Strade di vita oscurate, per i nostri giovani? "Vorrei partire da una vicenda che mi ha colpito molto l'anno scorso. Una mia ex-studentessa mi telefonò per comunicarmi che avevano ritrovato morta in un parco di Milano una sua compagna. L'autopsia avrebbe dato il responso più prevedibile: fatale per lei il cocktail di alcool e droga..."
del 16 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
         Nel dibattito odierno sull'educazione si continua a porre giustamente l'accento sulla figura dell’adulto, sulla sua immaturità e sul suo desiderio di rimanere sempre “giovane”, nel senso di adolescente. E' la cosiddetta “sindrome di Peter Pan”.         Vorrei partire da una vicenda che mi ha colpito molto l’anno scorso. Una mia ex-studentessa mi telefonò per comunicarmi che avevano ritrovato morta in un parco di Milano una sua compagna. L’autopsia avrebbe dato il responso più prevedibile: fatale per lei il cocktail di alcool e droga. Si può morire a soli ventiquattro anni di tristezza, di solitudine nel tentativo di far tacere in ogni modo quell’«abisso di vita» che sentiamo in noi, quell’esigenza di amore, di affetto, di felicità che è quasi insostenibile quando ci si sente da soli!         Qualche mese più tardi un altro ex-studente della scuola di Milano dove insegnavo anni or sono muore in un incidente in moto. Ricordo ancora quando mi disse: «Sa professore, ho visto un film, 'Notte prima degli esami', che mi ha fatto capire perché valga la pena vivere. Un personaggio del film sostiene che nella vita è importante non quanto troviamo alla fine della strada, cioè il Destino, ma l’emozione che abbiamo provato lungo la strada». Morire a vent’anni di troppo desiderio di vita o, forse, morire a vent’anni perché nessuno ci ha mai detto perché valga la pena davvero faticare, alzarsi al mattino, prendersi le proprie responsabilità, far famiglia, …         Il messaggio di quel film, che ha avuto molto successo presso i giovani, ma soprattutto presso quella generazione di trentenni e quarantenni che con nostalgia vivono il presente rimpiangendo l’adolescenza perduta o forse mai finita, testimonia la cultura imperante oggi. Non sono tanto importanti la strada e la meta cui essa conduce, quanto l’emotività, la suggestione del momento, l’intensità dell’istante slegato completamente dal Destino, dal bene, dalla realizzazione, dal compimento.         Vivi l’istante per l’istante, sembra essere l’imperativo categorico di oggi, in un becero e superficiale carpe diem, che sprona in realtà a considerare come momenti forti solo il sabato sera, le feste, la notte, e a considerare di poco conto tutto quanto è quotidianità e normalità. La maggior parte tra gli adulti si chiedono che cosa sia successo ai giovani, così cambiati, così irresponsabili, così poco capaci di sopportare la fatica. Vi dirò con tutta onestà che io non mi sento parte di questo gruppo di adulti sempre pronti ad accusare i giovani.         La mia esperienza di insegnante mi ha portato in questi anni a verificare come i giovani, nella maggior parte dei casi, si coinvolgano quando viene fatta loro una proposta forte, decisa, vera. Non dobbiamo chiederci che cosa sia successo ai giovani di oggi, ma cosa sia successo a noi adulti. Non abbiamo più il coraggio del pensiero forte, così presi dal pensiero debole, non facciamo più proposte in cui davvero crediamo. Le proposte che facciamo sono spesso per gli altri, non per noi stessi, siamo noi i primi a non crederci. Scriveva s. Ignazio di Antiochia che «si educa bene con quel che si dice, si educa meglio con quel che si fa, si educa ancor meglio con quel che si è».         L’azione educativa mette in moto un educatore che in primo luogo deve educare se stesso. Nell’azione educativa ci sono in gioco un maestro, un giovane, una proposta o ipotesi di interpretazione del reale che il giovane deve poter verificare. Solo attraverso la verifica la persona cresce nell’esperienza. Come può fare esperienza? Confrontando quello che vive, che incontra con il proprio cuore, ovvero con la propria esperienza di felicità, di bellezza, di amore. Da questo confronto costante con il proprio cuore nasce il giudizio, senza il quale non c’è esperienza, non c’è crescita.         Il mondo degli adulti di oggi non è più capace di fare proposte forti, non è più capace di educare il mondo dei giovani ad una verifica. C’è da chiedersi se sia stato mai educato a sua volta a questo impegno serio e affascinante con la realtà. Varrebbe la pena per noi adulti leggere quel testo geniale che è Il rischio educativo da Don Luigi Giussani. In quel testo il prete scriveva: «La vera educazione deve essere un’educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso forse anche prima), il bambino può ripetere ancora: “L’ha detto la signora maestra, l’ha detto la mamma”. Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino […] l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi […]. Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quello che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono».         Noi adulti dobbiamo riappropriarci del nostro cuore, della nostra capacità di giudizio prima di poter insegnare ai nostri giovani che la vita vale davvero la pena di essere vissuta, prima di poter dire loro di confrontare sempre quanto vivono con la propria esigenza vera di felicità e di bene. Questa è una sfida che riguarda noi tutti! Troppi idoli, pochi maestri         Si assiste, così, ad una parcellizzazione del sapere e ad un affrancamento delle discipline dal Mistero e dal significato totale. Nel sistema culturale moderno, nel paradigma culturale relativistico dominante, ogni pezzo del puzzle è percepito come slegato dal disegno complessivo da costruire.         