Il viaggio è l'immagine della vita. La stessa Scrittura lo declina in questa dimensione. Il viandante come “straniero e pellegrino”. La spiritualità del pellegrino. Il nomadismo come condizione dell'uomo. La vocazione del cristiano: essere viandante nella società dei sedentari. La strada come luogo della speranza, il viandante l'uomo della speranza.
del 14 dicembre 2005
Viandante o pellegrino, forestiero, straniero, passante: recita il dizionario dei sinonimi, rievocando immediatamente una serie di vocaboli cari da sempre alla tradizione cristiana. Il senso di poesia che li pervade non toglie loro del tutto la durezza insita nell'azione da essi rievocata. «Partir c'est un peu mourir», ci ricorda un vecchio adagio francese. Se il viaggio è l'immagine della vita, la partenza diventa un po' l'immagine della morte. Due operazioni connesse insieme. Vita e morte si intersecano inestricabilmente fra loro. È la sorte di tutte le cose create, che si fa cosciente nella mente e nell'animo della creatura razionale. L'uomo è essenzialmente homo viator, come ha scritto il filosofo cristiano Gabriel Marcel.
Il titolo di questa riflessione ripete il logion 47 del Vangelo di Tommaso (edizione Einaudi): «Gesù disse: Siate viandanti». Un pensiero che non può non suscitare profonde emozioni, aperto com'è sull'infinito e sull'indeterminato. È una chiamata all’imitazione di Cristo, il Figlio dell'uomo che non aveva dove posare il capo.
La lettera agli Ebrei ripete questa chiamata in termini suggestivi. «Stranieri e pellegrini» si dichiarano gli antichi profeti, di cui Abramo rimane il testimone più probante: «Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti una città» (11,14-16).
Viandante è propriamente colui che non ritorna sui suoi passi. Abramo che, chiamato da Dio parte senza sapere dove va e non ritorna più alla sua vecchia patria, si distingue nettamente dal mitico Ulisse che, alla fine del suo interminabile periplo, ritrova Itaca, la sua isola di origine e di partenza. «Siate viandanti» significa allora: puntate sempre oltre, andate sempre avanti, non fermatevi mai. «Oltre quei monti sono altri monti ed altri ancora». Come Abramo che «per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,9-10). Anche la terra promessa non è la dimora definitiva: promessa e provvisoria insieme, essa rimanda altrove. La Bibbia è tutta intrisa di questi sentimenti.
 
«Stranieri e pellegrini»
Il binomio del viandante. Esso viene da molto lontano. Alla morte di Sara, Abramo così parlò agli hittiti: «Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a voi, perché io possa portar via la salma e seppellirla» (Gen 23,4). Più tardi il salmista si rivolge a Dio con le medesime espressioni. «Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi l'orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri» (Sal 39,13). Ora il binomio abbandona i significati contingenti per diventare la qualifica dell'uomo in quanto tale, straniero in tutti i paesi della terra perché diretto verso un'altra terra.
Ma è soprattutto l'apostolo Pietro che pone l'espressione della tradizione a fondamento della concezione dei cristiani: questi sono per definizione «stranieri e pellegrini», paroíkous e parepidémous nel testo originale (1Pt 2,11). Due vocaboli dalle etimologie molto significative. Concettualmente non si tratta di una semplice ripetizione; anche se si vuol parlare di sinonimi, i due significati vanno ben distinti. Il secondo si aggiunge al primo come un aggravante.
Pároikos è propriamente il forestiero che ha lasciato la sua patria e si è trasferito in una regione straniera, conservando la cittadinanza della città di origine. Moltissimi dei cittadini romani erano in questa condizione: non erano molti i romani de Roma. In questo senso, il cristiano ha una duplice appartenenza, quella del cielo e quella della terra, la quale non lo considera mai totalmente uno dei suoi. In qualche modo vive ai margini (il comunissimo prefisso para in greco significa propriamente «accanto, presso, a lato»), si distingue per la sua pronuncia, il suo comportamento, il suo stile. L'omogeneizzazione con la gente che lo accoglie non è mai perfetta. C'è sempre qualche tratto che ne rimane al di fuori.
Il concetto sarà ripreso non molto più tardi dalla Lettera a Diogneto, lo scritto che ad Alessandria d'Egitto, fra il II e il III secolo, tracciava le linee della spiritualità del cristiano, chiamato a essere l'anima del mondo. Una pagina nota a tutti per la sua attualità: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per costumi. Non abitano città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita… Ma, pur vivendo in città greche o barbare – come a ciascuno è toccato – e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l'esempio di una vita sociale mirabile, o meglio – come tutti dicono – paradossale. Abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri; ogni nazione è la loro patria, e ogni patria è una nazione straniera… Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo… Per dire tutto in breve: i cristiani sono nel mondo ciò che l'anima è nel corpo. L'anima è diffusa in tutte le membra; e i cristiani abitano in tutte le città della terra. L'anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; e i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo».
