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Gli atteggiamenti dell'educatore: saper «vedere»

Il lavoro dell'educatore e dell'animatore è fatto di idee e di azioni, di progetti e di rischi, di desideri e di emozioni. Dietro ogni gesto si cela una convinzione, una intenzionalità (talvolta inconscia), una speranza. L'azione educativa scaturisce da un pensiero, anche quando resta implicito. L'educazione inizia dallo sguardo.


Gli atteggiamenti dell'educatore: saper «vedere»

da Quaderni Cannibali

del 19 gennaio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          Il lavoro dell’educatore e dell’animatore è fatto di idee e di azioni, di progetti e di rischi, di desideri e di emozioni. Dietro ogni gesto si cela una convinzione, una intenzionalità (talvolta inconscia), una speranza. L’azione educativa scaturisce da un pensiero, anche quando resta implicito; c’è sempre, alla base, un’etica e una epistemologia, ovvero una persuasione di che cosa significhi educare, di quali criteri ispirino le scelte, di quale sapere sia necessario per farlo, di come si costruisca la conoscenza delle persone e dei modi per rendere efficace la propria azione. Il «metodo», prima ancora che una sequenza ordinata di azioni, è questo insieme di valori, di opzioni e di operazioni mentali.

          Ma non sempre chi lavora in ambito educativo è consapevole del sapere implicito nei propri gesti quotidiani, non sempre sa rendere ragione delle tecniche a cui si affida, o ha l’abitudine di meditare sui propri vissuti. Questo articolo vuol essere uno spazio di riflessione su alcuni atteggiamenti fondamentali dell’essere educatore e del fare educazione.

Perché quando si ha a che fare con l’esistenza, la scienza non basta: ci vuole la vita.

«Ci sono pochissimi occhi in cui esiste lo sguardo»(A. Giacometti)

  

Si incomincia sempre col guardare 

          Fra le interpretazioni più diffuse del termine «educazione» prevale quella (certamente indotta dal senso etimologico della parola) che identifica l’educare con il «tirar fuori», con l’atto, cioè, di riconoscere in qualcuno delle potenzialità e svilupparle, di portare a piena realizzazione il disegno implicito e latente che lo abita e che ne fa una persona unica e irrepetibile. Questa accezione – va detto – è forse soltanto parziale: e-ducere può voler dire altrettanto bene «condurre fuori» nel senso di «portare oltre», di prendere per mano – come faceva l’antico paidagogos – e accompagnare l’altro alla scoperta di nuovi orizzonti, introdurlo in mondi a lui ancora sconosciuti, o semplicemente indicargli la via attraverso la quale trascendere la situazione in cui è «gettato», superare i limiti entro cui si trova a vivere, e insegnargli ad ex-sistere, ossia a «stare fuori» di sé, a rivolgersi al mondo e a progettarsi attraverso l’esercizio della scelta,[1] che lo sottrae all’inautenticità di una condizione in cui tutto rischia di essere già detto e già deciso (dalle disposizioni genetiche, dalle condizioni socioeconomiche, dall’ambiente culturale, ecc.).

          Ma al di là di questa polarità fra entrare-in-sé e uscire-da-sé che costituisce la meccanica spirituale di ogni processo di crescita, di apprendimento e di maturazione umana, mette conto rilevare che il termine stesso «educazione» suggerisce un «partire dal soggetto» che non può essere mai eluso; si tratta, beninteso, un soggetto concreto, situato, unico – non del soggetto «oggettivato», astratto, generale e privo di un’identità determinata che si incontra nelle teorie (anche pedagogiche) e tra le pagine dei libri.

          Ciò significa, in fondo, soltanto una cosa: che il primo atto autenticamente «educativo» non consiste mai immediatamente nel «fare qualcosa», nell’intervenire o nell’agire, ma nello sforzo di «comprendere qualcuno», e cioè in quella «passività attiva», recettiva e non intrusiva,[2] piena di pazienza e di attenzione, che si preoccupa anzitutto di ascoltare e di capire. Di cogliere il profilo unico di ogni individuo e di ogni situazione. Perché forse la prima violenza che si può fare alle persone – ancor prima del costringerle ad essere come noi le vogliamo – sta nell’averle già pensate prima ancora di incontrarle, nel darle per scontate, nel sussumerle totalmente entro schemi prefissati, entro aspettative già definite, entro progetti già elaborati, e così via.

