I falsi di Dossena, documenti per capire un’intera epoca

Al Mart di Rovereto Sgarbi presenta una rassegna incentrata su uno dei campioni della contraffazione. Specializzato in Madonne rinascimentali, le sue opere finirono in grandi collezioni e musei

Nella società delle fake news fare un elogio del falso non sarebbe proprio opportuno. Ma il falso, quando si tratta di arte, da semplice truffa può diventare uno strumento culturale. Non c’è dubbio che il falso aguzza l’ingegno. Sia del falsario, sia del detective che cercherà di smascherarlo. Nel mezzo prende forma una storia, più o meno complicata e lunga, da cui emergeranno alcune verità insostituibili per chi cerca di capire qualcosa della mente umana. Il falsario di opere d’arte è anzitutto uno che ama la competizione. Il suo antagonista non è chi cade nella trappola, cioè il collezionista, bensì il dominatore della scena verso cui egli prova un complesso di superiorità (o d’inferiorità, dipende da come la si guarda): l’artista, perché all’artista è riconosciuto in astratto il privilegio del genio. Accade talvolta che questi due personaggi, l’artista e il falsario, coincidano: celebre il dono avvelenato del giovane Michelangelo per il cardinale Riario che acquistò un Cupido dormiente ritenendolo antico e venne poi a sapere che lo aveva scolpito un ventenne di genio invecchiandolo con tale bravura da ingannare il collezionista, ma l’opera era talmente bella che il Cardinale si consolò immediatamente. Comunque sia, il falsario va preso con le molle ma senza esagerare con le censure morali (al resto penseranno i tribunali eventualmente, che non hanno come fine la verità ma il rispetto della legge). Ci può essere reato, nel fabbricare un falso, se c’è l’intento della truffa. Ma potrebbe trattarsi invece di una sfida.

È il caso del cremonese Alceo Dossena, nato nel 1878 e morto a Roma nel 1939 quasi in povertà, a cui Vittorio Sgarbi dedica una bella e utile mostra al Mart di Rovereto di cui è presidente (fino al 9 gennaio). Dossena ingannò fior di collezionisti e conoscitori, specializzandosi in Madonne eseguite in lin- guaggio rinascimentale, che ebbero molta fortuna sul mercato americano. Sarà lo stesso Dossena ad ammettere di averle eseguite spesso su richiesta di intermediari senza sapere che sarebbero state l’oggetto di una truffa: riteneva che fossero per collezionisti che desideravano opere neogotiche e affini. Rimase però coinvolto in una querelle che fece parecchio rumore, quella legata alla collezione dell’americana Helen Frick alla quale erano state vendute da un importante antiquario, Elia Volpi, due statue dell’Annunciazione attribuite a Simone Martini (del quale si conoscono solo dipinti), che portavano persino iscritto il suo nome di battesimo. Troppo bello, direbbe un detective, per crederci a lungo. Alle due statue vendute nel 1924 da Volpi, nello stesso anno s’aggiunsero altri pezzi sempre attribuiti al pittore senese, fornite da un commerciante veneziano collaboratore di Volpi, Carlo Balboni. Le voci che girassero falsi usciti da una stessa mano cominciarono a essere insistenti e nel 1928 Harold Parsons arrivò a scoprire il vero esecutore, Dossena, che ammise di esserne l’autore assieme a varie altre opere acquistate da musei americani. Questo scandalo generò discredito verso Volpi, che finì quasi sul lastrico dopo un decennio di lucrosi affari.

