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Il “credere”. Un atto umano e sovrumano

L'uomo è libero, come s'è visto, di accettare o di infrangere il primo imperativo morale. Può decidere di cedere alla stanchezza o alla pigrizia e di sospendere il suo faticoso pellegrinaggio di delusione in delusione, oppure di proseguirlo tenacemente fino alla sua positiva conclusione. Proponiamo un'indagine: come fa un uomo ad arrivare a credere?


Il “credere”. Un atto umano e sovrumano

da Teologo Borèl

del 19 gennaio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

Premesse

          Tra tutte le manifestazioni dello spirito, l’atto di fede appare connotato di una singolare complessità; e, pur essendo il risultato di un processo tipicamente personale della creatura pensante, possiede anche un’origine trascendente.  Non ci fa meraviglia, allora, che esso si presenti alla nostra attenzione come una realtà eminentemente “misterica”, sicché anche la più perspicace riflessione teologica fatica a coglierne l’intera intelligibilità. E si trova anzi alle prese con l’ardua impresa di conciliare nel “credere” prerogative che sembrano incompatibili, quali il rigore razionale e la libera decisione; o la caratteristica di essere “nostro” (frutto delle facoltà dell’uomo) e, al tempo stesso, di offrirsi come un “dono dall’alto”.  Ma è nostro dovere prenderlo sul serio. A prendere sul serio una reliquia o un’icona, basta  tributarle qualche gesto di venerazione, per esempio incensandola; prendere sul serio e onorare davvero una verità che il Signore ci rivela vuol dire tentare di penetrarla con la nostra intelligenza (per quel che ci riesce). È ciò che qui circa l’atto di fede ci ripromettiamo, pur se restiamo ben persuasi che avremo una sua comprensione adeguata solo nel Regno eterno di Dio, nostro Padre, quando «noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).  A questo fine, proponiamo in concreto una duplice indagine: prima di tutto cercheremo di appurare quale sia l’intrinseco cammino logico-psicologico che oggettivamente fa arrivare un uomo a credere; in un secondo momento metteremo in risalto i diversi elementi che sono quasi i “comprincìpi” di ogni atto di fede; e aggiungeremo alla fine qualche riflessione sui “dubbi di fede”.

I) Il cammino verso la fede

          Certo, come ognuno di noi ha un volto, così ha una fisionomia interiore e un suo modo proprio di raggiungere l’incontro trasformante con Cristo.  Ma sotto le più diverse esperienze, c’è un itinerario oggettivo, anche se l’interessato non lo coglie sempre con la stessa consapevolezza e la stessa lucidità. In questo itinerario (di natura logico-psicologica, come s’è detto) si possono distinguere: un momento iniziale, un momento negativo, un momento positivo e infine l’approdo al traguardo del “credere”. 

1. Momento iniziale

          L’uomo avverte che il principio fondamentale da cui deve prendere inizio la sua avventura spirituale è quello di non ritenere se stesso la verità in atto e la misura suprema della realtà (che è invece la tentazione tipica degli intellettuali di professione).  Percepisce allora come imperativo morale il dovere di ricercare la misura suprema e il dovere di essere docile alla verità assoluta, dovunque essa sia e dovunque gli capiti di incontrarla.  Ê un imperativo morale, abbiamo detto. Come tutti gli imperativi - che sono assimilabili ai primi principi - è indiscutibile e non ha bisogno di fondazione; ma, come tutte le norme morali, è superabile nella pratica. é teoreticamente infrangibile, e al tempo stesso può essere agevolmente infranto nel comportamento. Per chi lo infrange, l’avventura è finita: non arriverà all’atto di fede; per chi lo rispetta, l’itinerario prosegue.

