Una donna coraggiosa. Educata a quella concezione paterna e ad un tempo materna di Dio, avverte ciò che solo una relazione autentica con l'Ineffabile può esprimere: se nonostante l'infinita distanza - Lui, il Potente, lei segnata, come ognuno di noi dalla piccolezza, dal senso del limite e della creaturalità - Dio l'ha avvolta con il suo sguardo di benevolenza,
del 18 dicembre 2008
Regina coeli, laetare, alleluja!
Quia quem meruisti portare, alleluja!
Resurrexit sicut dixit, alleluja!
 
 
 
Non alla pietra tocca  fissare il suo posto,  ma al Maestro dell’Opera che l’ha scelta.
Pietro Di Craon
 
 
Il Padre. Il Maestro dell’Opera è Lui, Dio Padre. Da Lui dobbiamo prendere le mosse per cercare di entrare nel mistero di Gesù e di sua madre.
 
Anche se il termine «padre» tende a renderci Dio più familiare, Egli rimane comunque l’Ineffabile. Ineffabile non vuol dire lontano, inaccessibile. Vuol dire indicibile con le nostre povere parole umane. E’ per questo che le immagini di Dio sono molte. Ognuno di noi tende addirittura a crearsi una propria immagine di Dio, quando non più d’una. E queste immagini corrispondono spesso, in realtà, ai nostri stati d’animo, mutevoli e contraddittori: gioia e dolore, paura e coraggio, depressione ed euforia...
 
Indipendentemente dall’adesione o meno ad una delle numerose religioni storiche, con questo Dio - proiezione dei nostri sentimenti più profondi (e anch’essi, talora, indicibili) - si crea una relazione intima, frutto di quel bisogno religioso che è universale, com’è universale la ricerca di un senso al nostro esistere. Un Dio «personale», dunque, è l’autentica novità della nostra fede. Di qui la domanda: quale relazione si instaura con questo Dio?
 
Proprio perché «le nuove forme di religiosità che si stanno sviluppando da alcuni anni insistono sulla sensibilità e sulle emozioni provate nella relazione con Dio», (1) lo psicologo Tony Anatrella avanza a questo riguardo un’ipotesi interessante. Il modello della relazione con il Trascendente sta assumendo oggi la forma (peraltro non inedita nell’esperienza dell’Occidente) del prevalere dell’irrazionale sul razionale, delle emozioni sulla ragione. Ne costituirebbero la prova un certo bisogno di fusione col divino, la sete miracolistica, una ricerca di esiti taumaturgici, il rifiorire di nuove apparizioni, di presunte quanto improbabili «lacrimazioni» di immagini mariane, in sostanza tutte quelle tendenze magiche che si manifestano con sempre maggior frequenza in questa nostra società pur così secolarizzata. Questo modello religioso, sostiene Anatrella, può essere definito «a struttura simbolica materna», in quanto frutto di una insoddisfazione affettiva, e dunque di tipo regressivo e narcisistico, collegato cioè con quel sentimento di onnipotenza che il bambino sperimenta nei primi mesi di vita nei confronti della madre, un rapporto fusionale senza differenziazione. E’ ovvio che il sentimento di questa unità indistinta verrà. presto perduta da parte del bambino proprio quando questi si accorgerà (nella fase «edipica» dello sviluppo infantile) della presenza di un «terzo», il padre, nel rapporto con la madre. Un padre che «spezza» quella relazione diadica, primaria che il bambino vive con la madre stessa, nutrice ed unico bene, e che contribuirà a riportare la relazione da un modello «fusionale» ad un modello di «alterità», perché solo con un «altro» si può intrattenere una relazione. Resta il fatto che un certo modello di esperienza «religiosa» potrebbe sostanziare la nostalgia di un’unità perduta: una religiosità appunto a «struttura simbolica materna», emozionale ed ipersensibilmente affettiva.
 
Non è questa l’esperienza di Dio della tradizione ebraico-cristiana. Il Dio della rivelazione biblica, il Dio di Gesù Cristo, il Dio di Miryam, figlia di Sion, madre di Gesù,(2) il Dio «in tre persone», che è un modo per dire il Dio della relazione e dello scambio, è invece un Dio «a struttura simbolica paterna». Egli si rivela nella storia, educa il suo popolo, attraverso la sua parola entra in comunicazione diretta e reale - come direbbe Lévinas, attraverso il «faccia a faccia» dei volti - con uomini e donne reali, da parte dei quali questa parola richiede attenzione, ascolto, e diventa supremo compito etico.
 
