Visconti ha toccato uno dei nodi fondamentali della sua opera: la famiglia come rifugio. Si direbbe che Visconti abbia voluto esprimere in forma metaforica un suo drammatico stato di coscienza: quello appunto di un intellettuale aristocratico che ha preferito vivere in compagnia dei morti, delle parole morte, delle cose morte...
del 24 novembre 2005
Regia: Luchino Visconti
Interpreti: Burt Lancaster, Silvana Mangano, Helmut Berger
Origine: Italia/Francia 1974
Durata: 120’ 
Un anziano professore vive in solitudine, in un appartamento della vecchia Roma, circondato dai quadri di cui è collezionista: tutti ritratti di gruppi famigliari. Bianca, una signora “bene”, lo convince ad affittarle l’appartamento del piano superiore, dove intende sistemare il suo giovane amante Konrad, la figlia Lietta e il suo fidanzato. L’austero professore rimane sconcertato dalla volgarità dei suoi inquilini e dai rapporti che li legano, ma è tuttavia toccato dalla franchezza di Lietta e dalla contraddittoria personalità di Konrad, che ha un passato di studi e di attività politica. Quest’ultimo è compromesso in loschi traffici: una notte viene aggredito e ferito e il professore lo nasconde nel suo appartamento. Tra i due sembra stabilirsi un contatto. In seguito Konrad torna alla sua solita vita e Bianca alle scenate di gelosia. Il professore, disgustato, non vorrebbe più vedere nessuno di loro, ma ben presto si rende conto che essi costituiscono ormai la sua “famiglia” e li invita a cena per una riconciliazione.
 
 Hanno detto del film
Visconti ha toccato uno dei nodi fondamentali della sua opera: la famiglia come rifugio. Gli stessi quadri del professore non sono del resto che un’eccellente metafora dei film di Visconti: tutti “ritratti di famiglia”. Ma, a differenza delle altre famiglie viscontiane, quella del professore è puramente immaginaria: la proiezione di figure famigliari in un gruppo di estranei. E questo rivela la sua funzione riflessiva. Il professore si sente garantito della propria identità, finché può riconoscere l’integrità della struttura famigliare fuori di sé: nei suoi quadri prima, nei suoi inquilini poi.
 
(Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Il Castoro, 1995)
 
Si direbbe che Visconti abbia voluto esprimere in forma metaforica un suo drammatico stato di coscienza: quello appunto di un intellettuale aristocratico che ha preferito vivere in compagnia dei morti, delle parole morte, delle cose morte ( i “quadri”, anche in senso traslato, del passato) piuttosto che in compagnia dei figli vivi al fianco di una gioventù commovente aperta al futuro.
(Elio Maraone, “Attualità cinematografiche 1975)
 
Il fiato della morte, l’insufficienza dell’arte a riempire la solitudine dell’uomo, il rimpianto di paternità non concesse, e nei giovani la ricerca del padre, il fascino che il male e il bene esercitano su chi non li possiede... Ancora: l’inevitabile disfarsi di quel nucleo sociale che fu la famiglia, la confusa realtà storica che attraversano l’Italia e l’Europa, e finalmente l’antico, immedicabile pessimismo sul destino degli uomini, sulla loro impotenza ad amare, riassunto nell’ironico rinvio del titolo a un modello sociale, e a un genere di pittura, la conversation pièce, sepolti nei secoli senza recupero. Quante cose, e quanto malinconiche, ha messo Visconti in quello che forse resterà uno dei suoi film più personali, certamente più sinceri.
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera,11/12/1974)
 
CGS
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