Nel mondo della scuola, ad esempio, spesso, gli insegnanti si pongono come informatori che forniscono delle nozioni, ma si disinteressano totalmente del compito educativo, che richiede il legame tra il particolare presentato e il tutto, ovvero il suo significato. Fornire ai ragazzi più pezzi del puzzle non servirà loro a capire maggiormente la realtà, nel caso in cui manchi l’immagine da ricostruire. Nell’epoca contemporanea ci sono più nozioni, più discipline rispetto al Medioevo, ma non si dispone del disegno da ricomporre, anzi in molti ambiti si nega che questo esista. Paradossalmente in questa situazione l’aumento delle informazioni potrebbe creare sempre  più confusione, come se in una stanza aumentasse il numero degli oggetti, ma non si disponessero in ordine o non crescesse lo spazio in cui disporli. Quando offriamo ad un bimbo o ad un ragazzo i pezzi di un puzzle, se desideriamo che lui possa utilmente sfruttarli, dobbiamo anche offrirgli l’immagine da ricostruire.         Nel panorama mass mediatico, invece, i giovani hanno davanti a sé molti idoli, che mostrano se stessi, non la verità e la bellezza, come risposta al cuore dell’uomo. Gli idoli non sono compagnia nel cammino dell’esistenza. Se lo fossero, mostrerebbero tutta la loro inconsistenza. Gli idoli sembrano affascinare per la loro presunta autonomia, per l’autosufficienza, come se fossero in grado di darsi la felicità da soli. L’uomo autentico, il giovane come l’adulto, percepisce che non ha bisogno di idoli, ma di maestri.         Solo apparentemente questo modello umano di divo idolatrato, non impegnato con il reale, in apparenza  solare, che non sente il peso della vita e delle difficoltà, si contrappone alla cultura intellettuale che ha caratterizzato il secolo ventesimo. La leggerezza dell’io è l’altra faccia della medaglia dell’insostenibile pesantezza di una realtà percepita come assurda e inconoscibile, carcere tetro e ragnatela che impedisce di evadere. La leggerezza dell’essere è conseguenza dell’incapacità a reggere un rapporto vero con la realtà, che è diventata insopportabile, una volta che si è fatto fuori il Mistero, il Creatore, il Destino, una volta che si è soli e che ci si percepisce da soli. L’uomo leggero, così come è veicolato dai mass media, non comunica davvero, non si mette in relazione con gli altri, è autonomo, non ammette responsabilità, non si prende cura degli altri, ma solo di se stesso. O così almeno crede.         Se è difficile o addirittura impossibile sostenere l’uomo e la sua speranza, allora è preferibile scordarsi dell’uomo e della sua domanda. Infatti, una volta persa la chiave di accesso al reale, questo non è più affrontabile. Quando non si guarda più in profondità la realtà con lo stupore del bambino, quando la realtà non è più segno di Altro e possibilità di inoltrarsi in un senso, allora l’unica possibilità è escludere il reale ed evadere in un mondo che non ha problemi. Crediamo che sia questa una delle possibili interpretazioni del desiderio della cultura contemporanea di non sottostare al reale, ma di creare col pensiero (l’esito è l’ideologia) o di evadere in mondi virtuali e immaginari.         Per questo oggi sempre più è necessaria la presenza di maestri. Il maestro, colui che guida e che è autorevole, non rimanda mai a sé come risposta ai problemi della vita, ma comunica altro, indirizza al bene e conquista gli altri proprio perché non avvinghia a sé. Il maestro sprona al «desiderio del mare aperto», non si sofferma sulla noia del particolare slegato dal desiderio di navigare. Come descrive bene questo atteggiamento Antoine de Saint Exupery nella Cittadella quando scrive: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini. Ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito».         Se si togliesse la brama del navigare, per quale motivo si dovrebbe faticare a tagliare la legna? E ancora, come si può educare qualcuno intimorendolo, facendo pensare che nella vita bisogna avere soltanto paura? Che cosa possiamo dare a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri studenti, alle persone cui vogliamo bene se non il bello e il vero che incontriamo? I divi idolatrati, invece, presentano sé come la soluzione. Nella Cittadella compare ancora la figura del capo che istruisce i generali spronandoli ad essere pienamente uomini mantenendo vivo il desiderio. Confessa loro: «La torre, la roccaforte o l’impero crescono come l’albero. Esse sono manifestazioni della vita in quanto è necessario che ci sia l’uomo perché nascano. E l’uomo crede di calcolare. Crede che la ragione governi l’erezione delle sue pietre, quando invece la costruzione con quelle pietre è nata dapprima dal suo desiderio. La roccaforte è racchiusa in lui, nell’immagine che porta nel cuore, come l’albero è racchiuso nel seme. I suoi calcoli non fanno altro  che dare forma al suo desiderio e illustrarlo. […] Voi perderete la guerra perché non desiderate nulla».         Sono parole profetiche quelle di A. de Saint Exupery, che nel contempo indicano un punto da cui ripartire, per i giovani come per gli adulti: il desiderio infinito del cuore. Questa è la strada per vincere la sfida educativa.
Giovanni Fighera
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