Il Dio guaritore, sciamano, terapeuta, non è il Dio salvatore e liberatore della tradizione biblica: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido (...). Sono sceso per liberarlo dalla mano dell‘Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele... » (Es 3,7-8). «Sono sceso per liberarlo...»: è ben altra cosa questo progetto di dimensione cosmica dalle egoistiche pretese miracolistiche che spesso accampiamo nei confronti della Divinità. Solo con questo Dio, liberatore e salvatore, si può procedere alla conoscenza di Maria e di Gesù.
Eccomi! (Lc 1,38).
Stava presso la croce di Ges√π sua madre (Gv 19,25).
 
Maria, figlia di Sion, madre di Ges√π.
 
E’ possibile comprendere la psicologia del profondo di una persona solo situandola all’interno della comunità in cui vive. Così è per Maria. Essa infatti è figlia autentica di quel popolo d’Israele che Dio ha plasmato, con una lunga e paziente opera educativa, e con il quale ha stabilito la sua Alleanza.
 
In quest’opera di liberazione (ogni vera opera educativa è sempre liberante) Dio ha mostrato contemporaneamente il suo volto paterno e materno: guida, come dovrebbe essere ogni padre, punto costante di riferimento o, direbbero gli psicologi, di identificazione («Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo»: Lv 19,2) e, nel contempo, «madre» di misericordia perché «la 'misericordia' di cui parlano le Scritture ha sfumature femminili, materne: è impastata di tenerezza, bontà, pazienza, comprensione... L’etimologia stessa del termine è indicativa. Infatti uno dei vocaboli ebraici dell’Antico Testamento usato per definire la misericordia di Dio è il termine rachamîn, plurale della radice réchem, che significa il 'grembo materno'».(3)
 
Maria è cresciuta in questo contesto religioso. Una parola di Dio ascoltata con apprensivo stupore, ma con coraggio, le ha consentito di inserirsi responsabilmente in quel progetto di liberazione annunciato. Le madonne che piangono lacrime di sangue non rientrano nell’immagine che di Maria ci consegnano le Scritture. La sua immagine vera è quella dell’esultanza e della lode:
 
L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
 
 
Una donna coraggiosa. Educata a quella concezione paterna e ad un tempo materna di Dio, avverte ciò che solo una relazione autentica con l’Ineffabile può esprimere: se nonostante l’infinita distanza - Lui, il Potente, lei segnata, come ognuno di noi, dalla tapeìnosis, dalla piccolezza, dal senso del limite e della creaturalità - Dio l’ha avvolta con il suo sguardo di benevolenza, proprio come una madre avvolge il suo bimbo in fasce, nei pannolini, non ha davvero nulla da temere. Scrive Enzo Bianchi: «...Lo sguardo di Dio è sinonimo del suo essere compassionevole: e per Dio la compassione non è un vago sentimento di pietà, ma sempre diventa assunzione di responsabilità nei confronti di colui che è nel bisogno e si tramuta in storia, in concreta sollecitudine, in gesti, in azioni che tendono a ridare integrità, pienezza di vita, in una parola salvezza». (4) Ma questa salvezza, cioè questa liberazione, o è universale o non è: non v’è nulla di più inautentico dell’interpretazione restrittiva, esclusiva ed escludente, dell’extra ecclesia nulla salus. La salvezza - quella che Maria canta come compiuta in lei e che attraverso lei raggiunge tutta l’umanità - non è per pochi, è per tutti. La Chiesa, l’ecclesia, non è un club di puri, di separati.
 
Questa è anche l’educazione che Maria e suo marito Giuseppe hanno «passato» a Gesù. Se per loro, al momento del parto, non c’era posto nella casa (cf Lc 2,7), ci sarà un tempo in cui anche Gesù non avrà una pietra su cui posare il capo. In sostanza, la «piccola» Maria comunica a Gesù un’umanità concreta, soggetta all’umiliazione, al limite, alla piccolezza appunto. Ma la forza di Dio non sta proprio, come ci ricorderà Dietrich Bonhoeffer, nella sua debolezza? A Gesù la «piccola» famiglia di Nazareth insegna la dura legge del lavoro per la sopravvivenza, la commozione di fronte alla morte degli amici, la capacità di resistere alla tentazione del benessere, del potere, dell’apparire, la sollecitudine nel chinarsi sugli sfruttati e sugli oppressi, la consapevolezza che solo Dio può leggere nell’intimo della coscienza e che dunque le prostitute potranno avere la precedenza nel regno dei cieli. Senza falsi dolorismi insegna a Gesù che patire per e con qualcuno viene ancora prima dell’agire.
 
E Maria c’era. Era lì. Presenza discreta, mai ingombrante. Come a Cana. Non hanno vino. Per essere misericordiosi non basta sentire un moto istintivo di commozione. Occorre sentire i bisogni veri degli altri. Interiorizzarli.
 