Con Dossena, non siamo però al livello delle false pietre di Modigliani, una burla che trasse in inganno critici come Argan e Brandi, ma non uno storico come Zeri che vedendole le definì "du’ paracarri". Con Dossena siamo nel superlativo, tant’è che a cascarci furono grandi conoscitori del suo tempo, ma ancora recentemente uno storico come Francesco Caglioti – che nel 2019 curò a Palazzo Strozzi la mostra di Verrocchio dove proponeva l’attribuzione di una Madonna col bambino a Leonardo, e l’anno prossimo si appresta a organizzare nella stessa sede una mostra su Donatello –, il quale una decina d’anni or sono in una mostra sulle arti a Siena si dilungò nel decantare l’autenticità della Madonna della collezione Saracini come esito rinascimentale di «un pensiero creativo risolutamente superiore» (opera del fantomatico Maestro Piccolomini, come altre tre versioni ora a Parigi, Pesaro e Firenze), che in realtà – scrive impietosamente Sgarbi – è un marmo eseguito nel 1923 da Dossena.

La mostra si apre con una campionatura di opere eseguite da falsari d’eccezione come l’ottocentesco Giovanni Bastianini o il senese Federico Icilio Ioni, che fece la propria fortuna con opere molto richieste dal collezionismo americano perché falsificava il tipo dei fondi oro e dei primitivi italiani: il più celebre fra quelli ingannati dalla bravura di Ioni fu Berenson che comprò come autentiche alcune sue tavole. Scoperto l’abile falsario, volle conoscerlo. E presentandosi gli disse: «Io sono Bernard Berenson, quello che comprava tutti i suoi quadri». Ma Ioni, nelle sue Memorie di un pittore di quadri antichi, uscito a Londra nel 1936 col titolo Affairs of a Painter, parla di Berenson raccontando come si fosse prestato ad avallare la vendita di opere dello stesso Ioni, rivelazioni che suscitarono l’imbarazzo dello storico, ma anche del mondo che ruotava attorno al mercato antiquario. E leggendo si capisce che il mercato del falso correva parallelo a quello degli originali, spesso con l’avvallo di importanti conoscitori e critici che reagivano alla enorme richiesta dei collezionisti e dei musei facendo la fortuna dei falsari.

Il libro di Ioni circolò poco, perché i vari protagonisti del sistema antiquario cercavano di proteggersi tra loro parlandone il meno possibile, col l’omertà degli stessi critici (come si sa, cane non morde cane...). In mostra sono esposti anche alcuni ovali in marmo di Gildo Pedrazzoni che, come ricorda Sgarbi, era il falsario prediletto da Zeri. E dopo questo parterre entra in scena Alceo Dossena con una novantina di pezzi in marmo, terracotta, bronzo, gesso patinato, alabastro e avorio. Le ultime due sezioni sono brevi affondi sul “caso Modigliani” e sul “caso Lino Frongia”, un pittore ultrasessantenne che ha prodotto opere sue ma ha anche eseguito ottime copie di Raffaello, Tiziano, Cagnacci, Raffaello, Correggio, Piazzetta, subendo anche procedimenti penali. Bisogna infine ricordare che più d’uno dei falsi esposti a Rovereto è presente nella collezione Cavallini-Sgarbi, opere rintracciate o, nel caso di Frongia, commissionate della stesso critico.

Il problema "falso" è un genere filosofico fin dal paradosso del mentitore cretese. Ma per il falsario è soprattutto atto d’orgoglio: Dossena firmava anche “opere antiche” col proprio nome. Voleva dimostrare la sua bravura. Il falsario va studiato anche come testimone del gusto: ci parla del sentimento estetico prevalente in un’epoca e delle manie del collezionismo. È dunque un sintomo storico-critico. Fate la prova del nove: inviate le immagini dei marmi di Dossena a un amico e aspettate la sua reazione. Quasi sempre vi arriveranno risposte piene di meraviglia. Ma di chi sono? In che museo ti trovi? A quel punto rivelategli che sono falsi di Dossena: lo stupore per la bellezza rimarrà, ma l’emozione crollerà. Perché? L’arte ruota attorno all’unico. E ciò che è unico non solo è raro e costoso, ma è come lo zenit che ci fa toccare la bellezza e l’intensità di qualcosa che ci supera e ci chiama a sé. Col falsario, però, all’estasi segue quasi sempre il disincanto.


di Maurizio Cecchetti

tratto da avvenire.it 

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