gauche estrema adoperano parole del movimento 'anti-tutto'. Resta forte la vecchia idea che interessi economici e bisogni sociali siano incompatibili e che lo Stato-nazione sia l'unica difesa del popolo contro il capitalismo mondiale. Ma la gente deve capire che non ha nessun senso essere contro l'Europa o pensare di eliminare l'economia di mercato. Dopo la guerra mondiale l'Europa è stata produzione di un progetto politico e di un progetto sociale. Il Welfare State, il ruolo dei sindacati e della sinistra democratica... Tutte queste cose sono scomparse. La globalizzazione fa sì che l'economia stia al di fuori del livello statale, e che la politica non abbia alcun controllo sul capitalismo estremo. L'Europa è una costruzione vuota di contenuti. Credo si debba inventare un nuovo Welfare State e una nuova socialdemocrazia e che l'Europa potrà ritagliarsi un ruolo nella politica mondiale accogliendo la Turchia. Un asse euro-turco come soluzione al problema dei rapporti tra Occidente e mondo islamico e come risposta a chi preferisce contrapporre la jihad americana alla jihad islamica».
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