Il bisogno innato di appartenenza, se male indirizzato, può indurre i ragazzi a uniformarsi per atteggiamenti, idee e linguaggio nel branco.
del 25 novembre 2006
Perché hai cominciato a 'spinellare'?
- Per fare come gli altri e sentirmi in gruppo.
Che effetto ti ha fatto?
- Ho vomitato. Mi è capitato la stessa cosa anche quando ho cominciato a fumare.
Ma chi ti costringeva a farlo, se hai vomitato?
- !?! (silenzio)
Qua bello, fermiamoci e ci pensiamo un po’ su.
 
Cimitero di Oltrepiave (Vigo, Laggio, Lorenzago… per intenderci). Un gruppetto di minorenni, con qualche maggiorenne, vengono quasi linciati dalla gente perché trovati di notte, nel cimitero, a spaccare croci e a far specie di messe nere con ossi e penne di pollo. Ma come si fa ad andare a saccheggiare cimiteri di notte, dico io? Ne parlo con uno dei ragazzetti.
Chi ti ha convinto a fare ste cose qua?
- Nessuno. Ci siamo messi d’accordo insieme.
Hai avuto paura ad entrare di notte nel cimitero?
- Tremavo come una foglia… tremo ancora…
Chi te l’ha fatto fare, se non c’era nessun piacere?
- Ci siamo sfidati tra noi.
La paura è saggia, potevi ascoltandola, tirarti indietro.
- È vero. Credo di essere quasi svenuto quando mi hanno messo di guardia, fuori dal cimitero.
La guardia non è servita a niente, quando vi hanno presi…
- Non vedevo l’ora che finisse e ci prendessero.
Perché sei qui?
- Sono qui per questo, ci hanno presi.
 
E i gruppetti di quinta elementare, guidati da un “bulletto” un po’ più sveglio - quindi di comportamento più scemo - più o meno organizzati, che levano le mutandine alle bambine di prima, spiandole? Entrano in azione quando se ne presenta una da sola - vigliacchi! - alla fine della ricreazione, nel momento in cui sono quasi tutti dentro, in aula.
Perchè lo fanno?
 
Avevo 9 anni e nel mio paese di Soccher hanno posto la prima fogna, una tubatura di circa 60/80 cm di diametro, fora par Portina, la parte piana del paese, allora ancora agricola, che porta verso il Piave.
A cadenza di 50 metri, un pozzetto, da cui si poteva scendere ed entrare nei tubi. Accordo fatto: cinque di noi dovevano scendere nel pozzetto, entrare e percorrere i 50 metri fino al prossimo, uno dietro l’altro, due metri sotto terra. Eseguito. Nessuno pensava che nel tragitto si sollevasse polvere e che qualcuno, davanti a me - il terzo - facesse anche scherzi. Siamo usciti cianotici, per fortuna vivi, al pozzetto successivo.
Perché lo feci? Non lo so.
Lo feci e basta. Al solo pensarci, mi tornano i sudori freddi.
Oggi, spesso, si fa e basta, ad ogni livello, ma in particolare tra ragazzi e adolescenti, senza alcun ripensamento.
 
 
Domanda generale attuale. Storica.
Le migliaia di persone che percorrono migliaia di km lungo i deserti, per sbarcare, su navi fantasma e da rottamare, a Lampedusa, lo fanno per lo stesso motivo?
Paesi interi del Veneto sputati dalle navi su coste deserte dell’Argentina, del Brasile, del Perù a fine ’800 e inizi ‘900, perché l’hanno fatto?
E i Siciliani schizzati nelle prime megalopoli del novecento nell’Est degli Usa?
E i Bellunesi, in tempi più recenti, nelle baracche dei cantieri di Mattmark e Robiei? Stabili e ben fisse quelle baracche, in cui si entrava solo con il contratto di lavoro d’azienda in tasca. Ma il ghiaccio ha spazzato via tutti.
Si fa e basta?
 