L’educazione, insomma, inizia dallo sguardo. Non sempre, del resto, bastano gli occhi per «vedere» ciò che è più essenziale.

          Ci sono sguardi affrettati, incostanti, superficiali, presuntuosi, sospettosi – e nessuno di essi è capace di vedere davvero. Lo sguardo pedagogico non può essere quello di chi già tutto conosce in anticipo, perché pre-sumere di sapere impedisce di farsi domande e, quindi, di incontrare davvero l’altro. L’educatore sa sempre di «non sapere» abbastanza, e per questo ha bisogno di tenere gli occhi aperti: perché nulla di ciò che ogni persona ha in sé di nuovo e di inedito gli sfugga. Lo sguardo pedagogico non può neppure essere quello di colui che semplicemente «fotografa» la realtà, come in una diagnosi accuratissima ma senza speranza, o che si accontenta di capire e di spiegare ciò che vede, come spesso fa la scienza, senza però poter dire alcunché sul senso delle cose.

          L’educatore, per questo, ha bisogno dello sguardo dell’amore che genera vita, di quell’amore – come diceva Viktor Frankl – che è capace non soltanto di cogliere l’altro nella sua unicità e di accettarlo per quello che è, ma anche di intuire ciò che egli non è ancora: «non solo vederlo per quello che veramente è, ma soprattutto per quello che egli può e deve diventare».[3]

 

«Occhi spalancati» sul mondo 

Il primo atteggiamento dell’educatore consiste allora nel suo modo di guardare il mondo e gli altri.

          Anche la fenomenologia, a ben vedere, è una questione di sguardo. Essa non rappresenta una teoria (l’ennesima) sul mondo e sulle cose, ma «un metodo nuovo» [4] della conoscenza, in contrapposizione a quello oggettivante e naturalistico delle scienze positive. Lo stesso Husserl riconduce questo metodo a «un puro guardare»,[5] e quando la sua allieva Edith Stein tenta di spiegare l’essenza dell’atteggiamento fenomenologico, lo definisce come un tenere «gli occhi spalancati» [6] sul mondo e sulle cose. Si tratta, dunque, di affinare lo sguardo sull’esperienza e di ritrovare, alimentandolo, quello stupore di fronte al mondo e quell’attenzione non frettolosa al suo manifestarsi, che impedisce di ricondurre ogni fenomeno nella sua irriducibile singolarità (ogni persona, ogni situazione) al già detto, al già visto, al già saputo.

È, questa, una qualità assolutamente necessaria per chi è quotidianamente impegnato nel lavoro educativo e di cura.

          Per realizzarla, occorre però un faticoso percorso di disciplina interiore: bisogna infatti mettere «tra parentesi», «fuori circuito», rinunciare almeno inizialmente e non far immediatamente uso di tutte le precomprensioni che ci provengono dal senso comune, dall’abitudine, dalle certezze scientifiche, dalla chiacchiera dei media, o dalla nostra esperienza pregressa.

          Questa epoché (sospensione del giudizio) educa a star «fuori» dai modi consueti del conoscere, che perlopiù consistono nel ricondurre il nuovo a qualcosa di già noto per spiegarlo, uscire dalle modalità convenzionali o stereotipate di rappresentarsi le persone, di interpretare i loro problemi, di rispondere ai loro bisogni. Edith Stein descrive così questo atteggiamento:

          «Non tener conto delle teorie sulle cose, escludere, ove è possibile, tutto ciò che si ascolta, si legge o che si è costruito da soli, avvicinarsi ad esse con uno sguardo privo di pregiudizi e attingere ad una visione immediata. Se vogliamo sapere cos’è l’essere umano dobbiamo porci nel modo più vivo possibile nella situazione in cui facciamo esperienza del suo esserci, vale a dire di ciò che noi sperimentiamo in noi stessi e di ciò che sperimentiamo nell’incontro con gli altri».[7] 