Come sul Golgota. Su quella collinetta, sotto il patibolo del figlio, in quel tragico pomeriggio di primavera, Maria c’è. Solidale con l’Innocente mandato a morte dal potere. Solidale con tutti gli innocenti della storia. In attesa con loro della risurrezione.
 
Doveva venire un pedagogo migliore, e strappar di
mano al bambino il libro elementare ormai superato.
E venne Cristo.
 
G.E. Lessing (L’educazione del genere umano)
 
Gesù di Nazareth. Parola (Logos) di Dio incarnata. Dopo la lunga attesa - la pedagogia di Dio - il Verbo entra nella storia, la quale, attraverso di lui, si fa cammino di liberazione. Questo è il mistero grande della nostra fede.
 
Si fa presto a dire mistero. Può sembrare una scappatoia. Eppure il cristianesimo non è una dottrina, un insieme di regole morali, a rigore neppure una religione. E’ un evento. Si riassume e si concretizza in una persona: Gesù. Nato a Betlemme da Miryam, figlia di Sion; vissuto per trent’anni a Nazareth; morto appeso ad una croce, dopo tre anni di predicazione del regno di Dio e della liberazione per tutti; risorto e «asceso» al cielo. Cioè vivo. Oggi, qui.
 
Inizio e fine della creazione. Verso di lui, il Cristo inviato dal Padre ad annunciare questa liberazione, si muove appunto tutta la creazione che - come ci ricorda Paolo - sarà «ricapitolata» in lui. Dunque, è nella relazione con lui, facendomi persona, che scopro la liberazione, una liberazione che a mano a mano si «fa» dentro di me, e che si realizza fuori di me, nella storia.
 
Come? Questo è il punto chiave del cristianesimo. Entrando nel «ritmo» del Cristo, dono totale, libero, spontaneo nei confronti di tutta l’umanità, di ogni tempo e di ogni latitudine. Mi libero solo amando, e non amando in modo astratto, superficiale, occasionale, emotivo, intimista, ma entrando in modo responsabile nel ritmo stesso della storia, accettando di perdermi in essa, nella scoperta dei «segni dei tempi». Certo, se guardiamo ai dettagli, neppure troppo marginali per la verità, vediamo in questa storia tutte le «strozzature» negative, i fallimenti apparenti, gli eventi tragici che i media non perdono l’occasione per sottolineare ogni giorno, con una sorta di compiacenza. Dove stiamo andando?, viene da chiedersi con angoscia. Eppure c’è nella storia un progresso, un avvicinamento alla «ricapitolazione» definitiva in Cristo garantito dall’ombra lunga che quelle tre croci, issate sulla collinetta del Golgota, proiettano su tutto il pianeta.
 
E lui, Gesù di Nazareth, figlio di Miryam, non si stanca di convocarci tutti per farci partecipi di questo progetto. Lui, realmente e autenticamente uomo, che ha sofferto fame e sete, che è vissuto senza un tetto, che si è messo in cammino con gli uomini e le donne del suo tempo, poveri e ricchi, santi e peccatori, ci chiede di proseguire questo percorso di liberazione. Di accompagnarlo, perché lui c’è. C’è nelle case bruciate da serbi ed albanesi, c’è sotto i bombardamenti «intelligenti», c’è nelle file interminabili di profughi che vagano in cerca di cibo e di alloggio. C’è tra tutti gli sconfitti della storia. C’è nell’angoscia dell’impotenza di noi tutti. La nostra risposta può essere una sola: «Io posso e devo gettarmi nel pieno del lavoro umano fino a perdere tutte le mie energie» (Teilhard de Chardin).
 
Come una madre consola un figlio
così io vi consolerò (Is 66,13).
 
A un Dio Padre compassionevole e misericordioso, a una Madre che canta con l’intera sua vita l’azione di Dio nella storia, un Dio che ha deposto i potenti dal trono e ha innalzato gli umili, e dunque solidale con tutti coloro di cui la storia vuole liberarsi, a un Figlio che accompagna tutti gli oppressi in un cammino di liberazione, cioè di salvezza, non può che corrispondere un popolo misericordioso. Un popolo «grembo» di accoglienza per tutti i piccoli e i poveri dell’umanità. «Poiché voglio l’amore e non il sacrificio...» (Os 6,6).
 
 
Note
(1) Tony ANATRELLA. Psicologia delle religioni della madre, in «Parola Spirito e Vita», n. 39, Gennaio-Giugno ‘99/1, p. 273.
(2) Si veda l’interessante articolo di ARISTIDE M. SERRA. Miryarn, figlia di Sion, madre di Gesù, In «Horeb», n. 23. maggio-agosto 1999/2, pp. 3 1-40.
(3) ARISTIDE M. SERRA, cit., p. 36.
(4) ENZO BIANCHI, Il Magnficat. Monastero di Bose. Testi di meditazione n. 80.
 
Fausto
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