Dopo gli incidenti stradali, il suicidio è la principale causa di decesso tra gli adolescenti. Fenomenologia, cause culturali e rimedi terapeutici illustrati da un celebre psichiatra. Intervista a Vittorino Andreoli...
del 20 settembre 2005
Intervista di Gabriele Zanatta a Vittorino Andreoli (nato a Verona nel 1940. Ha lavorato in Inghilterra all'Università di Cambridge e negli Stati Uniti.  È stato direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona - Soave. Collabora con numerose testate nazionali).
 
Professor Andreoli, una recente indagine di Crisis Center (Centro di consultazione specifico sul suicidio) ha evidenziato che, nella sola area di Milano, si contano oltre mille tentativi di suicidio all’anno tra i ragazzi sotto i 20 anni. Il suicidio rappresenta la seconda causa di morte tra i giovanissimi dopo gli incidenti stradali.
Occorre fare subito delle precisazioni. Innanzitutto, purtroppo, è dimostrato che in molti casi anche i decessi giovanili causati da incidenti stradali sono in realtà dei suicidi mascherati, auto-soppressioni che, inconsapevolmente o meno, scelgono la strada come teatro della fine. Ma è soprattutto necessario ribadire che c’è una grossa differenza tra i soggetti che commettono suicidio (o quelli che, essendo seriamente intenzionati a commetterlo, per qualche imprevisto non ci riescono) e coloro che tentano di commetterlo senza avere il reale desiderio di togliersi la vita.
 
Qual è la differenza?
Si tratta di due casistiche diverse che nascondono motivazioni molto differenti. Nel primo caso lo scopo è l’auto-soppressione: il ragazzo pensa che la vita sia un luogo inadatto, un teatro in cui non   riesce ad esprimersi. Nel caso del tentato suicidio, invece, i tentativi non sono fatti allo scopo di morire ma paradossalmente per poter vivere, per continuare a esistere in maniera diversa. Sono gesti drammatici con cui l’adolescente chiede aiuto o maggior considerazione da un genitore, un amico, dalla scuola o da un partner. Gesti che spesso, purtroppo, per valutazioni sbagliate, come l’assunzione di un numero troppo elevato di sonniferi, sfociano in tragedie.
 
L’Italia è penultima in Europa in questa amara classifica.
Sì, è un fatto che il tasso di suicidi giovanili nei Paesi del Nord Europa è superiore a quello dei Paesi mediterranei. E che anche in Italia, nelle regione settentrionali il fenomeno è più frequente che al Sud.
 
Come si spiegano queste differenze?
I motivi sono due. Intanto la depressione, negli adolescenti ma anche negli adulti, è più diffusa nei Paesi freddi, privi di colore, in quelle aree in cui il sole in certi periodi dell’anno non compare quasi mai. Non è un caso che gli psichiatri norvegesi, per curare i pazienti afflitti da depressione, consiglino loro di recarsi nei mari del Mediterraneo. La seconda ragione coinvolge il ruolo della famiglia: le famiglie del sud italiano o europeo sono certamente molto più compatte, a volte persino in maniera ossessiva. Nel nord è più facile che un ragazzo avverta solitudine, freddezza o silenzio all’interno delle quattro mura. Perché, in generale, la famiglia nei Paesi del nord è un’istituzione molto meno celebrata che da noi: in Inghilterra il tasso di divorzi è molto elevato. E chi decide di rimanere insieme lo fa molto spesso per meri motivi economici.
 
Il suicidio di un figlio viene spesso taciuto o nascosto dai genitori.
Sì, perché un ragazzo che rifiuta di vivere senza conoscere ancora le possibilità che questo mondo ancora gli riserverà viene visto come una sconfitta non solo dai genitori ma anche dagli stessi medici, ai quali spetta l’onere di certificare le morti per suicidio. Spesso un suicidio non viene catalogato come tale perché i medici non indagano a sufficienza sulla bugia riferita dal genitore. Ma è comprensibile in una cultura cattolica come la nostra.
 
Cosa intende dire?
La cultura cattolica è sempre stata severissima in materia di suicidio. Si pensi a Sant’Agostino, che arrivava a tollerare l’omicidio ma non il suicidio. Il retaggio è durato fino a pochi anni fa, quando  a chi commetteva suicidio veniva perfino negata la cerimonia funeraria in Chiesa. C’è dunque ancora una forte componente culturale e cattolica. E questa cultura ancora condiziona l’agire della gente, ha finito col diventare comportamento: è la radice di quel senso di fallimento in cui i genitori di un ragazzo suicida provano rimorso, senso di colpa, paura e timore di non aver fatto abbastanza. Sentimenti che non pervadono i genitori che perdono un figlio a causa di malattie di qualsiasi altro genere fisico.
 
