Il testo dell'omelia del cardinale Camillo Ruini, ai funerali di don Andrea Santoro, il missionario romano ucciso in Turchia, nella sua chiesa di Tresibonda. L'annuncio dell'apertura del processo di beatificazione.
del 11 febbraio 2006
Celebriamo la Messa di suffragio per un sacerdote romano, Don Andrea Santoro. Uno dei tanti, perché questa Diocesi ha circa 900 sacerdoti e ogni anno alcuni di loro fanno ritorno al Signore. Eppure questa Basilica è straordinariamente affollata, e tutti sappiamo il perché. Don Andrea aveva 60 anni, era originario di Priverno ma come sacerdote era totalmente romano: nato in una famiglia profondamente cristiana, si era formato nel Seminario Romano Minore e poi in quello Maggiore. Era diventato sacerdote 35 anni fa, il 18 ottobre 1970. Poi aveva percorso le tappe consuete della vita e del ministero di un sacerdote romano: vicario parrocchiale nella parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro al Casilino e poi in quella della Trasfigurazione. In seguito parroco della parrocchia di Gesù di Nazareth e finalmente di quella dei Santi Fabiano e Venanzio, fino all’Anno Santo del 2000. E tuttavia già da molti anni Don Andrea manifestava una strana inquietudine, che poteva sembrare un’instabilità di carattere. Ha chiesto infatti a più riprese e con forte insistenza, prima al Cardinale Poletti e poi a me, di poter lasciare Roma per dedicarsi a esperienze nuove e diverse, sempre però incentrate sulla ricerca della prossimità a Cristo e sulla preghiera.
 
Così già nel 1980 ha passato un periodo a Gerusalemme e anche nel 1993-94 ha trascorso un anno sabbatico, guidando vari pellegrinaggi dell’Opera Romana con meta la Terra Santa e in genere il Medio Oriente. Ma la sua propria strada, la sua chiamata specifica e definitiva Don Andrea l’ha individuata con certezza soltanto in età matura, attraverso le esperienze dei pellegrinaggi che continuava a guidare in Medio Oriente e l’affettuosa insistenza dell’allora Vicario Apostolico dell’Anatolia, la parte orientale della Turchia, Mons. Ruggero Franceschini, che lo voleva con sé, come sacerdote “fidei donum”, dono della fede, mandato da Roma a rendere presente Cristo in quelle terre dove la fede cristiana aveva messo agli inizi robuste e feconde radici, giungendo da lì ben presto fino a Roma. Proprio questo era l’animo e lo spirito con cui Don Andrea chiese di andare in Anatolia: intendeva essere una presenza credente e amica, favorire uno scambio di doni, anzitutto spirituali, tra l’Oriente e Roma, tra cristiani, ebrei e musulmani.
 
All’inizio la sua richiesta di partire per l’Anatolia mi ha lasciato perplesso e ha trovato in me una certa resistenza: mi rincresceva privare Roma di un ottimo parroco e temevo che Don Andrea, uomo pieno di iniziative, non reggesse a lungo in una situazione che non consentiva, invece, molti margini di azione e nemmeno una ricchezza di relazioni. Tra l’altro Don Andrea ignorava del tutto la lingua turca. Egli però era un uomo tenace nel domandare, quando riteneva di dover corrispondere a una chiamata del Signore. Così è partito e ricordo l’insistenza con la quale, allora, e tante volte in seguito, mi chiedeva conferma che però egli non andava di propria volontà e nel proprio nome, ma nel nome e per mandato della Chiesa di Roma. Sì, perchè Don Andrea era, istintivamente, un uomo della Chiesa; nemmeno concepiva di poter appartenere a Cristo senza appartenere alla Chiesa.
 