 SENSO E SIGNIFICATO
 
Il piacere numero uno della vita è appartenere. Appartenenza! Tale piacere non ammette deroghe, mai, e se si parla d’eccezioni, è disonesto.
Appartenenza, sia che possa esprimersi in negativo o in positivo.
Infatti, l’afferma anche chi si stacca dal gruppo, chi fa il bastian contrario. Ma è difficile che, se si stacca, non lo affermi poi a qualcuno o lo sbatta in faccia, facendolo sentire - quel gesto di rifiuto - a qualcuno. A chi? A coloro cui apparteneva di fatto e di diritto, dentro una società e la sua cultura, oppure di semplice sentimento. E via così.
Il bisogno d’appartenenza viene prima del respiro e del sonno, dell’acqua e del cibo, del riparo dal caldo e dal freddo…
Pur di appartenere si rischia la vita. Pur di affermare la propria identità e diversità a fronte degli altri si rischia la vita.
Questa faccenda, prima di essere un quesito e un’esigenza etica, è un dato di fatto che coinvolge la natura umana nel suo aspetto fisico, biologico, corporeo. Ha direttamente a che fare con le emozioni e le fasi della vita.
L’appartenenza condiziona, oltre a colorare, tutte le relazioni interpersonali.
L’appartenenza negata attiva la paura radicale, quella della solitudine che sta alla base della paura d’impazzire e del vuoto. Viene solo dopo la paura di morire.
L’appartenenza soddisfatta sta alla base del primo piacere di vivere e dell’emozione d’amore. Grazie alla provvidenza divina, il piacere d’appartenere è immesso nella natura umana e si sperimenta per ben 9 mesi nella pancia della mamma; dove tutti i bisogni sono soddisfatti, in particolare appunto quello di appartenere. E su esso s’innesta il desiderio di felicità che accompagna il nostro io per tutta la vita. Nella pancia della mamma, più appartenenti di così! Si tenga conto che ciò ha a che fare, biologicamente, con la formazione dei due sistemi nervosi, simpatico e parasimpatico, che costituiscono alla nascita più di un terzo del corpo umano, si pensi alla grandezza della sola testa.
 
VALUTAZIONE
 
Nel parlare comune, ma pure in quello sociologico, si definisce o si chiama branco quel gruppo di persone i cui meccanismi dell’appartenenza portano conseguenze negative alla società, ma spesso anche a coloro che fanno parte del gruppo. Magari azioni con valenza penale. Nel branco, di solito, c’è un capo indiscusso, dei ragazzi/adulti esecutori, dei fini che giustificano qualsiasi mezzo (vedi quei simpatici dei no global!), delle ragazze o donne che fanno la claque, il tutto condito di segreto e omertà. Se si fa sofisticato, utilizza anche un gergo tutto proprio e specifico.
Nel parlare dei dirigenti o consulenti aziendali, il branco si definisce in positivo come “équipe motivata”. Infatti fa “corpo inox” con l’impresa, produce redditi e risultati, magari irrorati da corposi aumenti in Borsa.
Ambedue, quando le cose sono fatte davvero bene, producono bilanci consistenti, con aumenti a due cifre in percentuale, anche semestrali.
Ma se per ambedue i bilanci sono falsi? È vero che gli strumenti d’appartenenza sono assai diversi: nel primo caso il mitra, se il branco è cresciuto bene secondo logiche darwiniane; nel secondo, le cravatte sempre più vistose e fulgenti. Ma i bilanci sono bilanci e ci sono. Che differenza c’è? Che differenza c’è tra l’etica del branco e l’etica dell’équipe?
Sotto certi aspetti nessuna, sotto altri aspetti la differenza è radicale e insanabile.
Allora valutiamo e parliamo dell’etica dell’appartenenza.
Già nell’800 di distinsero due tipi di logica d’appartenenza, in rapporto al fine, ma tenendo conto del metodo. E si distinse così: fa società chi si mette insieme a scopo d’interesse o convenienza; fa comunità chi si mette insieme allo scopo di sentirsi uniti e creare appunto appartenenza.
All’incirca un secolo e mezzo dopo, è ancora così?
I ragazzi del muretto, cosa si mettono a fare? E quelli che creano blog e smanettano sul computer in gruppo con un altro gruppo, che stanno facendo? Chi costruisce centri sociali, che fa? E chi crea comunità d’accoglienza e di terapia? E chi mette insieme ciurme di videonauti che fa? E chi organizza un governo/gestione, a ogni livello, che razza di cosa sta facendo.
Non è forse il caso di valutare quel che sta succedendo alla luce invece di una dinamica più profonda, cioè tenendo presente quell’energia che si chiama appartenenza?
Credo che i Feltrini e i Bellunesi non si sarebbero mossi verso il Sudamerica senza la loro famiglia o in attesa della loro famiglia. Anzi si mossero per gruppi di famiglie, mezzi paesi se non paesi interi, e andarono a fondare altri paesi col nome di quelli d’origine. C’era l’interesse di migliorare la propria vita, ma prima di tutto veniva lo stimolo, la forza, il cemento dell’appartenenza: sopravvivere come famiglia e come comunità. Volevano sì cambiare il loro status sociale e la loro economia, insieme al luogo di vita, ma riaffermare nel contempo quell’energia dell’appartenenza che era l’unica risorsa interiore condivisa che permetteva e autorizzava il salto atlantico.
L’appartenenza porta con sé i seguenti valori etici: unità, parità, reciprocità, libertà.
Guarda caso i valori che legano nell’amore gli sposi.
Ogni modello d’appartenenza dovrebbe avere questi valori e l’etica ad essi collegata.
 