          Le persone, in effetti, non si comprendono se non incontrandole, e l’unica possibilità che abbiamo di conoscerle davvero è che loro ci si manifestino. Per questo motivo, nelle professioni d’aiuto, la relazione interpersonale, molto prima di essere una mera tecnica che potenzia l’efficacia dell’intervento, costituisce il contesto di senso entro il quale avviene la comprensione e si dischiudono le autentiche possibilità dell’esistenza.[8] È la relazione da persona-a-persona, infatti, che produce e scatena le potenzialità formative dell’incontro: con se stessi e con il mondo.[9]

          Qualunque dottrina filosofica o teologica, qualsiasi descrizione scientifica di cui possiamo disporre, in quanto astratta e generalizzata, riguardando tutti, non parla di nessuno in particolare. Un trattato di sociologia, o di medicina, o di psicologia clinica, per esempio, possono contenere una descrizione accurata di condizionamenti sociali, di patologie o di sintomi psichici che interessano in alcuni casi gli esseri umani, ma in nessun caso possono contenere e prevedere il modo unico di quella singola persona di star «dentro» quei condizionamenti o il significato personale che essa attribuisce all’esistenza nonostante la malattia e la sofferenza – e ciò nondimeno sono proprio queste le cose che maggiormente riguardano la cura educativa.[10]

 

«Vedere» con il cuore 

          Quello che permette di conoscere le persone e di accompagnarle in un itinerario di formazione, non è allora uno sguardo puramente intellettuale, distaccato, asettico, «oggettivo». È, piuttosto, lo sguardo emotivamente connotato di chi protende «le rabdomantiche antenne del cuore»[11] per cogliere il progetto segreto, l’intimo desiderio e il sogno di ciascuno, di chi è capace – per utilizzare un ossimoro suggestivo – di «guardare ascoltando».[12]

          Lo sguardo puramente oggettivo dis-umanizza l’uomo, mentre «il modo migliore per comprendere un altro essere umano (...) è di entrare nella sua Weltanschauung e riuscire a vedere il suo mondo attraverso i suoi occhi».[13] Questa capacità di sintonizzarsi sull’esperienza vissuta (Erlebnis) dell’altro per mettere in atto gesti di cura appropriati e non impersonali e standardizzati, si fonda su quell’atteggiamento che nella tradizione fenomenologica è stato definito con il termine «empatia» (Einfühlung). Comprendere empaticamente significa riuscire a porsi in ascolto profondo dell’altro, nel tentativo – sempre precario e imperfetto – di cogliere il suo modo di pensare, di sentire e di essere-nel-mondo.

          Quando questo accade, le persone si stagliano finalmente dallo sfondo uniforme e opaco della quotidianità ed emergono finalmente nella loro fisionomia, nella loro unicità irriducibile. È questa l’essenza dello stupore, che non è necessariamente l’esperienza di qualcosa di eccezionale, ma un modo eccezionale di vedere anche le cose più consuete: «in esso si fa esperienza dell’apparire del qualcosa di comune, ma sempre e solo in quanto ciò che appare (…) è l’essere – nient’affatto comune, ma anzi esclusivo – del qualcosa nel suo proprio modo d’essere che è quello di essere proprio quel determinato qualcosa».[14] Se trasponiamo questa osservazione all’esperienza delle persone, dobbiamo dire che la capacità di stupirci rappresenta l’unica possibilità che abbiamo di rispettarle e di conoscerle per quello che sono, senza ridurle semplicemente ai nostri automatismi cognitivi e senza ingabbiarle nelle nostre aspettative. 

          Anche questo è vedere. «Non si tratta di un vedere con gli occhi», osserva lo psichiatra Binswanger, «eppure si tratta di una presa di coscienza immediata, di un ‘vedere dentro’ che non ha nulla da invidiare alla conoscenza sensoriale».[15] Il cuore, di fronte a questo compito infinito, è un organo perfino più perspicace della ragione: perché capace di s-velare le ragioni di un altro cuore, anche quelle apparentemente più «irrazionali».