È cominciato così, nel 2000, il suo soggiorno in Anatolia, dapprima ad Urfa, vicino alla località biblica di Harran, la terra di origine del Patriarca Abramo: ad Urfa Don Andrea era intimamente felice, pur nella solitudine in cui viveva e nelle grandi difficoltà dell’apprendimento della nuova lingua. Sentiva infatti compiersi misteriosamente in se stesso le parole della chiamata di Abramo, che spesso ripeteva: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12,1). Dopo tre anni però si apriva per lui una possibilità nuova, dove avrebbe potuto avere una sia pur piccola comunità cristiana e una chiesa da riaprire e restaurare. Andava dunque a Trebisonda – Trabzon in turco –, con gioia e con fiducia, e lì continuava a pregare e a cercare di fare del bene, nel rispetto delle leggi locali, fino a domenica scorsa, a quella fine improvvisa che tutto il mondo conosce ma di cui, nell’ottica di Don Andrea, non è importante approfondire i particolari.
 
Dobbiamo soltanto respingere con sdegno le accuse e insinuazioni assurde e calunniose riguardo a mezzi non leciti per ottenere conversioni, escluse in radice dalla sua rigorosa coscienza di cristiano e di sacerdote. Vorrei soffermarmi piuttosto sulla sostanza vera della sua vita e della sua missione, che è anche il significato e l’insegnamento della sua morte. Don Andrea ha preso tremendamente sul serio Gesù Cristo e, da quell’uomo tenace, rigoroso, addirittura testardo che era, ha cercato con tutte le sue forze di muoversi sempre e rigorosamente nella logica di Cristo, e ancor prima di affidarsi a Cristo nella preghiera, non presumendo certo delle proprie forze umane. Per lui dunque valgono davvero le parole che l’Apostolo Paolo ha detto di se stesso: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Per questo Don Andrea è stato, inseparabilmente, uomo di fede e testimone dell’amore cristiano. Uomo di fede, anzitutto: nei molti anni del suo ministero di sacerdote a Roma non si stancava di cercare persone da condurre, o ricondurre, all’incontro con il Signore.
 
Lo spingeva la certezza profonda che Gesù Cristo è il Figlio unigenito di Dio e il nostro unico Salvatore: una certezza che sosteneva la sua vita e gli chiedeva imperiosamente di conformarsi a Cristo in tutte le scelte e i comportamenti quotidiani. Perciò Don Andrea viveva poveramente, era esigente con se stesso, e non di rado anche con gli altri. Le sue richieste, però, erano dettate dall’amore, nascevano dalla carità di Cristo che ardeva in lui e che a volte sembrava fargli dimenticare un poco il senso della misura. Al centro dei suoi comportamenti stava infatti una semplice convinzione: Gesù Cristo ha dato per tutti la sua vita sulla croce e quindi un discepolo di Cristo, e massimamente un sacerdote, deve a sua volta voler bene a tutti e spendersi per tutti, senza distinzioni. Come scrive l’Apostolo Paolo, “l’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti” (2Cor, 5,14). Così, forse, possiamo comprendere più profondamente la sua scelta di andare a vivere e a svolgere il ministero in Turchia, anzi, nella parte per noi più remota della Turchia. Don Andrea era un uomo di intelligenza penetrante, e all’occorrenza anche molto concreto. Sapeva bene che in quella terra e tra quelle popolazioni il suo slancio apostolico avrebbe dovuto accettare moltissime limitazioni e di fatto, serenamente, le aveva accettate e interiorizzate.
 
Era convinto infatti che una presenza di preghiera e di testimonianza di vita avrebbe parlato da sé, sarebbe stata segno efficace di Gesù Cristo e fermento di amore e riconciliazione. La sua fine violenta potrebbe portare a concludere che si illudeva. Ma egli una simile fine l’aveva sicuramente messa nel conto, considerata una possibilità concreta: molte sue parole, e forse ancor più alcuni suoi silenzi, ci rendono certi di questo; anch’io ne sono testimone. Il fatto è che Don Andrea credeva fino in fondo alle parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di questa Messa: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. In realtà Don Andrea era un uomo a cui il coraggio non mancava, un uomo abbastanza lucido e animoso da affrontare giorno dopo giorno, inerme, il rischio della vita.
 