Facile riconoscere in queste espressioni le parole della Scrittura, le parole di Paolo, di altri, dello stesso Gesù: «La nostra patria invece è nei cieli» (Fil 3,20); «Non abbiamo quaggiù un città stabile [manentem civitatem, nella versione della Volgata], ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14); nel vangelo secondo Giovanni, i cristiani «sono nel mondo» (17,11), ma «non sono del mondo» (17,14). Per l'appunto stranieri nell'antico senso della parola. Il termine derivato «parrocchia» vuol appunto significare una comunità che vive ai margini della città. Un impegnativo programma incluso in una parola di uso comune. Una situazione paradossale.
Parepídemos (dall'etimologia molto simile a quella di pároikos: se oikia in greco vuol dire casa, demos significa popolo) non indica propriamente il forestiero o lo straniero, ma il pellegrino. La versione italiana è esatta, più di quella della Volgata. Il binomio preso nella sua interezza allora vuol significare colui che proviene da una regione straniera, ma che, per di più, non ha fissa dimora, sottoposto com'è a continui spostamenti. Colui che è di passaggio, il girovago, lo zingaro, il senza fissa dimora. Uno straniero d'infimo grado, il distaccato, l'uomo della tenda, il provvisorio. Non c'è niente di più facile che smontare una tenda: basta svellere pochi picchetti e si è già pronti per la partenza. Anche Gesù, venendo ad abitare sulla terra, si accampò in una tenda: eskènosen en emin. Una tenda in più nell'accampamento degli uomini.
La forza delle parole. «Siate viandanti». Prima di richiamare gli altri, Gesù ha sperimentato in modo singolare questa forma di vita. Senza una casa propria, egli percorre in lungo e in largo le strade della sua Palestina, vivendo dell'aiuto degli altri, in un’assoluta povertà. È un aspetto della kenosi, che costituisce la caratteristica fondamentale della sua vita. L'invito sarà raccolto, anche se in forme diverse dalle sue. Le modalità della sequela non sono esattamente quelle della imitazione.
 
Viandanti nello spirito
Non sono mancati coloro che hanno imitato Cristo con una vita errante e senza fissa dimora. Uno di questi è l'autore dell'autore dei Racconti di un pellegrino russo, il piccolo libro che ha divulgato nel mondo la preghiera di Gesù, un testo–chiave della spiritualità orientale, come è stato detto il canto del cigno della vecchia Russia, che narra l'avventura non di uno solo, ma di una intera categoria di cristiani. Scrive T. Spidlík: «Pellegrino russo! In questo paese di immensi spazi, una vasta categoria di persone, chiamate stranniki, passava la vita visitando santuari, chiese, monasteri, il Monte Athos, la Terra Santa. Il pellegrino a cui sono stati attribuiti i Racconti è il rappresentante di tutti coloro che cercano Dio per mezzo della preghiera continua del cuore, ideale tracciato da tanti Padri i cui scritti in proposito sono raccolti nel famoso florilegio di testi sulla preghiera, detto Filocalia».
Essi cercano Dio per mezzo della preghiera continua e di questo continuo movimento lungo le strade per raggiungere i luoghi santi della pietà popolare e così trascorrere l'intera vita nell’imitazione perfetta del viandante della Galilea, in un totale distacco da tutto e da tutti e nella completa adesione al programma dell'unico necessario. Una categoria vicina a quella dei “pazzi di Cristo”, pure fiorita nella santa Russia a dimostrazione delle conseguenze prodigiose e sorprendenti che può produrre nell'animo l'amore di Cristo. Una santità straordinaria la cui conoscenza ha scosso fortemente gli animi dei tanti ammiratori sparsi non solo nell'oriente, ma anche nell'occidente.
Tutti ricordano l'inizio commovente del piccolo libro: «Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per opere grande peccatore, per vocazione pellegrino senza dimora, del ceto più basso, errante di luogo in luogo. Il mio patrimonio è: sulla spalle una bisaccia col pane secco, sotto la camicia una Bibbia. Tutto qui». Con questa armatura leggera egli intraprese un cammino per capire prima e mettere in pratica poi, giorno per giorno, il segreto della preghiera continua raccomandata dalla sacra Scrittura con le parole: «Pregate incessantemente». La vicenda del pellegrino errante ha commosso e scosso l'animo di tanti credenti.
