Rabbi B√§r di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro, il Veggente di Lublino: “Indicatemi un cammino universale al servizio di Dio!”. E lo zaddik rispose: “Non si tratta di dire all'uomo quale cammino deve percorrere: perché c'è una via in cui si segue Dio con lo studio e un'altra con la preghiera una con il digiuno e un'altra mangiando.
del 01 gennaio 2002
Rabbi Bär di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro, il Veggente di Lublino: “Indicatemi un cammino universale al servizio di Dio!”. E lo zaddik rispose: “Non si tratta di dire all’uomo quale cammino deve percorrere: perché c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e un’altra con la preghiera una con il digiuno e un’altra mangiando. E compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze”.
Questo ci dice innanzitutto quale deve essere il nostro rapporto con il servizio autentico che è stato compiuto prima di noi: dobbiamo venerarlo, trarne insegnamento, ma non imitarlo pedissequamente. Quanto di grande e di santo è stato compiuto ha per noi valore di esempio perché ci mostra con grande evidenza cosa sono grandezza e santità, ma non e un modello da ricalcare. Per quanto infimo possa essere - se paragonato alle opere dei patriarchi - ciò che noi siamo in grado di realizzare, il suo valore risiede comunque nel fatto che siamo noi a realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze.
Un chassid chiese al Magghid di Zloczow: “E detto: ‘Ognuno in Israele ha l’obbligo di dire: Quando la mia opera raggiungerà le opere dei miei padri Abramo, Isacco e Giacobbe?’. Come si deve intendere? Come possiamo ardire di pensare che potremmo eguagliare i padri?”. Il Magghid spiegò: “Come i padri hanno istituito un nuovo servizio - ciascuno un nuovo servizio secondo la propria natura: l’uno quello dell’amore, l’altro quello della forza, il terzo quello dello splendore - così noi, ciascuno secondo la propria modalità, dobbiamo istituire del nuovo alla luce dell’insegnamento e del servizio di Dio; e non fare il già fatto, bensì quello ancora da fare”.
Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico. “Ciascuno in Israele ha l’obbligo di riconoscere e considerare che lui è unico al mondo nel suo genere, e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui: se infatti fosse già esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Perché, in verità, che questo non accada è ciò che ritarda la venuta del Messia”. Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro - fosse pure la persona più grande - ha già realizzato. Quand’era già vecchio e cieco, il saggio Rabbi Bunam disse un giorno: “Non vorrei barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che ne verrebbe a Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il cieco Bunam come Abramo?”. La stessa idea è stata espressa con ancora maggior acutezza da Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: “Nel mondo futuro non mi si chiederà: ‘Perché non sei stato Mosè?’; mi si chiederà invece: ‘Perché non sei stato Sussja?”‘.
Siamo qui in presenza di un insegnamento che si basa sul fatto che gli uomini sono ineguali per natura e che pertanto non bisogna cercare di renderli uguali. Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. E infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo. Alcuni discepoli di un defunto zaddik si recarono dal Veggente di Lublino e si meravigliavano che avesse usi diversi dal loro maestro. “Che Dio è mai - esclamò il Rabbi - quello che può essere servito su un unico cammino?”. Ma dato che ogni uomo può, a partire da dove si trova e dalla propria essenza, giungere a Dio, anche il genere umano in quanto tale può, progredendo su tutti i cammini, giungere fino a lui.
Dio non dice: “Questo cammino conduce fino a me, mentre quell’altro no”; dice invece: “Tutto quello che fai può essere un cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo tale che ti conduca fino a me”. Ma in che cosa consista ciò che può e deve fare quell’uomo preciso e nessun altro, può rivelarsi all’uomo solo a partire da se stesso. In questo campo, il fatto di guardare quanto un altro ha fatto e di sforzarsi di imitarlo può solo indurre in errore; comportandosi così, infatti, uno perde di vista ciò a cui lui, e lui solo, è chiamato. Il Baal-Shem dice: “Ognuno si comporti conformemente al grado che è il suo. Se non avviene così, e uno si impadronisce del grado del compagno e si lascia sfuggire il proprio, non realizzerà né l’uno né l’altro”. Così il cammino attraverso il quale un uomo avrà accesso a Dio gli può essere indicato unicamente dalla conoscenza del proprio essere, la conoscenza della propria qualità e della propria tendenza essenziale. “In ognuno c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro”. Ma ciò che è prezioso dentro di sé, l’uomo può scoprirlo solo se coglie veramente il proprio sentimento più profondo, il proprio desiderio fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere.
E indubbio che l’uomo conosca spesso il proprio sentimento più profondo solo nella forma della passione particolare, nella forma della “cattiva inclinazione” che vuole sviarlo. Conformemente alla sua natura, il desiderio più ardente di un essere umano, tra le diverse cose che incontra, si focalizza innanzitutto su quelle che promettono di colmarlo. L’essenziale è che l’uomo diriga la forza di quello stesso sentimento, di quello stesso impulso, dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto: cosi troverà il proprio cammino
Uno zaddik insegna: “Alla fine di Qoelet sta scritto: ‘Al termine delle cose si ode il tutto: temi Dio!’. Qualunque sia la cosa a capo della quale tu arrivi, là, al suo termine, tu udrai immancabilmente questo: ‘Temi Dio’ e questo è il tutto. Non esiste cosa al mondo che non ti indichi un cammino verso il timore di Dio e il servizio di Dio: tutto è comandamento”. Ma la nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore; al contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò che in essi si manifesta come bellezza, sensazione di benessere, godimento. Il chassidismo insegna che la gioia che si prova a contatto con il mondo conduce, se la santifichiamo con tutto il nostro essere, alla gioia in Dio.
Nel racconto del Veggente, il fatto che, tra i vari cammini presi a esempio, accanto a quello che consiste nel mangiare, ce ne sia anche uno che consiste nel digiunare sembra contraddire quanto appena detto. Se tuttavia consideriamo questo nell’insieme dell’insegnamento chassidico, ci accorgiamo che, se la presa di distanza dalla natura e l’astinenza nei confronti della vita naturale possono effettivamente costituire a volte l’inizio del cammino necessario a un uomo - così come lo stare in disparte può essere indispensabile in certi momenti cruciali dell’esistenza - esse non possono però mai rappresentare l’intero cammino. Ci sono uomini che devono cominciare con il digiuno, e cominciare sempre da capo, perché è loro peculiarità poter conseguire unicamente attraverso il mezzo dell’ascesi la liberazione dall’asservimento al mondo, il più profondo ritorno a se stessi e, di conseguenza, il legame con l’assoluto. Ma l’ascesi non deve mai pretendere di dominare la vita dell’uomo. L’uomo deve allontanarsi dalla natura solo per ritornarvi rinnovato e per trovare, nel contatto santificato con essa, il cammino verso Dio.
“E stette sopra di loro, sotto l’albero, mentre essi mangiavano”. Ecco come Rabbi Sussja spiegava questa frase della Scrittura che descrive Abramo mentre serve da mangiare agli angeli: l’uomo - diceva - sta sopra agli angeli perché conosce l’intenzione che santifica il pasto, mentre essi non la conoscono. Abramo fece scendere sugli angeli, che non erano adusi al cibo, l’intenzione attraverso la quale egli era solito consacrarlo a Dio. Qualsiasi atto naturale, se santificato, conduce a Dio, e la natura ha bisogno dell’uomo perché compia in lei ciò che nessun angelo può compiere: santificarla.
Martin Buber
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