«Abbandono per qualcosa di più», disse. «Vado in monastero. Ho ottenuto tutto quello che volevo, ma non mi basta»
Quando la promessa del baseball americano, Grant Desme, allora 23enne, decise nel 2010 di lasciare una carriera appena cominciata, il mondo della major league e i suoi fan rimasero scioccati. Desme amava quello sport, le feste, le macchine e il pianeta in adorazione ai tuoi piedi. O almeno così sembrava quando lo si vedeva sfrecciare sul suo Suv, sempre circondato da «persone che ti vogliono stare vicine». In effetti, al giocatore sembrava di aver ottenuto «la felicità che pensavo si trovasse dietro l’angolo»: ancora nella minor league, aveva già battuto 31 fuori campo in una stagione, e poi altri 11 passando a giocare nella Arizona fall league, dove nel 2009 si aggiudicò il premio di miglior giocatore dell’anno. Ma proprio quando gli Oakland Athletics avevano iniziato a fantasticare sul futuro del campione, firmando un assegno di 430 mila dollari, lui si tirò indietro.
«AVEVO TUTTO». A sconvolgere ancor più il mondo dello sport le dichiarazioni di Desme: «Abbandono per qualcosa di più», disse. «Vado in monastero. Ho ottenuto tutto quello che volevo, ma non mi basta». Desme proprio quell’anno aveva attirato l’attenzione di quasi tutte le squadre della Major League, non avendo sbagliato un colpo e vincendo tutto quello che poteva. Di lui il general manager Billy Beane aveva detto che era «un grande talento» e che «avrebbe fatto ancora di più». In un’intervista rilasciata ieri al National Catholic Register, fra le poche dopo la decisione di entrare in convento, Desme, ora frate Matteo, ha spiegato la sua scelta: «Non riuscivo mai a ottenere la gioia completa, quella che attendevo. Vivevo tante emozioni, ma nessuna durava».
TUTTA LA VICENDA. Per capire i motivi di questa strana decisione occorre fare un passo indietro. Nel 2007 il ragazzo, in seguito ad un infortunio, Desme visse qualche mese lontano dai riflettori. Il silenzio e la calma portano a galla un’inspiegabile insoddisfazione. Fu in quel momento che il giovane talento iniziò «interrogarsi su Dio» e «entrare in contatto con quei frati». Una breve parentesi, nel tourbillon della vita d’atleta che riprese di lì a poco, lasciando però quella domanda in qualche angolo dell’anima.
Diversamente da tante storie hollywoodiane che abbiamo visto sui grandi schermi – quelle in cui la catarsi del protagonista avviene dopo una tragedia o un evento negativo, la conversione definitiva di Desme avvenne non dopo un fallimento, ma quando si trovava all’apice della fama e della gloria. Fu allora, sono le sue parole, che «compresi che Gesù mi stava chiamando». Un’invito d’amore, lo definisce il giovane, «non una via scelta per evitare il peccato». Perciò, «quando lasciai il gioco non mi mancava. Ero felice di lasciare il baseball per Dio. Ho giocato tutta la mia vita, quindi la squadra era diventata la mia seconda natura. Cercavo lo stesso per la mia vita spirituale: un gruppo di uomini che lavorano insieme per lo stesso comune obiettivo. La vita solitaria non mi è mai piaciuta».
Desme è entrato così nel monastero di San Michael in California, che conta tanti giovani novizi. È lì che «ho riscoperto il vero gusto del baseball: quando era il mio idolo non mi riempiva il cuore, ora che è semplicemente un gioco, ne godo», come succede sempre quando «non ti aspetti dalle cose più di quello che possono darti», quando «le tratti per quelle che sono».
100 VOLTE PIU’FELICE. «Potrebbe sembrare di perdere qualcosa, ma qualsiasi cosa offri a Dio lui ti dà sempre indietro cento volte tanto», ha spiegato ancora. Non solo, «l’apice della mia umanità maschile l’ho raggiunto seguendo Gesù», scoprendo che «più segui un altro più sei felice» e che «essere uomini veri non c’entra con il farsi valere sugli altri, ma con l’aiutarli a rialzarsi».
L’ex giocatore ha detto che «la religione cristiana non è una cosa vaga che non vale la pena di essere considerata come spesso si pensa», ma l’incontro con «Dio incarnato. Lo stesso identico Gesù del Vangelo, che guarisce i malati e concede con abbondanza altre grazie ai peccatori, vive tra noi sacramentalmente. L’apparenza è diversa, ma il Dio fatto uomo è lo stesso». Ora si capisce perché «molti che pensano alla vita religiosa come miserabile sarebbero sorpresi di vedere quanta felicità c’è in monastero».
Forse è più facile per una star abituata al sacrificio e al gioco di squadra, a sforzarsi per arrivare. Non proprio, risponde frate Matteo, spiegando come con Dio sia al contrario tutto più semplice: «Ammettendo la nostra debolezza e chiedendo aiuto si diventa capaci di fare cose che parevano impossibili». Nessun rimpianto? Ricco come l’apostolo di cui ha preso il nome, frate Matteo spiega che lasciando ogni cosa ha ottenuto «l’unica che durerà per l’eternità: la nostra relazione con Dio».
Benedetta Frigerio
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