Il suo, infatti, era un coraggio cristiano, quel tipico coraggio di cui i martiri hanno dato prova, attraverso i secoli, in innumerevoli occasioni: un coraggio cioè che ha la sua radice nell’unione con Gesù Cristo, nella forza che viene da lui, in maniera tanto misteriosa quanto vera e concreta. Di un coraggio analogo ciascuno di noi ha bisogno, se vuole affrontare da cristiano il cammino della vita. E ne abbiamo bisogno tutti insieme, se vogliamo, nell’attuale situazione storica, affermare il diritto alla libertà di religione, madre di ogni libertà, come valido in concreto ovunque nel mondo, davvero senza discriminazioni. Noi siamo oggi, pur con tutti i nostri difetti, infedeltà e peccati, i cristiani di Roma, e Don Andrea era certamente un autentico cristiano di Roma. Ci fa bene perciò ascoltare le parole della Lettera di San Paolo ai Romani che sono state lette nella seconda lettura: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita … potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”. Così saremo aiutati anche noi a non cedere alla paura, ricordando l’ammonimento di Gesù: “non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima: temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28).
 
Ho messo l’accento sul coraggio di Don Andrea e sul significato del coraggio cristiano. Questo coraggio, però, non è per colpire ed uccidere, ma per amare e per costruire, in concreto per costruire la comprensione, l’amicizia e la pace là dove troppo spesso regnano l’intolleranza, il disprezzo e l’odio. Ripeto qui le commosse parole pronunciate mercoledì da Papa Benedetto, dopo aver ricordato la lettera di Don Andrea che aveva appena ricevuto: “Il Signore … faccia sì che il sacrificio della sua vita contribuisca alla causa del dialogo fra le religioni e della pace tra i popoli”. Questo era certamente l’animo con il quale Don Andrea è andato a vivere in Turchia e questo è il senso che egli intendeva dare a una sua eventuale morte violenta e prematura. Spesso si pensa che per ogni singolo uomo, nel nostro caso per Don Andrea, con la morte tutto sia terminato. Già la Sapienza dell’Antico Testamento, che abbiamo ascoltato nella prima lettura, è però di diverso avviso. Essa ci assicura che “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” e “nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti … la loro fine fu ritenuta una sciagura”, ma invece “la loro speranza è piena di immortalità”.
 
Don Andrea era nutrito di questa certezza; anzi, aveva una speranza ancora più grande: quella speranza e quella certezza che Gesù stesso attesta nel Vangelo di questa Messa, quando parla del chicco di grano che morendo produce molto frutto. Dice infatti Gesù, riferendosi alla propria morte ormai imminente: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”. Anche Don Andrea, in unione con Gesù, può dire queste parole: la sua tragica morte è infatti, in realtà, la sua glorificazione; non solo la glorificazione effimera che possiamo attribuirgli noi, ma la gloria eterna che solo Dio può dare.
 
Permettetemi, a questo riguardo, di esprimere con franchezza la mia personale convinzione. Rispetteremo pienamente, nel processo di beatificazione e canonizzazione che ho in animo di aprire, tutte le leggi e i tempi della Chiesa, ma fin da adesso sono interiormente persuaso che nel sacrificio di Don Andrea ricorrono tutti gli elementi costitutivi del martirio cristiano. Termino ricordando con commozione le parole pronunciate da sua madre, Maria Polselli vedova Santoro: “La mamma di Don Andrea perdona con tutto il cuore la persona che si è armata per uccidere il figlio e prova una grande pena per lui essendo anche lui un figlio dell’unico Dio che è amore”. Alla mamma e alle sorelle di Don Andrea siamo tutti vicini con l’affetto, la gratitudine e la preghiera. Esse condividono fino in fondo la fede del loro figlio e fratello e perciò sanno che egli, adesso, è a loro ancora più vicino, nel mistero del Dio che è amore. Allo stesso modo, Don Andrea rimane nel cuore della Chiesa di Roma e questa Chiesa confida nella sua intercessione, come in quella di tanti altri propri figli che prima di Don Andrea hanno versato il sangue per il Signore.
card. Camillo Ruini
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