Guardando un po' ai nostri riti stanchi, alla flebile partecipazione alla vita della comunità cristiana anche alla domenica, vorrei farmi con voi alcune domande. Che cosa dice la nostra fede alla gente di oggi? La possiamo accostare all'euforia della semifinale di un campionato mondiale di calcio? Può reggere il confronto con le feste del rock.
del 23 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male”. (Mc 5, 33-34)
          Guardando un po’ ai nostri riti stanchi, alla flebile partecipazione alla vita della comunità cristiana anche alla domenica, vorrei farmi con voi alcune domande. Che cosa dice la nostra fede alla gente di oggi? La possiamo accostare all’euforia della semifinale di un campionato mondiale di calcio?
          Può reggere il confronto con le feste del rock. Una sera mi sono immerso nel mondo del rock e mi sono messo sulle spalle una T-shirt, su cui c’è scritto: In Rock we trust, la mia fede è il rock, imitando la scritta che c’è sui dollari americani che dice “in God we trust”, io mi affido a Dio, sperando che non sia il dio danaro. C’avevo sulle spalle “io mi affido al rock”. Non è il massimo per un vescovo, anche se sulle magliette non si scrive la fede, ma un messaggio di moda. Non sto in confusione perché i giovani non gireranno con le bandiere sulle automobili in onore della Madonna Assunta alla festa di ferragosto. La fede è su un altro piano e non ha bisogno delle piazze per dire la sua profondità. Però ci dobbiamo domandare se siamo capaci di far capire che la nostra fede è qualcosa di grande e non una abitudine forzata.
Ci manca sicuramente la fede di Ges√π.
          Ci aiuta a dare risposta a questo un curioso episodio nel vangelo di Marco: Gesù ha iniziato da poco il suo cammino deciso e travolgente. Dove passa crea speranza, scuote le persone dubbiose, trascina chi sa sognare. Così chiama i suoi collaboratori, che lasciano, case, campi, mestiere e lo seguono. La sua visione della vita è affascinante, la sua capacità di leggere le aspirazioni profonde del cuore è sorprendente. Ti senti interpretato dalla sua visione della vita, vieni trafitto dai suoi sguardi intensi, ti senti scosso dalle sue invettive, dai progetti, dalla novità delle sue intuizioni e visioni di futuro. Alla gente non par vero di potersi togliere dal torpore di una vita monotona, dalla stessa cappa di una religiosità ridotta a riti scontati, a ripetitività di formule che lentamente hanno nascosto il volto di Dio. Siamo capaci noi cristiani di avere visioni di futuro o vendiamo anche noi adattamenti? Abbiamo in cuore progetti di vita bella, felice, semplice, ma vera oppure siamo senza progetti. Ci lasciamo provocare dalle situazione della vita o abbiamo già sepolto la fede nelle abitudini, pur buone, ma non più sufficienti oggi, né per noi, né per tutti?
          Ebbene attorno a Gesù si fa calca, né lui fa qualcosa per schivare la gente. Si ferma, dialoga, ascolta, alza la voce, richiama, conforta. C’è pure una donna tra la gente che accorre a lui: è afflitta da una malattia maledetta: perdita di sangue.
          Per questo tipo di malattia la legge è molto dura e categorica: è una situazione di impurità e deve assolutamente evitare ogni contatto umano. Per la donna è una situazione invivibile. Ha fatto di tutto per uscirne, per ricuperare salute e soprattutto possibilità di vivere una vita normale nella società, nel mondo delle relazioni umane: ha speso tutti i suoi soldi. Niente! Condannata all’isolamento oltre che alla sofferenza.
          Ma quando sente parlare di Gesù, di questo regno, di un Dio che non ha creato la morte, che non gode per la rovina dei viventi, che ha creato tutto per l’esistenza e che ha fatto in modo che tutte le creature del mondo siano portatrici di senso e di salvezza, si fa un suo progetto: «con questa malattia la legge mi imprigiona e non mi permette di toccare nessuno: ma questo Gesù è la salvezza: lo devo toccare, non oso parlargli, non sono all’altezza di una richiesta, ma non è giusta la prigione in cui sono chiusa: mi basta toccare la sua veste, il suo mantello».
          E quel tocco la guarisce: Gesù, che non sta facendo servizi davanti alle telecamere, ma che sta incontrando la grande sete di un Dio vero, si accorge e le dice che non è avvenuto niente di magico in lei: la chiama “figlia” annullando ogni distanza. Quel che è avvenuto è dovuto al coraggio della sua fede.
Domenico Sigalini
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