Ma, come c'è il martirio del sangue e il martirio del cuore, così c'è anche il pellegrinaggio fisico e il pellegrinaggio spirituale. Si può essere viandanti, fare proprio l'insegnamento di Gesù anche senza una vera e propria vita itinerante lungo le strade del mondo. L'apostolo Pietro contempla questo stato nella sua prima lettera, particolarmente densa di forti richiami alla speranza.
Per rendersene conto, dobbiamo superare l'attuale traduzione corrente e rifarsi direttamente al testo originale. Si tratta del versetto 13 del primo capitolo in cui si dice: «Perciò, con i fianchi della vostra mente succinti». La Volgata aveva giustamente tradotto: «Propter quod succincti lumbos mentis vestrae».
I lombi cinti sono il segno della partenza. Nella notte della liberazione dalla schiavitù egiziana, la comunità ebraica fu invitata a mangiare così l'agnello della prima pasqua: «Lo mangerete con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la pasqua del Signore» (Es 12,11). Una bella immagine quella dell'apostolo Pietro, un'immagine ardita. Cingere i lombi della mente significa vivere come se si fosse continuamente sul piede di partenza, con la volontà pronta e gli impulsi vitali più profondi in linea con essa. Così i cristiani dovranno sempre considerarsi come viandanti incamminati verso la meta, che è l'incontro con il Signore. Pellegrini della speranza.
La mente sostituisce il passo, la volontà prende il posto del movimento fisico. È un movimento anche questo. Tutte le facoltà dell'uomo mosse dalla speranza e incamminate verso il futuro. La sequela sostituisce l'imitazione. Ma lo spirito è ripreso nella sua interezza e attualizzato nelle mutate condizioni della vita.
Per l'evangelista Luca questo atteggiamento di sospensione e di attesa ha le caratteristiche della permanenza e della continuità: «Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E, se giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro!» (Lc 12,35–38).
La mente e il cuore vivono in continuità questa aspettativa. Le ore del giorno sono le stagioni della vita. Fino dall'infanzia il cristiano vive in questa tensione, che si fa più spasmodica e stringente col passare degli anni e il maturare dell'esperienza. La vita è una corsa verso la morte, cioè verso l'incontro definitivo col Signore. Non tanto la fine, quanto piuttosto il fine del lungo pellegrinaggio, l'esaurimento di quel processo di vigilanza destinato a occupare e impegnare tutta quanta l'esistenza terrena.
Di qua e di là, da ogni parte, c'è il richiamo delle cose, l'invito a concedersi pause e riposi, la ricorrente tentazione a dimenticare la meta e ad abbarbicarsi alla terra esattamente come gli “altri”. È necessaria una vera e propria metanoia, che soltanto con fatica si riesce a far propria e con più difficoltà ancora a mantenere. È necessario remare contro corrente, risalire pesantemente la china.
Certo, la vita va vissuta nella sua pienezza, senza però perdere mai di vista il suo ultimo significato. Il sentimento del viandante è come una linea continua che attraversa tutta l'esistenza e le dà unità e coerenza. La linea retta che unisce insieme la terra al cielo e che attraversa il confine senza scossoni e imprevisti.
 
L'uomo nomade
La voce del ricercatore ci offre l'aiuto per un ulteriore approfondimento. Jacques Attali, sociologo e politologo francese, nel suo recente volume L'homme nomade (Fayard, Paris 2004), rilegge la storia umana come quella di una carovana. «Tutta la storia dell'umanità – afferma nelle prime pagine – è segnata dal marchio del nomadismo… La sedentarietà non è che una breve parentesi nella storia umana». Ognuno ne può ritrovare per proprio conto le ragioni profonde, ma il fatto sembra incontrovertibile: il nomadismo fa parte del DNA dell'uomo.
Tutto cominciò cinque milioni di anni fa, quando una specie particolare di primate, l'australopiteco, scese dagli alberi, si drizzò sulle sue due gambe e si mise a camminare a grandi passi nei paesaggi dell'Africa orientale e australe. I momenti del nomadismo sono forse i periodi più fecondi dell'umanità. Di esso l'uomo ha sempre portato nell'animo una profonda nostalgia e inclinazione che perdura tutt’oggi quando il nomadismo assume altre forme, sia attuali che virtuali. Le grandi invenzioni sono pressappoco tutte di questi fortunati momenti.