SCELTE E DECISIONI
 
L’applicazione e la valutazione, anche superficiale, dei principi etici nelle dinamiche di appartenenza, ci permettono di distinguere il branco, più o meno a delinquere, da qualsiasi altra cosa.
Branco: ha un gergo verbale e non verbale, comportamento standardizzato, guida di un capo, segreto, stile di vita specifico, capi d’abbigliamento riconosciuti, “bimbe amuleto” che ridacchiano e gratificano, obiettivi da raggiungere, come già accennato. L’appartenenza è caratterizzata dal potere unico, dalla forza/violenza, dalla paura di esclusione e di punizione, dall’uniformità e gregarismo.
Gruppo sociale / comunitario: ammette pluralismo e diversità, potere attribuito e riconosciuto con elezione o nomina, si dà la forza del metodo democratico, incentiva il dissenso, condivide i fini, assume responsabilità sia come singolo membro che come gruppo. L’appartenenza è caratterizzata appunto da unità, parità, reciprocità e libertà.
IL CASO. La Coop Integra, che è parte del sistema Ceis di Belluno, grazie ad un’intuizione, ha pensato un metodo d’integrazione degli extra-comunitari, basandolo sui valori dell’appartenenza.
Dare loro una casa, un appartamento, con un preciso metodo di ricerca e condivisione.
Ho impiegato due anni per mettere insieme, grazie ad un accordo con la Provincia di BL, tutte le categorie economiche e sociali, in particolare le immobiliari e le agenzie della casa, i gruppi di volontariato, per un unico obiettivo condiviso. Siamo riusciti a mettere sotto microscopio le leggi sugli affitti, facendo saltar fuori anche prassi “contrastanti”. E ce l’abbiamo fatta.
Dare una casa con questi tre criteri: 1) ricongiungimento familiare; 2) casa vicina al posto di lavoro; 3) dentro il tessuto urbano e sociale bellunese.
I soldi della Regione Veneto per garantire l’operazione riguardavano i proprietari di case bellunesi, non gli immigrati.
In due anni di lavoro si è inserito nel tessuto sociale della provincia delle Dolomiti un paese reale, ma virtuale perché invisibile, di più di 800 persone, perfettamente integrato.
Chi mi ha suggerito l’iniziativa? La Provincia di Treviso che ha dato dei soldi per fare casermoni riservati agli immigrati, dove si sono ridotti - in certi casi - al classico ghetto. (per modo di dire, ovviamente: gli abitanti ebrei erano ligi alle regole del paese abitato). Qui si sono messi piuttosto in posizione di estrema promiscuità e a rischio di comportamenti illegali, specie se adottano criteri di sfruttamento tipici dei paesi d’origine, come avviene per gruppi di Cinesi o Brasiliani.
       Non ghetto quindi, ma sono stati posti a rischio di branco. Su cui possono fare branco a delinquere, pure porzioni di cittadini costituzionalmente italiani di nascita, per storia, anagrafe e … pretesa. Mentre altri, che intendono puntare a far comunità, tramite integrazione, cercano davvero di produrre appartenenza, cioè cittadinanza attiva, nutrita di motivazione ed energia.
       È chiarissimo, eticamente inevitabile, che bisogna garantire a tutti la propria identità, che dà sostanza alla pluralità dei soggetti che stanno e vivono insieme.
       Senza identità (che non è individualismo) e appartenenza (comunque avvenga, anche con lo strumento del telefonino oltre che con il computer, come diceva il prof. Bassetti) non c’è solidarietà globale.
       Qui si gioca e qui si salta.
       Si può verificare così chi produce davvero appartenenza, cioè cittadinanza attiva, nutrita di motivazione ed energia.
       Questo fine riguarda e può rendere protagonisti i ragazzi e i giovani, per i quali è necessaria la storia di famiglia e la loro appartenenza alle associazioni. Mario Pollo, dell’Università Salesiana di Roma, ha redatto un libro con centinaia di interviste registrate dal vivo ai giovani. Ne risulta che i ragazzi, come qui ha detto anche il prof. Corsi, hanno poca storia e poco passato, quindi temono il futuro e hanno una percezione della morte più grande che non gli adulti. Interessante è sapere che molti riescono a ricordare stralci del ‘900 e della seconda guerra mondiale, perché glieli ha raccontati il nonno!
È vero, è molto diminuita la percezione delle età generazionali, con in più un rovesciamento di competenze e abilità, tant’è che il nipotino di sette anni insegna al nonno - “che non sa proprio niente!” (sentito con le mie orecchie) - come usare il telefonino. Comunque, il nonno è lì garante per la storia passata e quindi apre al futuro la speranza del nipote.
Sì, il senso del vivere oggi, la cittadinanza attiva, la solidarietà sociale tramite l’integrazione sociale, si costruiscono proprio con l’appartenenza.
L’appartenenza in concreto si crea e si forma lavorando insieme, su qualsiasi cosa, come il nipote con il vecchio nonno “che non capisce niente!”. E infatti “smanettano insieme” su quel marchingegno piccolo e diabolico che si chiama cellulare.
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