Ma c'è ancora posto per gli adulti nel mondo dei giovani? Quale adulto cercano? Perché sono così lontani da noi?
del 03 gennaio 2008
Ma c’è ancora posto per gli adulti nel mondo dei giovani? Quale adulto cercano? Perché sono così lontani da noi? Perché fuggono dall’adulto, padre, madre, insegnante, prete, educatore?
Non solo i ragazzi fuggono, ma vivono in un altro territorio, in un altro continente, in uno spazio dal quale gli adulti sono esclusi. Là si aggregano, si estraniano, si autoemarginano, non «contro» l’adulto, come un tempo non molto remoto, il mitico ’68, ma semplicemente, vivendo alla loro maniera, «altrove».
E sono altrove con il linguaggio, quello dei mass-media; con il vestito, quello degli eroi o del gruppo nel quale vivono e dal quale devono farsi accettare; con i riti, incomprensibili agli adulti, che di fronte ai nuovi atteggiamenti giovanili o fuggono o lasciano fare o si impongono con un’autorità, vissuta dai giovani come il tentativo estremo di chi non capisce e vuol farsi obbedire lo stesso.
Più che scontro di generazioni, si deve parlare oggi di generazioni che camminano su strade diverse: «Due vascelli che, incontrandosi, da lontano si mandano dei segnali incomprensibili». Non aggressività, ma impossibilità di comunicare. Sembra che i giovani non vedano più come prima, non sentano, non parlino, non imparino, non camminino, non giochino come «ai nostri tempi».
Noi parliamo razionalmente, loro parlano e vivono di musica pop, di rock, di musica metallara; noi sperimentalmente, loro intuitivamente; noi, in nome dei principi, loro pragmaticamente.
È un disagio giovanile che non ha cause solo locali, ma supera i confini d’Italia e investe il mondo occidentale. Ad esso si aggiunge la fragilità di una generazione cresciuta troppo in fretta in un periodo di grandi e rapidi mutamenti, di un pluralismo a volte esasperato, di un consumismo, che usa, sfrutta e commercializza anche i più giovani, di un soggettivismo dilagante, per cui non si agisce più in base a norme universalmente riconosciute, ma sul «mi piace» o «non mi piace», «mi sento» o «non mi sento », dove l’io diventa la misura delle proprie azioni.
E da questo mondo l’adulto viene escluso. Per sempre? Non credo: vedo che l’adulto rifiutato è quello latitante, che non si prende a cuore il mondo dei giovani. Dove c’è un ragazzo solo, triste, c’è un adulto che fugge dalle sue responsabilità. Il latitante avrà mai posto nella patria dei giovani mentre quello significativo, che ha qualcosa da dire e da comunicare, che ha il coraggio di affrontare il viaggio alla scoperta del pianeta giovani, che è disponibile a mettersi in discussione, che ha delle risposte da dare ai bisogni giovanili, è accettato.
E c’è il perché: i giovani, nonostante tutto, hanno bisogno di confrontarsi e di verificarsi, di rassicurazione e di consolazione di fronte alle varie frustrazioni che il vivere comporta.
«Oggi si direbbe che dobbiamo educare i giovani a sviluppare tutta la loro personalità, l’intelligenza razionale e quella emozionale, l’intelligenza etica e religiosa, la capacità di rapporto con gli altri, l’intelligenza sociale e quella del futuro, la volontà, l’affettività, il corpo, lo spirito» (cardinal Martini). Ameremo i giovani fino a questo punto? Allora non saranno né contro né altrove.
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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