2. Momento negativo

          Ogni uomo intellettualmente e moralmente adulto, come riempie di necessità uno spazio fisico, così occupa di necessità uno spazio teoretico e spirituale di fronte al problema del significato complessivo del suo esistere. La posizione può essere diversa (per esempio: scetticismo, agnosticismo, materialismo ecc.), ma una posizione c’è sempre. In questo momento negativo l’uomo, che vuol continuare a riflettere, si rende conto dell’inadeguatezza della posizione da lui occupata. Egli allora va alla ricerca di altre soluzioni esistenziali, con animo aperto e pronto a servire la verità; ma senza mai approdare (fino a che non arriva alla fede) a una visione della realtà che dia senso plausibile alla sua vita.  Noi sappiamo che queste continue delusioni derivano oggettivamente dal fatto che, fuori della prospettiva di fede, non c’è mai soddisfacente corrispondenza tra le posizioni raggiungibili con le sole forze umane e l’unica realtà che di fatto esiste, creata dall’amore del Dio vivo, secondo un disegno incentrato in Cristo Redentore.

3. Momento positivo

          I valori morali possono essere percepiti adeguatamente soltanto per connaturalità.  Il ladro non riuscirà mai a credere all’onestà degli altri, o quanto meno al suo valore.  Un bugiardo di regola non si fida della sincerità altrui. In tutti e due i casi manca il “giudizio per connaturalità”. Invece, chi ha l’animo nobile e generoso, sa cogliere la nobiltà e la generosità dei suoi interlocutori, per connaturalità.  Orbene, l’amore del Padre che vuol salvare e l’iniziativa salvifica di Cristo appartengono proprio alla categoria di quei valori che esigono la connaturalità per essere colti. L’uomo, che coltiva dentro di sé la passione per la verità, dovunque si trovi (quindi la docilità assoluta verso ciò che gli appare vero e il rispetto per la regola di giustizia, comunque gli si manifesti), acquista un’interiore affinità con i valori della Rivelazione e un’interiore attitudine a percepire i segni della presenza salvifica di Dio nel mondo; l’impronta nella realtà di Cristo, unico senso dell’universo; gli indizi della nativa bellezza della Chiesa, sconcertante ma autentica epifania del Logos di Dio nella storia.  Tale “genialità religiosa” è suscitata nell’uomo (che può essere dotto o incolto, intelligente o poco dotato: questo non ha alcuna incidenza) dalla grazia illuminante di Dio in quanto è liberamente accolta in un animo che non vuol peccare contro la luce, ma anzi si arrende alla luce che gli viene dall’alto.

4. Approdo alla fede

          Così, per la potenza soprannaturale della grazia, emerge nell’uomo un principio conoscitivo proporzionato agli oggetti soprannaturali da percepire: la Chiesa, vista come sacramento universale di salvezza e luogo dell’incontro con Cristo; Cristo, percepito come la Verità e la Giustizia, e luogo dell’incontro con Dio; Dio, come altissima e misteriosa sorgente della nostra elevazione allo stato sovrumano di gioia e di gloria. A questo punto si ha formalmente l’atto di fede, col quale l’uomo accetta integralmente l’iniziativa divina nella sua vita e viene posto in comunione vitale con tutto il mondo invisibile, che è unificato, espresso e offerto a noi nel Signore Gesù.

II) I comprincìpi dell’atto di fede

Non è difficile adesso cogliere la simultanea cospirazione e il vicendevole condizionamento nell’atto di fede della volontà, della ragione e della grazia. La volontà

          La volontà accompagna tutto il processo, che perciò è in ogni suo passaggio un ”cammino di libertà”. L’uomo è libero, come s’è visto, di accettare o di infrangere il primo imperativo morale. Può decidere di cedere alla stanchezza o alla pigrizia e di sospendere il suo faticoso pellegrinaggio di delusione in delusione, oppure di proseguirlo tenacemente fino alla sua positiva conclusione. Soprattutto è libero di rifiutare dentro di sé i valori morali, impedendo così alla grazia di creare la necessaria connaturalità, che sola può dare alla vista umana la percezione dei motivi che portano all’atto di fede.  Infine la volontà deve sorreggere l’uomo per l’ultimo passo, cioè per l’atto di fede vero e proprio, che resta fino in fondo un atto libero (del tipo della libertà umana, che è un’autodeterminazione che progressivamente si costruisce).