Il mondo di domani sarà insieme nomade e sedentario. La futura «mondializzazione democratica passerà per la difficile messa in pratica delle virtù del nomade (ostinazione, ospitalità, coraggio, memoria) durante le fasi sedentarie, e di quelle del sedentario (vigilanza e risparmio) durante le fasi nomadi». Per non affossare nel ripetitivo e nella pigrizia, il sedentariato avrà sempre il bisogno dello stimolo e dello spirito del nomadismo. Nella nostra civiltà opulenta, viziata e contenta, questo oggi sta riprendendo velocemente il sopravvento.
Il nomade non è la stessa cosa del pellegrino: il primo gira eternamente sui propri passi, lungo le coordinate terrestri; il secondo tende fondamentalmente a una terra che è al di là dei nostri orizzonti e appartiene alla meta–storia. Ma l'avventura terrestre dell'uomo, come è stata ricostruita dal nostro autore, può diventare la parabola di colui che si asside sugli allori e sui piaceri della civiltà raggiunta e orgogliosamente custodita. Per quest'ultimo le insidie permanentemente in agguato sono la malattia dell'obesità e la deriva della droga. Altrettanto avviene sul piano dello spirito. Sono le insidie permanenti del terrenismo.
L'obesità è la malattia tipica del nostro tempo nei paesi del benessere. Negli Stati Uniti il numero dei ragazzi obesi è raddoppiato negli ultimi venti anni. Nel futuro più della metà della popolazione del Nord sarà raggiunto da questa malattia. La malattia dei sedentari, che vogliono evitare nella loro vita ogni forma di nomadismo.
Per i giovani in particolare, poi, e per tutti in generale rimane sullo sfondo la minaccia di una forma esacerbata di nomadismo virtuale, di fuga dal presente: quello delle droghe per i viaggi estremi, che sono taciti suicidi. Tentazioni che stanno conducendo generazioni intere alla negazione dello sforzo, al rifiuto della realtà, all'immobilità beata, all'apatia irresponsabile. Due pericoli, l'obesità e la droga, l'uno legato all'altro, che minacciano le società dell'opulenza, in particolare gli Stati Uniti e l'Europa.
Una storia e, dicevamo, una parabola. Le società chiuse affogano nel loro ristagno, mancano di energie creative e sostitutive, ignorano il beneficio del ricambio e della novità. Si appesantiscono e ricercano paradisi fittizi per dare sfogo alle loro potenzialità.
Così anche il sedentario dello spirito e le comunità di cui egli fa parte. Diventare spiritualmente obesi è appesantirsi moralmente rendendosi incapaci di aspirare alle cose più alte. Il Vangelo ha messo in guardia contro questo pericolo sempre in agguato, che soltanto la coscienza dello stato di pellegrino può riuscire a superare: «State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso» (Lc 21,34).
La vigilanza richiesta dal Signore significa anzitutto mantenere sempre desto lo spirito dello straniero e del pellegrino, l'animo del viandante che va di casa in casa, di città in città, con il distacco sovrano di colui che sa di essere di passaggio. Viandanti nella società dei sedentari: questa l'ultima vocazione del cristiano. «Siate viandanti»: la risposta alle parole di Nietszche che hanno invaso paesi e nazioni, rifinendo ora nel programma del neo–paganesimo: «Vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze soprannaturali. Sono avvelenatori, lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi, avvelenati essi stessi; la terra ne è stanca: se ne vadano dunque!».
 
Il canto del pellegrino
Gabriel Marcel, l'homo viator, ci trasmette espressioni suggestive, esaltate dalla magia dell'arte, per descrivere la nostra situazione. «Etre, c'est être en route»: almeno per l'uomo, «essere, significa essere per la strada». Essere per strada non è una situazione contingente, ma la condizione stabile dell'uomo sulla terra. L'ontologia della strada, che segna nel più profondo dell'essere il viandante dell'Assoluto e che genera e rinnova ogni giorno l'atteggiamento e la virtù della speranza. La strada è propriamente il luogo della speranza. E il viandante è l'uomo della speranza. Due concetti, due realtà che si richiamano a vicenda.
È lo stesso percorso di Agostino, che la storia ricorda come uno dei più grandi itineranti alla ricerca dell'Assoluto, nel quale soltanto il cuore vincerà per sempre la sua inquietudine e la sua mancanza di pace. A lui si deve il meraviglioso canto del viandante, contenuto in uno dei più bei discorsi al suo popolo.
«Cantiamo qui l'alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare lassù, ormai sicuri. O felice quell'alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell'ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta e cammina».
Un canto che si spegne sul limitare del cammino, quando questo valicherà i confini del tempo per immergersi per sempre nella patria dell'eternità.
Giordano Frosini
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