È anche vero che sono numerosi gli esperti che incoraggiano i genitori ad anestetizzare questa forma di disagio sublimandola nel silenzio anche per evitare forme di istigazione ed emulazione di altri ragazzi. Cosa ne pensa?
Sì, io sono d’accordo con quest’atteggiamento: ho sempre sostenuto che non si deve far spettacolo intorno ai suicidi. I mass-media devono sempre fare attenzione, evitare di parlare di quest’argomento in toni sensazionalistici o strillati. Perché nel periodo adolescenziale il darsi la morte ha un fascino particolare. Se un giornalista condisce la cronaca di un suicidio adolescenziale svolgendo narrazioni fascinose o spettacolari, può stimolare quella predisposizione naturale che a quell’età i ragazzi hanno verso forme di vita eroica, che si concludono sempre con la morte. L’eroe greco, si sa, per essere tale deve per forza morire. È giusto quindi parlarne nei toni che stiamo usando ora: pacati e riflessivi.
 
Esistono casi in cui un suicidio adolescenziale ne ha innescati altri?
Purtroppo sì. C’è un famoso caso di un film del 1961 che mostrava un suicidio nella metropolitana di Montreal. Nelle due settimane successive al debutto nelle sale di quella pellicola il numero di suicidi tra i giovani salì in maniera vertiginosa. E in tutti i casi teatro e dinamiche del suicidio furono sempre quelle: gettarsi sotto i vagoni di un treno del metrò. Un altro episodio famoso ci porta indietro di qualche secolo, quando Goethe scrisse “I dolori del giovane Werther” a Milano furono bruciate intere edizioni del romanzo perché, anche qui, i suicidi da emulazione erano aumentati notevolmente.
 
A quali spie devono fare attenzione genitori e insegnanti per anticipare possibili gesta tragiche dei loro figli o alunni?
Hanno ruoli diversi. I genitori devono dare ascolto costante all’affettività e ai sentimenti dei loro ragazzi; gli insegnanti devono saper valutare le partecipazioni e le motivazioni del loro saper stare a scuola, di giocare con gli altri. Entrambi devono saper interpretare eventuali tendenze all’isolamento. Che non significa preoccuparsi ogni volta che l’adolescente si ritira nel suo mondo. Conoscere il proprio figlio non vuol dire fare continue radiografie ai suoi comportamenti, ma stabilire relazioni solide che hanno poi fondamentali rimandi affettivi. L’interesse ai loro progetti, la condivisione dei valori e l’ascolto sono molto importanti, necessari.
 
Come deve comportarsi invece un genitore con un figlio che ha tentato di commettere un suicidio ma che non aveva in realtà intenzione di farlo?
Esaudire la sua richiesta d’aiuto. Chiedersi e chiedere al ragazzo che cosa gli manca, qual è il suo problema. Capire insomma le cause di quella richiesta estrema. Più di ogni altra cosa, è fondamentale che insegnanti o genitori non s’improvvisino terapeuti, ma cerchino di stabilire in anticipo segnali di uno stato d’animo che ha in sé un gesto in potenza tragico. Individuarlo, dunque, e poi chiedere aiuto al terapeuta.
 
Quanto sono efficaci gli strumenti della psicologia?
Molto efficaci ma anche qui, come in ogni professione, gli strumenti della psicopatologia funzionano se ci si rivolge a professionisti che sanno applicare correttamente i suoi princìpi.
 
Quali sono questi princìpi?
Le manifestazioni delle tendenze suicide possono avere tre manifestazioni. Primo: l’adolescente può non amare il mondo in cui si trova, non amare più i genitori, la casa, si vede brutto, pensa alla morte come un mondo altro, un mondo della metamorfosi, di fiaba, utopico. La morte è fascinosa perché la sua esperienza diretta in questo mondo non lo è. In questo caso lo psicopatologo deve condurre un’indagine sulla vita di quel ragazzo, scoprire quali sono le sue paure, come vive nel mondo, qual è il suo attaccamento alle persone, gli appigli che uno ritiene più importanti per poter rimanere aggrappato a questo mondo. Una seconda casistica può avere a che fare con la depressione giovanile, fenomeno che 10-15 anni fa quasi non esisteva. In questo caso il compito dello psicopatologo è andare a vedere se il ragazzo è in preda alla depressione, che è comunque una patologia che deve essere seguita attentamente. Chi vede tutto nero, lo vede anche dove c’è luce, purtroppo anche di fronte a un padre che lo ama. Se c’è una depressione in atto o in divenire bisogna assolutamente intervenire in fretta. Alle origini di un pensiero auto-soppressivo ci può essere, terza casistica, una delusione, una frustrazione, il desiderio di fuggire da un teatro che, per motivi diversi, può aver messo in scena una delusione cocente. Lo psicoterapeuta deve qui capire se per il ragazzo questo teatro è il teatro della vita.
 
 
Fonte: www.viator.it 
Gabriele Zanatta
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