La ragione

          La ragione è chiamata a rendersi conto prima di tutto della validità teoretica dell’imperativo  morale; in secondo luogo della insostenibilità delle varie posizioni dell’incredulità, che sono oggettivamente non razionali e tendono tutte a portare all’assurdo.  Illuminata dalla grazia, liberamente accettata dall’uomo che si orienta al bene, valuta lucidamente i motivi di credibilità, che sono oggettivamente efficaci e perciò indiscutibilmente razionali. La grazia

          La grazia di fatto accompagna tutto il processo conoscitivo fin dal primo istante, interagendo con la libera decisione dell’uomo, che essa sempre rispetta. Soprattutto è presente nell’atto formale di fede, per il quale essa crea nell’uomo una facoltà nuova (la “virtù” della fede), proporzionata alla soprannaturalità dell’oggetto che nell’atto di fede viene raggiunto.

III) I “dubbi di fede”

          Càpita spesso di ascoltare qualche cristiano che confessa con sincerità e rammarico: “Io credo, ma ho molti dubbi di fede”. Sono parole che, per essere correttamente valutate,hanno bisogno di qualche chiarimento; chiarimento, tra l’altro, che può aiutarci ad addentrarci un altro poco nell’indole complessa e arcana del “credere”.  La “certezza di fede”

          La teologia cattolica è unanime nel ritenere che la certezza (la “indubitabilità”) sia intrinseca a ogni autentico atto di fede.  Che è sempre sintetico e onnicomprensivo. L’atto di fede, nella sua sostanza, è un gettarsi tra le braccia del Dio eterno che in Cristo si è voluto rivelare. Ebbene, o ci si butta o non ci si butta: ogni esitazione vanifica lo slancio e lo contraddice. Perciò l’espressione sopra citata è in sé antitetica: o si crede o si dubita.  La “difficoltà”

          Senonché essa di solito significa in realtà un’altra cosa: non si tratta di “dubbio” ma di “difficoltà” ad accogliere l’uno o l’altro dato della Rivelazione. Le “difficoltà” del vero credente non sono mai “dubbi”: esse nascono dalla fatica della mente umana ad accogliere e ad assimilare una luce che la trascende e sostanzialmente l’abbaglia.  Il motivo è intuibile: la verità che facciamo nostra nel credere è adeguata non alla nostra esiguità ma alla ricchezza di Dio; e quindi è assimilabile a fatica.  Certo, la grazia illuminante ci potenzia interiormente fino a operare il prodigio della conoscenza propria di Cristo (e del Padre) che diventa conoscenza anche nostra. Ma la grazia illuminante non impedisce che le nostre naturali capacità di partenza diano poi libero sfogo a mille interrogativi e a mille “perché”; interrogativi e “perché” che sono il segno e la prova che si è ben risoluti a entrare con la nostra indole irrinunciabile di indagatori nel grande gioco di Dio.  Come si vede sono una cosa ben diversa dai “dubbi”, anche se avviene che, almeno sotto il profilo psicologico, tra le difficoltà e i dubbi si faccia nel soggetto qualche confusione. In realtà, la difficoltà e il dubbio sono due fenomeni dello spirito umano che non hanno niente in comune. La difficoltà è l’usuale esperienza di chi avverte il disagio intellettuale del “salto” della fede (di cui si è parlato); “salto” che però si resta ben risoluti a porre in atto; il dubbio, al contrario, è l’esitazione di chi non si decide a “saltare” e a gettarsi nelle braccia di Dio.  Con molta saggezza il cardinal Newman ha scritto: «Diecimila difficoltà non costituiscono un solo dubbio: difficoltà e dubbi non sono commensurabili tra loro» (Apologia pro vita sua, cap. V).

Card. Giacomo Biffi

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