Il sentire, insomma, fa parte del conoscere. Anzi, nell’ambito della conoscenza personale il sentire ci permette di accedere nei luoghi più riposti e nei chiaroscuri dell’anima, laddove nulla possono i potenti fasci di luce della ragione. Per questo, come è stato detto, «l’opera di chiarificazione del fenomenologo è costantemente basata sull’esercizio di organi raramente attivi nel filosofo al lavoro – i sensi e il cuore, la sensibilità sensoriale e quella affettiva».[16]

          La vita emotiva, dunque, non è il regno incostante e inattendibile del soggettivo, ma il luogo di una conoscenza diversa: quella che procede non dall’oggettivazione, bensì dalla relazione. Come sottolinea Eugenio Borgna: «ciò che rende la vita emozionale, l’affettività, premessa essenziale a ogni cura, è il fatto che in essa c’è sempre relazione e, cioè, costruzione, sia pure a volte fragile e frammentaria, di dialogo e di ascolto, di silenzio e di contatto: di intersoggettività».[17] Naturalmente non vi è intersoggettività o empatia se non sulla base di una certa «risonanza» emotiva, e ogni tentativo di «epurare» il lavoro di cura da questo coinvolgimento equivale al rischio di lasciarla degenerare in un «prendersi cura» incurante e privo di umanità.[18] La possibilità di lasciarsi «colpire» emotivamente da una situazione umana è invece l’unico atteggiamento da cui scaturisce l’autentica responsabilità.

Un noto passo evangelico lo dice in maniera emblematica: 

          «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò in una locanda e si prese cura di lui…» (Lc 10, 25-37). 

          La misericordia/compassione richiamata nel testo designa un’emozione quasi fisica, un fremito interiore, una com-mozione: è un sentimento viscerale simile all’amore della madre che ha portato il suo bambino nel grembo e pertanto lo «sente» come una parte di sé, e coglie i suoi sentimenti e i suoi bisogni come fossero propri. Il verbo esplanchnísthe (qui tradotto con «ne ebbe compassione») si ritrova, non a caso, nella parabola del «Padre misericordioso» (Lc 15, 11-32), e anche qui esprime un’esperienza affettiva in cui vedere e sentire sono un tutt’uno: si tratta di un vedere che non può restare estraneo, ma anzi mette in grado di dis-allontanare l’altro per «farsi prossimo». Non si tratta tanto di un vedere e poi sentire qualcosa a riguardo, quanto piuttosto di un sentire che rende capaci di «vedere» davvero!

          Il sentire mi permette di cogliere l’altro non come un estraneo che mi è indifferente, ma come un destino che «mi ri-guarda» ed esige da me una risposta. L’etica della cura (anche della cura educativa) nasce qui: da uno sguardo capace di commuoversi. L’amore, in questo caso, non è «cieco», come vorrebbe un noto adagio popolare, ma al contrario vede quello che sfugge ad altri sguardi – e in questo senso è vero piuttosto l’antico principio che Riccardo di S. Vittore ha distillato dalla sua esperienza mistica: Ubi amor, ibi oculus. 

[1] Cf V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, Erickson, Trento, 2006, pp. 43-48.

 

[2] Cf L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano, 2006.  

[3] V.E. Frankl, Come ridare senso alla vita, Paoline, Milano, p. 111. 

[4] E. Husserl, L’idea della fenomenologia, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 53. 

 

[5] Ibid., p. 56.

[6] E. Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma, 1998, p. 37.

 

[7] E. Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2000, p. 66. 

 

[8] Cf D. Bruzzone, Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo, Carocci, Roma, 2007.

 

[9] Cf R. Guardini, Persona e libertà, La Scuola, Brescia, 1987, pp. 27-47.

[10] Cf D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, Trento, 2007, pp. 161-183.

 

[11] E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 80.

 

[12] Cf P.A. Rovatti, Guardare ascoltando, Bompiani, Milano, 2003. 

 

[13] A.H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio, Roma, 1971, p. 25.

[14] S. Petrosino, Lo stupore, Interlinea, Novara, 1997, pp. 74-75. 

[15] L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 8.

 

[16] R. De Monticelli, L’ordine del cuore, Garzanti, Milano, 2003, p. 62.

 

[17] E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, cit., p. 188. 

[18] Cf M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, pp. 153-158.

Daniele Bruzzone

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